Karl Elsener – Inventò il celebre coltellino rosso con la croce bianca

 

 

Il personaggio del FLIP di oggi probabilmente sfugge ai più: Karl Elsener. Il prodotto che ha inventato e brevettato il 12 giugno 1897 lo conoscono tutti. È il famoso “coltello da soldato”, maggiormente noto come “coltellino svizzero”. Il personaggio di cui, invece, parla l’articolo del quotidiano inglese “Indipendent” si riferisce a Carl Elsener, scomparso nel 2013: «uomo d’affari che ha trasformato il coltellino svizzero in un prodotto globale». Apparteneva alla terza generazione d’imprenditori che con il brand Victorinox hanno prodotto da fine Ottocento il famoso coltello multifunzionale dal manico rosso con la croce bianca svizzera. Croce bianca per così dire, perché le cronache recenti informano sulla pressione degli investitori e di gruppi musulmani in Svizzera che hanno portato le compagnie simbolo del paese, quali Swatch, Tissot e la chiaramente Victorinox, ad eliminare la croce bianca, se non altro, dalle pubblicità che compaiono nei paesi arabi e asiatici. La Victorinox, nello specifico, ha sostituito la croce con la lettera “V”. Autocensura. Per rimanere sul tema, aggiungiamo che dopo l’11 settembre 2001 a New York, le vendite hanno subito un calo del 40%. La Wenger, storica concorrente, è entra in crisi, tanto che ad aprile 2005 la società è stata acquistata dalla stessa Victorinox. La ragione è dovuta alla modifica delle norme di sicurezza aeroportuali che proibiscono di portare a bordo degli aerei, nel bagaglio a mano, coltelli tascabili in precedenza venduti nei negozi duty-free. Oggi fuori dagli aeroporti, dunque, possiamo acquistare indifferentemente i coltellini, pubblicizzati come “Original Swiss Army Knife” i Victorinox, e “Genuine Swiss Army Knife” i Wenger. Il cult ideato da Karl Elsener è richiestissimo ovunque, perché come diceva un vecchio slogan «nessuna attività umana è imprevista, per ogni imprevisto c’è il suo attrezzo». Il modello di punta, Swisschamp, assolve ad una miriade di funzioni differenti. Questo vale anche per l’intera gamma di circa 100 modelli, perché il coltellino si propone di soddisfare ogni necessità: cucchiaio, forchetta, bussola, cacciavite, apriscatole, seghetti per legno e metallo, stuzzicadenti, pinze e pinzette, forbici, portachiavi, lente d’ingrandimento, spatola farmaceutica, lima, altimetro, barometro, sveglia, termometro. Si trovano incorporati attrezzi inimmaginabili.

Inizialmente Karl Eisener apre nel 1884 a Ibach (dove ancora oggi risiede la fabbrica) un’attività per la produzione di posate. Rappresenta l’alternativa alla scelta di molti giovani svizzeri di emigrare nel Nuovo Mondo alla ricerca di lavoro. Necessitano, però, ingenti forniture e l’esercito potrebbe essere un buon committente. Fino ad allora aveva acquistato coltelli fabbricati in Germania. Come tutte le storie che si rispettano i primi tentativi di imporre sul mercato i suoi “coltelli da soldato” lasciano Karl Eisener coperto di debiti da saldare. Occorre correggere problemi di peso ed aumentare le funzionalità. Il nuovo progetto è registrato, come dicevamo, il 12 giugno 1897 e corrisponde al modello storico attualmente conosciuto. Questa volta il contratto con l’esercito svizzero va a buon fine e il nuovo prodotto incontra anche il favore del grande pubblico. Carl II, alla morte del fondatore, decide che è giunto il momento di fissare bene il carattere del prodotto. A cominciare dal marchio di fabbrica che si chiamerà come mamma Victoria. L’industria tramuterà, nel 1921, il nome in Victorinox, per evidenziare, con l’aggiunta della dicitura “inox”, l’utilizzo dell’acciaio inossidabile che contraddistingue a livello internazionale la qualità del materiale. Da allora l’espansione è continuata, come dimostra l’articolo di Phil Davison di seguito. Carl III è entrato a far parte dell’azienda come apprendista nel 1937, appena  lasciata la scuola. È subentrato al padre quale amministratore delegato nel 1950. All’epoca i coltelli erano ancora fatti a mano; ma per mantenere i livelli di produzione sono stati introdotti macchinari industriali. Ciò ha permesso di rispondere alle esigenze del dopoguerra provenienti dal personale dell’esercito, della marina e dell’aeronautica statunitensi con sede in Europa. E sono proprio gli americani che, riluttanti ad utilizzare per quel prodotto tanto funzionale il nome originale in lingua tedesca “Offiziersmesser” (vale a dire “coltellino”) cominciano a chiamarlo per la prima volta “Swiss Army Knife” coltellino dell’esercito svizzero. Oggi, nonostante le flessioni di fatturato a causa della “guerra al terrore”, dopo l’11 settembre, nuove linee di prodotto hanno aiutato a mantenere attiva l’azienda di famiglia, continuando a dare lavoro ad uno staff di 2.000 persone, che fabbricano giornalmente 60.000 coltelli venduti in più di 135 paesi.

 

KARL ELSENER (9 October 1860 – 26 December 1918) was a Swiss cutler, inventor and entrepreneur. Karl Elsener completed an apprenticeship as a knife maker in Zug. After some journeyman years he opened a factory in Ibach, Switzerland in 1884 for the manufacture of knives and surgical instruments.[3] He invented the Swiss army knife in 1891 and developed his knife manufacturing company into what has become Victorinox. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

INDEPENDENT

Carl Elsener: Businessman who transformed the Swiss Army Knife into a global product

Antonio Meucci – Quando 10 dollari possono defraudare un’inventore

 

Antonio Meucci

 

Martedì 11 giugno 2002, a Washington, il congresso degli Stati Uniti, con la risoluzione 269, ha riconosciuto ufficialmente che Antonio Meucci è il vero inventore del telefono. Dopo la dichiarazione del congresso, si è mosso anche il museo Garibaldi-Meucci. Dal 1962, infatti, la fabbrica di candele di Antonio Meucci a Staten Island, New York – dove ha lavorato anche Giuseppe Garibaldi – è stata restaurata e i cimeli esposti al pubblico. «Per oltre 50 anni il museo ha svolto la sua missione di preservare le eredità di questi grandi uomini e di promuovere la comprensione del patrimonio italo-americano attraverso programmi e corsi culturali, artistici e educativi», così nella nota d’accoglienza. In virtù di ciò, la direttrice del museo Garibaldi-Meucci, Emily Gear, e il Comitato degli italo-americani, presieduto dal giudice della Corte Suprema Dominic R. Massaro, hanno chiesto in modo formale che anche nei libri di testo scolastici statunitensi la scoperta del telefono sia rettificata e attribuita correttamente ad Antonio Meucci e non all’americano Alexander Graham Bell. Lo scozzese passa, dunque, in secondo piano, anche se Meucci morì povero in canna, mentre Bell non solo assurse a gloria, ma accumulò una fortuna proprio grazie all’invenzione. Un caso esemplare che la storia ripete con ordinaria facilità.

