19- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – La città

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

La città

Gallo non fu mai, neanche al paese, di quelli che amano certi discorsi e si ubriacano in compagnia per farli con maggior libertà. Tra giovanotti c’è sempre qualcuno che ci si mette e vuota il sacco; ebbene, Gallo lo lasciava dire e non ne faceva caso, e una volta ne guardò due che susurravano, prese le carte, le mescolò e disse con calma: — Ragazzi, queste cose è meglio farle che dirle —. Era con me un giorno che tornavamo dal paese lungo l’argine, scalzi per prendere il fresco, e vediamo sotto le piante una ragazza che usciva allora dall’acqua, convinta che non passasse nessuno. Io rimango inchiodato e lí per lí divento rosso, guardai subito a terra; Gallo si mise a ridere, batté le mani e diede una voce: la ragazza scappò.

Di queste cose ne capitarono fin che studiammo insieme in città e Gallo non andò fuori corso. Legai conoscenza con tanti colleghi, specialmente suoi, e non passava quasi notte che non facessimo il mattino bevendo e giocando. Gallo m’insegnò a divertirmi senza perdere le staffe; non che mi facesse la lezione, ma mi bastava vederlo quando distribuiva le carte o rideva sopra il bicchiere o spalancava impaziente una finestra, per vergognarmi delle mie smanie. Del resto fu un buon amico per tutti, e se nessuno di noi, almeno in quegli anni, fece troppe sciocchezze, lo deve anche a lui che diceva sempre che è meglio rompersi il collo che desiderare di romperselo.

Io allora non reggevo al vino come lui (ho due anni di meno), e so che, uscendo per le strade dopo una notte di baldoria, Gallo mi costringeva a camminare, dicendo che l’aria era buona e le donne dormivano, e che quello era il momento per mostrarmi giovanotto di gamba sana e lasciarmi dietro la stanchezza e la muffa ma ritrovare la salute, per esempio in collina. E mi ci portava. Tornavamo poi col sole, freschi e intontiti, e il caffè e latte ci faceva ridere. A quei tempi coabitavamo una gran camera all’ultimo piano, che pareva una soffitta. Dopo il primo anno, che la città ci fu meglio nota in tutte le ore e le strade, provavamo un piacere anche piú vivo a guardarci d’attorno bighellonando per i fatti nostri, o aspettando su un angolo. Anche l’aria dei viali e delle singole vie adesso s’era fatta accogliente, e quel che, io almeno, non cessavo mai di godere era la faccia sempre diversa della gente sui cantoni piú familiari. Tanto piú bello era sapere che in certe ore bastava entrare in un caffè, fermarsi a un portone, fischiare in una viuzza, e i vecchi amici sbucavano, ci si metteva d’accordo, si andava, si rideva. Divenne bello, in compagnia, pensare che la notte o l’indomani sarei stato solo volendo; o, quando rientravo solo, che mi bastava uscir di casa per far comitiva. Fu per questo che, dopo il primo inverno, decisi di buon accordo con Gallo di separarmi da lui e trovai una camera poco lontana dal centro, in una via alberata, al terzo piano. Mi decise Gallo, dicendo che, se non prendevo io quella camera, l’avrebbe presa lui. Aveva ai vetri le tendine bianche, e un letto a divano. Io non ero preparato a un ambiente cosí cittadino, e meno ancora all’intimità con la padrona di casa che, secondo Gallo, doveva risultarne. Costei non aveva altri inquilini, e mi avrebbe trattato come un figlio. Non era piú giovane, ma di pelle calda e occhi vivi sulla sua piccola statura. Notai fin dal primo incontro che si stringeva al seno la vestaglia, con troppa sollecitudine per essere innocente. Lo notai ma decisi di non farne nulla. L’idea di crearmi in casa una donna che potesse accampare su me e sulla mia pace dei diritti, m’inquietava. E per quanto talvolta costei venisse a fumare una sigaretta nella mia camera ridendo con me, non c’intendemmo. Preferivo lasciar credere agli amici che avevo avuto fortuna, e passare certe notti – specialmente nella bella stagione – a finestra spalancata, smaniando nella speranza che si decidesse lei a entrarmi in camera e gettarmi le braccia al collo. Ma quest’ora non venne mai, e Gallo difese presso gli amici il mio silenzio.

Le nostre avventure erano soltanto di strada; e anche le baldorie che avevano luogo nello stanzone di Gallo tendevano alla disputa, all’ubriachezza, alla vociferazione, piú che allo stravizio. Uno degli amici, un cittadino, che vi portò una sera una sua ragazzotta che fumava come un uomo e aveva le unghie dipinte, ci guastò ogni piacere. Gallo gli disse che se voleva l’uso della stanza per un pomeriggio non aveva che da chiederlo, ma che dove si discorre una donna è superflua. Io non ero di questo parere, per me una donna era sempre una donna; ma sentii forse piú a fondo degli altri sulle nostre parole l’impaccio e il peso di quegli occhi curiosi. A quel tempo ero ingordo di compagnia, ogni sorta di compagnia, ma specialmente quella gaia e familiare dei visi noti. Noialtri di campagna siamo cosí: ci piace guardare di là dalla siepe, ma non scavalcarla. Gli amici che avevamo, erano i benvenuti; ma una novità improvvisa c’inquietava. Non voglio dire con questo che Gallo si privasse di nulla. C’erano giorni che ci toccava finir la serata senza di lui, in fondo a una trattoria. Ma in questi casi, appunto, ci aveva chiuso l’uscio in faccia.

Nella mia smania di compagni e di festa trascorsi eccitato quell’anno, temendo soltanto l’estate che ci avrebbe interrotti. Gallo non diceva nulla, ma sapevo che per lui, sempre uguale a se stesso, anche l’estate avrebbe avuto i suoi piaceri. Per esempio, tornare fra i suoi, prender parte ai lavori sulle terre