Il fiorentino Meucci, non è un vero e proprio scienziato, ma un autentico e brillante inventore, titolare e depositario di ben 22 brevetti. Ne enumeriamo solo alcuni: filtri per la depurazione delle acque (1835), sistema per la doratura galvanica delle spade (1844), apparecchio per elettroterapia (1846), procedimento per la pietrificazione dei cadaveri (1849), metodo per decolorare il corallo rosso (1860), bruciatore per lampade a cherosene (1862). Ma chi è Meucci? La scheda che troviamo su Wikipedia (di seguito) è precisa, per cui vale descrivere solo i tratti salienti. Antonio Meucci nasce a Firenze nel 1808. Conclusi gli studi all’Accademia di Belle Arti, per sette anni svolge l’attività d’impiegato doganale, poi è assunto dal Teatro della Pergola quale aiuto attrezzista. Non si limita al lavoro ordinario, ma grazie alla sua creatività escogita strani macchinari di scena. La sua fama è tale da essere richiesto nel 1835 dal Teatro Tacon dell’Avana. Con lui parte la moglie Ester, che fa la costumista. Meucci idea un nuovo complesso di sipari e installa una macchina, importata dagli Stati Uniti, con la quale alzare e abbassare il livello del palco. Ben presto gli amici, a conoscenza delle sue elaborazioni, gli consigliano New York. Nel 1850 vi si trasferisce e qui conosce anche Giuseppe Garibaldi, che lo convince ad avviare una qualche attività e dare lavoro non solo a lui, ma anche agli altri esuli italiani. Meucci apre la prima fabbrica di candele steariche delle Americhe. Ricorderà Garibaldi: «Antonio si decise a stabilire una fabbrica di candele e mi offrì di aiutarlo nel suo stabilimento. Lavorai per alcuni mesi col Meucci, il quale non mi trattò come un lavorante qualunque, ma come uno della famiglia, con molta amorevolezza». Meucci ha però una invenzione da perfezionare, un chiodo fisso: quand’era ancora alla Pergola aveva già architettato un primitivo apparecchio: una sorta di tubo per comunicare dal palcoscenico. A Cuba, grazie ai suoi studi sull’elettricità, aveva poi scoperto il modo di trasmettere la voce. Una volta a New York gli esperimenti sono ora condotti in modo più sistematico. Il caso vuole che nel 1854 Ester, sua moglie, è immobilizzata a letto dall’artrosi deformante. Occorre concepire un sistema di comunicazione tra il laboratorio, posto nello scantinato dell’edificio, e la camera matrimoniale al secondo piano. Con qualche mezzo di fortuna idea il “teletrofono”: gli bastano una scatola di sapone da barba e un diaframma di metallo. È il vero prototipo del telefono. Le avversità, però, non mancano, perché nell’estate del 1871 è ferito ad una gamba dall’esplosione della caldaia, mentre è in viaggio sul traghetto Westfield, di collegamento fra Staten Island dove abita e New York. Non può camminare; perde il lavoro. La situazione economica precipita e si riduce al buon cuore degli amici.

Non si perde d’animo: a fine anno con tre italiani dà vita alla Telettrofono Company. La società si propone di portare avanti gli esperimenti, di estendere le attività in Europa e in altre parti del mondo. Occorre però depositare brevetti, ma non c’è la giusta disponibilità di capitale. Dissolte le chimere della società nell’arco di un anno, Meucci si presenta al Patent Office di New York e versa 20 dollari raggranellati con una colletta fra gli amici per un brevetto provvisorio. Come finisce l’illusione lo sintetizza la risoluzione 269 approvata dal congresso degli Stati Uniti. Meucci, vivendo di assistenza pubblica, non è in grado di rinnovare l’avvertenza dopo il 1874. A marzo del 1876, Alexander Graham Bell, che conosce gli esperimenti e i materiali di Meucci, conservati dopo il fallimento della Telettrofono Company, ottiene il brevetto definitivo che lo accredita quale inventore del telefono. Meucci, naturalmente, solleva il caso in Tribunale. Il 13 gennaio 1887, il brevetto sta per essere annullato per frode e falsa dichiarazione di Bell, avendo asserito che i progetti da lui presentati si riferiscono ad una “nuova invenzione”, mentre le prove portate da Meucci dimostrano che il telettrofono è largamente documentato. Meucci però muore nell’ottobre del 1889, mentre il brevetto concesso a Bell scade a gennaio del 1893. Quattro anni per avviare e consolidare il business. La fortuna gli arride del tutto: il caso è interrotto senza mai raggiungere un verdetto definitivo sulla questione di fondo: a chi riconoscere l’invenzione del telefono. Occorre aspettare il 2002, quando il congresso degli Stati Uniti, in linea definitiva, decide di attribuire la paternità dell’invenzione ad Antonio Meucci, in considerazione del fatto che «se Meucci fosse stato in grado di pagare la tassa di $10 per mantenere l’avvertenza dopo il 1874, nessun brevetto avrebbe potuto essere rilasciato a Bell». Un fatto è certo: Graham Bell, abile businessman, accumulò un bel patrimonio. La verità sul primato dell’invenzione è stata infine ristabilita. Rimane la soddisfazione morale per un Meucci morto defraudato e in povertà.

LEGGI LA RISOLUZIONE: H.Res.269 – 107th Congress (2001-2002)

LEGGI ANCHE SU EXPERIENCES.IT: Massimo Sideri – Storia italiana delle scoperte dimenticate

VISITA IL MUSEO GARIBALDI_MEUCCI A STATEN ISLAND NEW YORK

Museo Garibaldi-Meucci

 

 

 

 

 

 

 

 

ANTONIO MEUCCIall’anagrafe Antonio Santi Giuseppe Meucci (Firenze, 13 aprile 1808 – New York, 18 ottobre 1889), è stato un inventore italiano, celebre per lo sviluppo di un dispositivo di comunicazione vocale accreditato da diverse fonti come il primo telefono, il cosiddetto telettrofono. Il brevetto del telefono fu ufficialmente intestato per la prima volta ad Alexander Graham Bell, che è anche noto nella cultura popolare mondiale e nella comunità scientifica internazionale come l’inventore dell’apparecchio. Una risoluzione approvata dal Congresso degli Stati Uniti d’America l’11 giugno 2002 ha comunque riconosciuto a Meucci l’invenzione del telefono, indicandolo ufficialmente come l’inventore e disconoscendo il dubbioso operato di Bell. Numerose enciclopedie accreditano Meucci come l’inventore del telefono. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

RADIO RADICALE

Speciale Media e dintorni
Intervista a Massimo Sideri sul suo libro “La sindrome di Eustachio. Storia italiana delle scoperte dimenticate”

Bridget Bishop – A Salem è la prima vittima della follia collettiva

 

 

Salem, il cui territorio ricade oggi, in gran parte, nella città di Danvers, negli Stati Uniti, è all’epoca un villaggio del New England, ultimo avamposto prima di inoltrarsi nei territori indiani. La località è colonizzata nel 1626 da un gruppo di immigrati europei, calvinisti, condotti da Roger Conant, in opposizione alla politica anglicana di re Carlo I° contro le minoranze religiose. La maggior parte degli abitanti della colonia inglese professa il puritanesimo, vive all’insegna della moderazione dei costumi e soprattutto dell’inflessibilità morale. Si richiede che gli abitanti siano molto devoti e rispettosi della fede. Fanno pasti moderati e praticano i digiuni prescritti. Non conoscono il gioco d’azzardo. Non consumano tabacco o alcol, né tantomeno droghe, considerando fra queste anche caffè e tè. Gli abiti non devono essere vistosi, né gli atteggiamenti possono essere provocanti o comunque sconvenienti. I giovani sono obbligati alla castità prematrimoniale. Contratto, poi, il matrimonio, è pretesa la massima fedeltà coniugale. Ad eccezione degli inni liturgici per gli adulti sono proibite musica e danze; per i bimbi giochi e ogni tipo di giocattolo, considerati distrazioni futili. In breve, a Salem, tra i valori comuni spiccano l’onestà, l’integrità, l’obbedienza nei confronti di Dio, della legge e delle regole di vita comunitaria. Dal 1642 già in Inghilterra, patria d’origine, è ufficialmente riconosciuto il reato di stregoneria, punibile con la pena capitale. I religiosi predicano dal loro pulpito le nefandezze del demonio.

La storia delle Streghe di Salem nasce in questo clima di rigida osservanza. I numeri di un processo popolare determinato da una storia d’isteria collettiva, come oggi la definiremmo, sono presto detti. Vengono coinvolti circa 200 abitanti della comunità e ne finiscono sotto processo 144. Sotto tortura ben 54 fra questi confessano di essere devoti a satana. Via via nel corso delle sentenze sommarie sono mandate al patibolo 19 persone. Il 10 giugno 1692 a Salem iniziano le esecuzioni. La prima a salire sul patibolo è Bridget Bishopper condannata all’impiccagione. Il luogo dell’esecuzione è ancora oggi conosciuto come Witches’ Hill (la collina delle streghe). La Bishop, 60 anni d’età, è una proprietaria terriera. Coltiva preferibilmente mele e possiede una taverna. È sospettata di professare la magia nera; ma non solo, perché è anche accusata di aver sedotto molti fra gli uomini del villaggio e di incantare con le sue pratiche di stregoneria le giovani fanciulle di Salem. Questa storia, invero, nasce proprio fra le giovani fanciulle in fiore e si allarga progressivamente agli anziani del villaggio. Prende avvio quando nell’inverno, fra il 1691 e il 1692, Elizabeth Parris, conosciuta col diminutivo di Betty, figlia del reverendo, e sua cugina Abigail Williams, iniziano a manifestare dei disturbi comportamentali: hanno atteggiamenti aggressivi verso familiari e estranei, emettono strani versi vocali, si contorcono oppure si nascondono dietro i mobili, strisciano per terra. In particolare smettono di parlare e di rispondere alle domande dei parenti sulla causa del proprio “malessere”. Nessuno oggi si meraviglierebbe, considerando che hanno circa dieci anni d’età. Il medico interpellato non diagnostica malanni fisici, ma ricordiamo che a Salem, data la rigidezza dei costumi, anche i bambini sono dei piccoli adulti; perciò i loro non possono che essere sintomi derivati da un “malocchio”. La notizia non tarda a diffondersi, tanto che riecheggia un nuovo strano caso. Altre sei  brave ragazze del villaggio sono vittime di un seme follia collettiva. Cosa che è vera, anche ai nostri occhi, ma gli abitanti di Salem hanno tutt’altro metro di giudizio rispetto al nostro. L’ipotesi espressa dal dottor Griggs è che il maligno abbia preso possesso delle giovani. Chi lo ha evocato? se non qualche strega che si occulta fra le donne della comunità? Secondo il reverendo Parris, William Stoughton e William Phips, a Salem alcune donne praticano la stregoneria.

La caccia alle streghe comincia dai popolani e non dalle autorità giudiziarie, anche perché nessun reato civile o penale è ancora dimostrabile. Una donna, Mary Sibley, sa come individuare le colpevoli. Basta far mangiare ad un cane una focaccia di segale impastata con l’urina delle sospettate e si scoverà chi è la vera strega; ma la missione non consegue alcun risultato. È allora che si ritiene giusto istituire un “regolare” tribunale. Tanto regolare che fra le prove addotte è quella dell’evidenza spettrale. Le donne accusate sono chiamate a deporre in tribunale alla presenza delle vittime. Se nell’udire la loro voce o nell’ascoltare l’esposizione dei fatti le ragazze avvertiranno malesseri o manifesteranno qualche stato di crisi isterica, la prova spettrale fornirà i risultati sperati. Questo avviene quando il popolo si fa giustizia da sé ed anni di ordinamento giuridico sembra non siano mai esistiti. Per conoscere l’evoluzione del processo basterà ai nostri lettori seguire la scheda che appare di seguito all’artico, su Wikipedia. Per avere conferma di come, ancora oggi, questi casi non siano per nulla superati, occorrerà leggere l’articolo di Tiziana Della Rocca riflettere.

 

BRIDGET BISHOP (Inghilterra, 1632 circa – Salem, 10 giugno 1692) fu la prima condannata a morte per stregoneria durante i processi alle streghe di Salem nel 1692. Il suo cognome da nubile era probabilmente Playfer, o forse Playford. Si sposò tre volte. Il suo primo matrimonio, intorno al 1660, fu con il capitano Samuel Wasselbe. Il secondo matrimonio, celebrato il 26 luglio 1666, fu con Thomas Oliver, vedovo e importante uomo d’affari, da cui ebbe una figlia, Christian, nata l’8 maggio 1667, che in seguito sposò Thomas Mason. Rimasta vedova, Bridget fu accusata di aver ucciso il marito ricorrendo ad arti magiche, ma fu assolta per insufficienza di prove. Il suo ultimo matrimonio fu celebrato nel 1687: sposò Edward Bishop, un ricco legnaiolo. Nei verbali processuali che la riguardano si legge che era originaria di Salem[1], termine con cui si intendeva Salem Town (oggi Danvers), mentre in altri atti di accusa Salem Village è specificato per esteso. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

IL FOGLIO

Streghe di ritorno

Maria Teresa d’Asburgo – L’infanta di Spagna sposa Luigi XIV re di Francia

Presentazione a Luigi XIV di Francia da parte di Filippo IV di Spagna della figlia Maria Teresa, promessa sposa e prossima regina di Francia.

 

Saint-Jean-de-Luz, è un comune francese ad un tiro di schioppo da Biarritz e Bayonne, ma soprattutto è pressoché al confine con i Paesi Baschi. Il 9 giugno del 1660, nella chiesa di Saint-Jean-Baptiste de Saint-Jean-de-Luz, è celebrato il matrimonio di Luigi XIV, re di Francia, e di Maria Teresa di Spagna. Le nozze, in verità, erano state già celebrate per procura in terra spagnola il 3 giugno. Mercoledì 9 giugno avvenivano in forma ufficiale. Maria Teresa dovette preliminarmente rinunciare al trono di Spagna che la legge di successione concedeva anche alle donne. Suo padre, re Filippo IV, sottoscrisse la disponibilità al versamento di una dote di 500.000 scudi d’oro, che non pagò mai e che solo sette anni dopo fu pretesto per scatenare la Guerra di Devoluzione (1667-1668). Per questo motivo Luigi XIV invase alcune città delle Fiandre, rivendicate in virtù del diritto esistente nei territori del Brabante contro l’attribuzione a Carlo II d’Asburgo, divenuto nel frattempo re di Spagna. L’emendamento prevedeva il possesso ereditario a favore dei figli di primo letto, quale era appunto Maria Teresa divenuta moglie di Luigi XIV quel 9 di giugno, e non a Carlo II figlio di secondo letto di Filippo IV. Non solo quindi problemi di dote, ma interessi che invero riguardavano la sovranità su territori specifici. D’altra parte, lo stesso matrimonio tra il ventiduenne Luigi re di Francia e Maria Teresa infanta di Spagna avveniva per motivi politici e non sentimentali. A soli otto anni, Maria Teresa si era trovata ad essere l’unica figlia del potentissimo Filippo IV, essendo già morte le sue cinque sorelle maggiori e soprattutto il fratello Baltasar Carlos, legittimato al trono. In questo momento Maria Teresa ricopriva il ruolo di presunta erede del dominio spagnolo. Con la pace dei Pirenei, stipulata il 7 novembre 1659 tra Francia e Spagna, il cardinale Mazzarino, primo ministro e stretto consigliere del giovane Luigi, chiudeva la Guerra franco-spagnola. Filippo IV, per sigillare la ritrovata armonia fra i due Paesi, concedeva la mano di colei che non sarebbe più divenuta regina di Spagna, ma consorte del sovrano di Francia. Una concessione dura. Fin da piccola, per ragioni di Stato si era pensato di unirla in matrimonio dapprima a suo cugino l’arciduca Ferdinando e, dopo la sua morte, al fratello che quattro anni dopo diverrà l’imperatore Leopoldo I. Ambedue rappresentano il ramo degli Asburgo d’Austria. L’ipotizzato matrimonio avrebbe di nuovo riuniti gli sconfinati territori asburgici appartenuti a Carlo V, sul cui regno non tramontava mai il sole, che per successione erano stati divisi fra i suoi due figli. Filippo IV apparteneva invece all’altro ramo, quello degli Asburgo di Spagna.

Nonostante i progetti di riunificazione dinastica, la giovane Maria Teresa avrebbe voluto sposare il re di Francia, quel Luigi XIV, cugino anche lui sia da parte di padre che di madre, ma appartenente alla opposta casata dei Borbone. Allorché, con la pace, si avviano le iniziative per il matrimonio, che soddisfano le mire politiche del cardinale Mazzarino sulla Spagna, è richiesto un ritratto dell’infanta, da spedire a Parigi: sarà dipinto da Velasquez e con questo ritratto sarà spedita anche una ciocca dei suoi capelli. Benché Maria Teresa fosse certa che il futuro sposo fosse innamorato di lei, Luigi era preso dalle avvenenze di Maria Mancini, nota fra le sette nipoti del cardinale italiano, chiamate appunto mazarinettes, portate in Francia per far loro contrarre matrimoni vantaggiosi. Sia la Regina-madre, Anna d’Austria, che lo stesso Mazzarino si opposero ad un legame infruttuoso per le sorti di Stato. I due sposi s’incontrano per la prima volta sull’isola “des Faisans”, porzione di terra emersa fra le acque del fiume Bidasoa, confine naturale tra Francia e Spagna, scelto per i negoziati e la stipula del trattato dei Pirenei.

All’epoca Maria Teresa non conosce il francese, che apprenderà a corte. Al Louvre Anna d’Austria, nel contempo suocera e zia, le insegnerà la lingua e come destreggiarsi nel ruolo di regina, ma lei conserverà sempre la propria naturale goffaggine. Non aveva le capacità diplomatiche, si annoiava durante le rappresentanze ufficiali, si presentava in pubblico barcollando sulle sue zeppe altissime per camuffare la bassa statura, così disarmonica rispetto all’incedere del sovrano, sempre odorando d’aglio o con la bocca e i denti imbrattati di cioccolato di cui era golosissima. Luigi XIV prese ben presto ad evitare di farsi accompagnare da lei, dove non fosse strettamente necessario. La regina temeva le ombre della notte e occorreva che una delle sue cameriste spagnole le raccontasse storie per farla addormentare, tenendola per mano. Luigi XIV tornò a dedicarsi alle numerose favorite, ma fu sempre ligio ai suoi doveri coniugali. Maria Teresa dette alla luce sei figli in dieci anni, che scompariranno tutti prima della morte dei genitori. Sopportò l’adulterio, poiché comprendeva che il loro matrimonio e persino la messa al mondo dei figli facevano parte di accordi di Stato. Raccontano le cronache che quando negli ultimi anni della sua vita ritrovò le gentilezze e le attenzioni del marito solesse dire: «Dio ha creato Madame de Maintenon per rendermi il cuore del Re! Mai mi ha trattato con tanta tenerezza da quando la ascolta!». Madame de Maintenon era la compagna che Luigi XIV sposerà con matrimonio morganatico (senza cioè diritti di successione né per la moglie che per i figli) quando Maria Teresa passerà a miglior vita. Ragioni di Stato, dunque. Tali ragioni di Stato porteranno Filippo V, affezionato nipote del re Sole, ad essere il primo re di Spagna appartenete alla dinastia dei Borbone. Assurse al trono, proprio perché sua nonna, ovvero la regina Maria Teresa, era figlia di primo letto di Filippo IV di Spagna e sorella di Carlo II ultimo re spagnolo della dinastia degli Asburgo, nato dopo il matrimonio di Maria Teresa con Luigi e morto come i suoi fratelli prima di lei.

LEGGI L’ANTEPRIMA DEL LIBRO DI ANTONIA FRASER: Love and Louis XIV: the women in the life of the Sun King  

ACQUISTA IL LIBRO IN ITALIANO DI ANTONIA FRASER: Gli amori del Re Sole: Luigi XIV e le donne

 

MARIA TERESA D’ASBURGO, anche chiamata Maria Teresa d’Austria, soprattutto nella storiografia francese (in spagnolo: María Teresa de Austria; in francese: Marie Thérèse d’Autriche) (San Lorenzo de El Escorial, 10 settembre 1638 – Versailles, 30 luglio 1683), era figlia del re Filippo IV di Spagna e di Elisabetta di Francia. Dalla nascita ebbe i titoli di infanta di Spagna e del Portogallo e di arciduchessa d’Austria; probabile erede al trono spagnolo, venne destinata col Trattato dei Pirenei (1659) in moglie a Luigi XIV di Francia, suo cugino di primo grado da parte sia di padre sia di madre. Nata come Infanta Maria Teresa, Infanta di Spagna all’Escorial, era la figlia di Filippo IV, re di Spagna, e della sua consorte Elisabetta di Francia, che morì quando Maria aveva solo sei anni. Poiché la corona spagnola (a differenza di quella francese) non era vincolata alla legge Salica, era possibile per una donna non solo trasmettere il diritto di successione, ma anche ascendere al trono. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

THE NEW YORK TIMES

The King’s Bed

Marie-Antoine Carême – Era Chef francese ma introdusse il “servizio alla russa”

 

Servizio alla russa

 

Antonin Carême non solo sapeva cucinare, ma anche scrivere. Anzi, amava più scrivere che cucinare e spiegava perché: «Niente è più effimero di un pranzo. Lo spazio di una, due ore, e tutto diventa scarto, carcassa, rifiuto. Un libro rimane. E cammina. Perché le buone idee hanno le gambe e fanno il giro del mondo». Le sue buone idee le riportò su L’Art de la Cuisine Française, ben 5 volumi, usciti in due anni: 1833–34. Fu al servizio personale di Charles Maurice de Talleyrand, di Napoleone Bonaparte, dello Zar Alessandro I, di Giorgio IV d’Inghilterra e James de Rotschild. Sin dalla nascita, l’8 giugno 1784, il suo nome lo legò ad una regina. Fu infatti chiamato Marie-Antoine in onore di Maria Antonietta. Il figlio del manovale Carême era solo un bambino, quando il 16 ottobre 1793 la regina di Francia perse la testa sulla ghigliottina. «Bisognerà cambiargli nome, al ragazzo…» s’interrogarono i genitori. «Ci ha già pensato lui, dice che si farà chiamare Antonin». Così Antonin a quindici anni, fa apprendistato nella pasticceria Bailly, e qui diventa il più bravo “tiratore” di sfoglia per torte dolci e salate. Frequenta nel tempo libero la biblioteca Nazionale di Parigi, legge molto e sbircia soprattutto le stampe dei solenni monumenti greci e romani. Ha idea di realizzarli in marzapane per le “pieces montees”, preparazioni di pasticceria di grandi dimensioni, sistemate in modo da servire da ornamento d’effetto ad imitazione di forme architettoniche, tipo le torte su più piani montate per il taglio nuziale. Careme, prende ad escogitare nuovi usi e costumi, sia in cucina che in tavola. Decora i piatti da portata. Adotta nuove regole igieniche per chi è ai fornelli, come l’utilizzo dei grembiuli bianchi e della “toque blanche”: come esiste il tocco del magistrato, anche i cuochi da allora porteranno il tipico cappello a fungo. Serve ad evitare il sudore della fronte con un’adeguata areazione del capo: simile al tiraggio delle stufe, ma rinfrescante.

Antonin Carême, però, non rivoluzionò soltanto le cucine, ma persino la sala da pranzo allestita per i grandi banchetti di gala. Propose un diverso servizio a tavola, che mutò del tutto la struttura di un pasto, dalla disposizione in tavola dei piatti, alla maniera e all’ordine di servire le portate. Era uso che gli ospiti entrassero in sala soltanto dopo che il tavolo era stato imbandito. Fra il Seicento e il Settecento si impose nelle corti europee il “servizio alla francese”, che consisteva nel mettere in tavola o su opulenti buffet tutti i piatti freddi (del cosiddetto servizio di credenza), mentre i piatti caldi (del cosiddetto servizio di cucina) erano mantenuti a temperatura in appositi scaldavivande. I commensali si servivano scegliendo secondo il proprio gusto personale senza un ordine preciso. «Tutto cambia nel 1810», spiega Giancarlo Gonizzi,direttore dell’Accademia Barilla, nell’articolo che segue, «quando il principe Alexandre Kourakin, ambasciatore dello zar a Parigi, organizza un pranzo nella sua casa di Clichy. Gli ospiti entrano nella sala da pranzo e rimangono sbalorditi: i piatti ci sono, ma in tavola non c’è altro, all’apparenza non c’è nulla da mangiare». L’idea di Carême fu di predisporre solo i coperti e pochi piatti freddi come antipasti. Tutto il resto giunse a mano a mano direttamente dalle cucine. I piatti erano poggiati sui gueridon di servizio da dove lo chef de rang si occupava della mise en place, preparava eventuali piatti flambè, eseguiva il trancio direttamente in sala. I commis de rang servivano i piatti al tavolo, mentre i sommelier versavano acqua e vino. Era nato il “servizio alla russa”.

Come tutte le innovazioni occorsero anni perché fosse accettato, non solo dai commensali, ma persino dai cuochi. Vincenzo Agnoletti, chef di Maria Luigia d’Austria, commentava negativamente: «Il servire le tavole alla russa, con un piatto di cucina alla volta, trinciandolo fuori di tavola, è una cosa molto inconveniente, poco decorosa, ed il cuoco non figura nulla con il suo lavoro; onde io non solo non l’approvo, ma in Francia e Germania ancora non è sistema che piace, onde è inutile a parlarne». I vantaggi, per la verità erano e sono ancora oggi evidenti: gli ospiti non devono affannarsi intorno ai vassoi del buffet, i piatti non si raffreddano poiché giungono caldi appena cucinati, non c’è spreco di vivande e il servizio è ordinato. Un difetto, però, fu subito lampante: cosa sarebbe giunto in tavola? Come proporzionare quanto mangiare, così da gustare una portata dopo l’altra, dai piatti d’ingresso alla frutta? Carême risolse da par suo la nascente esigenza, introducendo l’uso del menù, con il quale gustare il pranzo prima leggendolo e poi assaporandolo. Si apriva però ancora un quesito: con quale ordine servire le portate? Ogni nazione scelse il proprio ordine.

ASCOLTA ANCHE L’INTERVISTA  A EDGARDA FERRI, autrice del libro “Il cuoco e i suoi re” (Skira)

 

MARIE ANTOINE CARÊME ARFÄNĚ (Parigi, 8 giugno 1784 – Parigi, 12 gennaio 1833) è stato un cuoco e scrittore francese. A Carême si deve una grande attività di semplificazione e codifica dello stile di cucina noto come haute cuisine, la componente più elaborata della cucina internazionale. Nacque a Parigi nel 1784, poco prima quindi della Rivoluzione francese, fu abbandonato in tenera età dai suoi indigenti genitori, da giovanissimo iniziò a lavorare come garzone di cucina in una griglieria parigina in cambio di vitto e alloggio. Nel 1798 divenne apprendista di Sylvain Bailly, un celebre pâtissier il cui negozio era nei pressi del Palais-Royal. Bailly ne riconobbe il talento e l’ambizione. Carême divenne famoso per i suoi croquembouche e altre pièce montée, elaborate preparazioni di pasticceria, spesso alte oltre un metro, utilizzate come centrotavola e fatte interamente di zucchero, marzapane e prodotti di pasticceria che Bailly esponeva nella vetrina del negozio. Tra di esse vi furono ricostruzioni di templi, piramidi, antiche rovine e altre strutture architettoniche per le quali Carême traeva ispirazione consultando i testi di storia dell’architettura nella vicina Bibliothéque Nationale. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

IL GIORNALE

Il cibo che fa la storia

Antoni Gaudí – Il giorno che finì sotto un tram e nessuno lo riconobbe

 

 

Ogni giorno è accaduto qualcosa e non c’è nulla da meravigliarsi; ma ci sono avvenimenti che rimangono sui libri di storia ed altri che si perdono nel nulla. Il 7 giugno 1926 l’architetto Antoni Gaudì, tra i massimi esponenti del Modernismo catalano, fu investito da un tram e tre giorni dopo morì. Chiunque abbia avuto modo di visitare Barcellona ha potuto vedere capolavori come Parc Güell, Casa Batllò, Casa Milà, inseriti nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. Chiunque, senza neppure avere visitato Barcellona, conosce però le torri svettanti della Sagrada Familia, la cattedrale che Gaudì iniziò nel 1882, con richiami stilistici neogotici. Di quelle torri ne sono state erette, fino ad oggi, solo 8 delle 18 torri progettate: dodici dedicate agli apostoli, quattro agli evangelisti, una a Maria e la più alta a suo figlio Gesù. Il pomeriggio del 7 giugno nessuno avrebbe mai immaginato che il progetto sarebbe rimasto incompiuto. Solo una città riconoscente per la fama che quell’architetto visionario le avrebbe dato si è imposta il dovere (ambizioso) di portare a compimento i disegni e i modelli che restavano in studio, poi dispersi durante la Guerra Civile del 1936-39. Di questo parla Jordi Faulí direttore della fabbriceria della Sagrada Familia. Noi di FLIP vorremmo solo ricordare l’evento di quel triste giorno.

A conclusione della giornata di lavoro, Gaudí si era incamminato a piedi lungo la Gran Via de les Corts Catalanes verso la chiesa di San Filippo Neri, per ritirarsi in raccoglimento. Mentre attraversava distrattamente la strada, fu travolto dal tram n. 30, che lo lasciò svenuto sul selciato. Fu prontamente soccorso dal tranviere e da alcuni passanti; ma nessuno lo riconobbe. Nonostante la sua celebrità pochissimi conoscevano il suo aspetto fisico. Celibe, conduceva una vita solitaria e riservata, chiuso nel suo studio di architettura come un asceta, dal quale usciva per recarsi preferibilmente in chiesa. Professava l’umiltà dei costumi, in ottemperanza della sua devozione. Pertanto, non curava l’abbigliamento, che poteva apparire malandato. Quando lo estrassero da sotto il tram e gli frugarono nelle tasche bucate della giacca troppo grande, nei pantaloni logori, alla ricerca dei documenti, trovarono soltanto delle noci e dell’uva. Un uomo magro e pallido di 74 anni, il viso imbiancato dalla barba, le gambe strette da bende per contrastare il freddo. Chi era costui: un vagabondo? un ubriaco? Sprovvisto di documenti, fu impossibile identificarlo. Un medico, che da una finestra aveva avuto sentore della disgrazia, prestò i primi soccorsi e consigliò di portare d’urgenza quel poveruomo all’ospedale. Un tassista si rifiutò di condurlo con la propria vettura, perché nessuno gli avrebbe pagato la corsa. In un modo o nell’altro, fu accompagnato all’ospedale di Santa Creu (Santa Croce) il ricovero degli indigenti. Trascorse un giorno prima che fosse riconosciuto. Il cappellano della Sagrada Familia, in visita all’ospedale, dichiarò incredulo che quel relitto d’uomo, in coma, era il grande Antoni Gaudí, «il più catalano dei catalani». Era troppo tardi: si spense il 10 giugno, dopo tre giorni di agonia. Gli innumerevoli articoli che annunciavano la notizia in tutta Europa e riportavano i tragici fatti concludevano immancabilmente: «L’architetto Gaudì è morto in un letto dell’ospedale di Canta Cruz, nella casa santa, come la nominava sempre, vittima di un incidente di tramway. La gravità del suo stato non ha permesso più di trasportarlo in altro luogo. Era uno degli uomini più dotati fra i suoi contemporanei».

 

ANTONI GAUDÍ I CORNET (Reus, 25 giugno 1852 – Barcellona, 10 giugno 1926) è stato un architetto spagnolo. Fu il massimo esponente del modernismo catalano, pur essendo la personalità meno organica a tale movimento artistico di cui comunque condivideva i presupposti ideologici e tematici, completandoli però con una ispirazione personale basata principalmente su forme naturali, che giunse a degli esiti anticipatori dell’espressionismo e di altre avanguardie, compreso il surrealismo. Definito da Le Corbusier come il «plasmatore della pietra, del laterizio e del ferro», Gaudí è stato un architetto estremamente fecondo: sette delle sue opere, situate a Barcellona, sono state inserite nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO nel 1984. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

AVVENIRE

Il direttore della fabbriceria.
«Sagrada Familia, ecco il cantiere di Gaudí»

Walter Chrysler – Nel lavoro manuale aveva la gioia creativa di un poeta

 

Giorno 6 giugno 1925: è fondata la Chrysler Corporation. Ottantaquattro anni dopo, cioè nel 2009, Chrysler Group entra a far parte di Fiat Group e nel 2014 la partecipazione azionaria è conferita alla nuova società FCA (Fiat Chrysler Automobiles). Ecco perché qualche giorno fa il Sole 24 ore poteva titolare a proposito della presentazione del piano FCA: «Il giorno più lungo di Marchionne, senza Fiat e senza Chrysler». Cosa significa? Alla presentazione del nuovo piano industriale di Fca i nomi ufficiali che hanno contraddistinto le due aziende storiche come Fiat e Chrysler non compaiono. Spiega il quotidiano di Confindustria: «La Fiat non compare perché di fatto è scomparsa l’Italia del Novecento. È scomparsa l’Italia delle auto di massa e, oggi, l’Italia vale per un decimo sugli equilibri finanziari e industriali di Fca… La Chrysler non compare perché il mondo dell’auto è ormai, nel Nord America e anche nei mercati emergenti, segnato dai Suv e perché Fca ha come unico marchio veramente globale Jeep». I tempi si evolvono, cambiano gli acquisti. Oggi il famoso detto di Henry Ford riportato nella sua biografia “My Life and Work“ (1922) non ha più senso e se l’imprenditore statunitense vi prestasse fede farebbe un bel buco nell’acqua: «Ogni cliente può ottenere una Ford T colorata di qualunque colore desideri, purché sia nero». Oggi non mutano soltanto le scelte cromatiche delle auto in ragione dei nuovi modelli legati a cultura, moda e trend dei mercati mondiali, sono del tutto abbandonati modelli storici ed interi segmenti come le auto compatte ad esempio. Ma non basta ancora, perché sono sottoposti a trasformazione gli stessi brand. La Chrysler è nata nel 1925 dalla volontà di Walter Percy Chrysler, genio dell’ingegneria e dell’imprenditoria. Era solito dire, riferendosi agli inizi della sua impresa: «Nel lavoro manuale c’è una gioia creativa che solo i poeti credono di provare. Un giorno mi piacerebbe mostrare a un poeta come ci si sente a progettare e costruire una locomotiva». Oggi il brand, dopo una grave crisi commerciale, è divento parte di una nuova filosofia di vendita. Grazie a Fiat, il brand “yankee” ristrutturato è pronto al suo nuovo ruolo. Per meglio comprendere l’evoluzione della sua storia, abbiamo selezionato un sintetico e puntuale articolo di Panorama Auto. Buona lettura.

LEGGI SU PANORAMA-AUTO.IT: Chrysler, la storia della Casa statunitense

 

CHRYSLER è una casa automobilistica statunitense fondata nel 1925, parte di Fiat Chrysler Automobiles tramite FCA US. La Chrysler fu fondata il 6 giugno 1925 da Walter Chrysler. Già nel 1924 l’imprenditore aveva lanciato sul mercato una prima auto col proprio nome, la Chrysler B-70. Uno dei principali meriti della Chrysler fu quello di aver introdotto per la prima volta all’interno del processo di progettazione delle vetture la prima galleria del vento, per ottimizzare le linee della vettura in funzione della penetrazione aerodinamica. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

IL SOLE 24 ORE

Sergio Marchionne 14 anni dopo: le sfide vinte e quelle che lascia in eredità

Fratelli Montgolfier – Tra la folla stupita il pallone si levò nell’oceano d’aria

 

Prima dimostrazione pubblica ad Annonay, segnata 4 giugno 1783.

 

“Il mondo che verrà” è una raccolta di storie. Autore è Jim Shepard, scrittore americano. Nove storie di viaggio che rievocano le vicende di esploratori e di navigatori. Il racconto da cui prende il titolo la raccolta è una storia che richiama la frontiera americana, quella rurale e ottocentesca nella quale due donne prendono a frequentarsi, viaggiando scambievolmente nei propri sentimenti. Ma la storia che interessa noi è “L’oceano d’aria”, che l’autore dell’articolo, da cui prende spunto il FLIP di oggi, definisce «una magistrale divagazione sulla vita dei fratelli Montgolfier». È il racconto nel quale Joseph Michel e Jacques-Etienne Montgolfier, dodicesimo e quindicesimo figlio di una famiglia di cartai, sono riusciti – dapprima per gioco, poi per capacità migliorate dall’esperienza – a conquistare il cielo, quell’oceano di aria e di nuvole, che non fu più il luogo dei sogni, ma il luogo della realtà. Il 5 giugno 1783 (altre fonti riportano il giorno precedente) il pallone aerostatico fu fatto sollevare da terra nel corso della prima dimostrazione pubblica, ad Annonay. Dinanzi ai notabili degli “états particuliers” e ad una frolla gioiosa, nonostante la pioggia, si compì la prima ascensione. Un pallone sferico ad aria calda, di oltre 850 metri cubi, costruito con un involucro di taffetà rivestita di carta, si levò in cielo; coprì un volo di circa 2 km, per 10 minuti e raggiunse l’altitudine stimata di 1.600-2.000 metri. Al pallone non era sospeso alcun cesto; la qualcosa avvenne invece quando l’esperienza fu ripetuta il 19 settembre del 1783. l’Aerostate Révellion si alzò con un equipaggio composto da una pecora, un’oca ed un gallo, ma a differenza della volta precedente la dimostrazione ebbe luogo nella piazza che fronteggia il palazzo reale di Versailles, alla presenza dei monarchi: il Re Luigi XVI e la Regina Maria Antonietta. Il volo durò meno, circa 8 minuti, a causa di qualche difficoltà che rese il velivolo instabile. Furono coperti circa 3 km, ad un’altezza massima di circa 500 metri. Per i meriti imprenditoriali della famiglia, il governo francese riconobbe un pubblico finanziamento e quel pallone prese il nome di Mongolfiera. Il bel racconto di Jim Shepard fa rivivere i sogni che prendono forma nel laboratorio della fabbrica paterna, i debiti accumulati, gli esperimenti di volo, il freddo pungente e secco, che si trasformarono infine nello “spettacolo garantito dall’immensità dell’orizzonte a quelle altezze”.

LEGGI ALCUNI BRANI DEL RACCONTO: L’OCEANO D’ARIA da Il mondo che verrà di Jim Shepard

 

FRATELLI MONTGOLFIER. I fratelli Joseph Michel Montgolfier (Annonay, 26 agosto 1740 – Balaruc-les-Bains, 26 giugno 1810) e Jacques Étienne Montgolfier (Annonay, 6 gennaio 1745 – Serrières, 2 agosto 1799) sono stati gli inventori della mongolfiera, il pallone aerostatico che funziona con aria calda. La loro invenzione fu il primo aeromobile a portare un essere umano in cielo. In seguito al successo dei loro esperimenti, furono nominati membri straordinari dell’Accademia delle scienze di Parigi ed il padre Pierre ricevette, come riconoscimento, il titolo nobiliare ereditario de Montgolfier dal re Luigi XVI nel 1783. Il poeta neoclassico Vincenzo Monti scrisse in onore dei fratelli un’ode, paragonando la loro impresa a quella mitica degli argonauti. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

IL GIORNALE

“Che bello il mondo che verrà.
E sarà merito della letteratura”

Carlomagno – Cavalieri e amori cortesi nei castelli della Savoia medievale

 

La mostra “Carlo Magno va alla guerra”, è allestita nella Corte Medievale di Palazzo Madama, a Torino. Prorogata da luglio a settembre 2018, presenta il rarissimo ciclo di pitture medievali del Castello di Cruet (Val d’Isère, Francia), che testimoniano un esempio importante della pittura del Trecento in Savoia. Proprio la Savoia è il nodo centrale di questa mostra, ideata nell’ambito delle iniziative della Rete internazionale di musei che ricadono oggi nei territori anticamente parte del ducato di Savoia. La mostra espone le pitture murali del Castello de La Rive a Cruet. Realizzate alla fine del secolo XIII dai signori di Verdon-Dessous, vassalli di Amedeo V di Savoia (1285-1323), prendono ispirazione dalle vicende narrate nel Roman de Girart de Vienne, scritto nel 1180 da Bertrand de Bar-sur-Aube. L’ambiente culturale è dunque quello dell’amore cortese, della guerra, con battaglie, duelli, l’assedio di un castello, una investitura feudale, ma anche momenti distensivi e piacevoli legati a scene di caccia nelle ubertose foreste di epoca medioevale e la rappresentazione di un banchetto. Tante scene che accompagnano specifici episodi narrativi del poema cavalleresco. Le pitture in mostra, che misurano complessivamente oltre 40 metri, sono il risultato di un distacco murario avvenuto nel 1985 per ragioni conservative e, dopo un restauro terminato nel 1988, sono stabilmente esposte nel Musée Savoisien di Chambery. Oltre a questi distacchi, la mostra presenta una cinquantina di opere provenienti dalle collezioni di Palazzo Madama e da altre istituzioni, con pezzi fino ad oggi mai esposti al pubblico. Tali pezzi arricchiscono l’esposizione, permettendo di immaginare la vita nei castelli medievali della contea di Savoia tra 1200 e 1300.

Il percorso espositivo è, infatti, imperniato attorno a dieci sezioni tematiche: Le pitture murali di Cruet, che raccontano la storia dell’edificio e la delicata operazione relativa al distacco degli affreschi; I committenti dell’epoca, come Amedeo V Conte di Savoia e Filippo Principe di Acaia, attraverso l’esposizione di documenti preziosi del XIII secolo; Momenti salienti della guerra, dei tornei e della caccia grazie alla presentazione di spade, speroni, punte di freccia e di lancia e naturalmente armature che evocano i cavalieri medievali. Un raro corno d’avorio ricorda le battute di caccia a cervi e cinghiali, passatempo preferito della nobiltà; Gli interni gotici, con l’esposizione di mobilio medievale; Poesie e romanzi cavallereschi, attraverso manoscritti e pagine miniate; Spese di corte illustrati da una pergamena con il resoconto delle uscite dei Savoia, accompagnato da alcune monete d’argento coniate durante il regno di Amedeo V e Aimone di Savoia; Oggetti preziosi e giochi con cofanetti in cuoio e legno dipinto, pettini e specchi in avorio, e alcuni giochi da tavolo per adulti (scacchi, tris) e bambini (bambole in terracotta); La tavola del principe, con oggetti usati nella mensa dei castelli; La devozione privata con sculture sacre provenienti dalle cappelle dei castelli della Valle d’Aosta; I cavalieri sacri, con sculture in legno e avorio che rappresentano i santi venerati nel Medioevo, come San Vittore e San Eustache.

VISITA LA MOSTRA: “CARLO MAGNO VA ALLA GUERRA”
Cavalieri e amor cortese nei castelli tra Italia e Francia
PALAZZO MADAMA – TORINO dal 29 Marzo 2018 al 17 Settembre 2018

CHEVALIERS ET AMOUR COURTOIS DANS LES CHÂTEAUX ENTRE L’ITALIE ET LA FRANCE

LEGGI ANCHE IL PIEMONTESE.IT: Gli affreschi del castello di Cruet in mostra a Palazzo Madama

 

CARLO, DETTO MAGNO O CARLOMAGNO (2 aprile 742 – Aquisgrana, 28 gennaio 814), è stato re dei Franchi dal 768, re dei Longobardi dal 774 e dall’800 primo imperatore del Sacro Romano Impero. L’appellativo Magno (dal latino Magnus, “grande”) gli fu dato dal suo biografo Eginardo, che intitolò la sua opera Vita et gesta Caroli Magni. Figlio di Pipino il Breve e Bertrada di Laon, Carlo divenne re nel 768, alla morte di suo padre. Regnò inizialmente insieme con il fratello Carlomanno, la cui improvvisa morte (avvenuta in circostanze misteriose nel 771) lasciò Carlo unico sovrano del regno franco. Grazie a una serie di fortunate campagne militari (compresa la conquista del Regno longobardo) allargò il regno dei Franchi fino a comprendere una vasta parte dell’Europa occidentale. La notte di Natale dell’800 papa Leone III lo incoronò imperatore dei Romani, fondando quello che fu definito Impero carolingio. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

LA LETTURA (CORRIERE DELLA SERA)

Carlo Magno va alla caccia
(e, dopo, invita tutti a cena)

Van Gogh – Penso di accettare apertamente il mio mestiere di matto

 

Gli stati d’animo singolari di Vincent Van Gogh, i suoi entusiasmi o le sue inquietudini, emergono nelle opere, dove soggetto e colore riflettono il mutare delle emozioni. Questo è il caso di una bella quantità di tele sul tema dei girasoli. Le troviamo esposte in molti musei del mondo: da quello statale di Amsterdam ovvero il Van Gogh Museum interamente dedicato all’opera dell’artista olandese, alla National Gallery di Londra, dal Kunstmuseum di Berna al Metropolitan Museum di New York. Cominciò a dipingere girasoli recisi a Parigi, a fine estate del 1887. Quando si trasferì ad Arles, a partire da febbraio del 1888, prese a dipingere girasoli in vaso: in una tela se ne contano 15, in un altra 12, oppure 5 o 3. Ne parla in varie lettere a suo fratello Theo. Agosto 1988: «Sto dipingendo con il gusto di un marsigliese ghiotto di boullabaisse, e non ti sorprenderà che i soggetti siano dei grossi girasoli», cosi scrive richiamandosi alla zuppa di pesce bollita a fuoco lento come sanno farla in Provenza. «Ci sto lavorando ogni mattina, dall’alba in avanti, in quanto i fiori si avvizziscono così rapidamente». Quando a ottobre Gauguin lo raggiunge e prende a vivere con lui, lo trova che dipinge ancora, ossessivamente, girasoli. A dicembre l’amico lo raffigura intento al cavalletto, un po’ infastidito perché non ama essere ritratto nel suo stato febbrile. Il tema è sempre lo stesso, solo che non è più stagione di girasoli quindi non c’è più preoccupazione che i fiori avvizziscano. Ne ha dipinti così tanti che li può replicare a memoria o ispirandosi alle tele che ingombrano le stanze che occupa al n.2 di place Lamartine, la sua «casa gialla». Gialla come la rappresenterà in un quadro e che arrederà con i suoi girasoli immancabilmente in variazioni di giallo: «Nella speranza di vivere con Gauguin in un nostro studio, mi piacerebbe realizzare una decorazione per l’ambiente. Mi piacerebbero molto dei grandi girasoli».

Il colore dominante di questi suoi lavori è, dunque, il giallo. Ora il Museo Van Gogh di Amsterdam lancia l’allarme: il giallo sta pian piano virando verso toni più cupi di un marrone olivastro. Non hanno torto i giornali di questi giorni quando titolano «I girasoli di Van Gogh stanno “appassendo”». La scoperta è frutto di due anni di studio. La “mappatura chimica” ai raggi X ha rivelato, infatti, che l’artista ha utilizzato due tipi differenti di colori a olio, uno dei quali risulta scadente, per cui è più sensibile alla luce e portato a smorzarsi. Tale variazione non è visibile ad occhio nudo, ciò nonostante in futuro il giallo di sfondo, i petali, i verdi dello stelo ottenuti sempre miscelando il colore giallo, potrebbero virare sulla gamma dei bruni. Sembrerebbero invece immuni le parti dove prevalgono gli arancioni. Frederik Vanmeert, esperto dell’Università di Antwerp, chiarisce: «Van Gogh usava un giallo cromo molto sensibile alla luce, un tipo di verde smeraldo e un rosso detto “di piombo” in aree molto piccole del dipinto, che diventeranno molto più chiare, nel corso del tempo». La motivazione è evidente. Vincent spiega a Theo le proprie ristrettezze economiche in una delle lettere: «Finora ho speso più in quello che mi serve per dipingere, tele e pigmenti, che per me stesso». A Parigi era solito acquistare i pigmenti da Tasset et Lhôte; a volte economizzava recandosi da Tanguy. «Non ti devo precisare – insiste per lettera – che, se mi comprerai i colori, le mie spese si ridurranno del 50%». Arlem non è Parigi e la scelta dei fornitori si restringe. La storia dell’arte, come si può capire, non si legge solo sui libri e anche le analisi dei restauratori possono avvalorare le parole di un artista. Fortuna è che individuate le cause del deterioramento spesso si riesce a trovare anche il rimedio. Marco Ciatti, soprintendente dell’Opificio delle Pietre dure di Firenze, conosce il fenomeno e nell’articolo del Corriere della Sera, qui di seguito, fornisce la sua soluzione al problema.

 

VINCENT WILLEM VAN GOGH (Zundert, 30 marzo 1853 – Auvers-sur-Oise, 29 luglio 1890) è stato un pittore olandese. Fu autore di quasi novecento dipinti e più di mille disegni, senza contare i numerosi schizzi non portati a termine e i tanti appunti destinati probabilmente all’imitazione di disegni artistici di provenienza giapponese. Tanto geniale quanto incompreso in vita, Van Gogh influenzò profondamente l’arte del XX secolo. Dopo aver trascorso molti anni soffrendo di frequenti disturbi mentali, si suicidò all’età di 37 anni. In quell’epoca i suoi lavori non erano molto conosciuti né apprezzati. Van Gogh iniziò a disegnare da bambino, nonostante le continue pressioni del padre, pastore protestante che continuò ad impartirgli delle norme severe. Continuò comunque a disegnare finché non decise di diventare un pittore vero e proprio. Iniziò a dipingere tardi, all’età di ventisette anni, realizzando molte delle sue opere più note nel corso degli ultimi due anni di vita. I suoi soggetti consistevano in autoritratti, paesaggi, nature morte di fiori, dipinti con cipressi, rappresentazione di campi di grano e girasoli. La sua formazione si deve all’esempio del realismo paesaggistico dei pittori di Barbizon e del messaggio etico e sociale di Jean-François Millet. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

LEGGI LA SCHEDA SU WIKIPEDIA

CORRIERE DELLA SERA

Si scoloriscono i girasoli di Van Gogh
Il giallo del capolavoro è a rischio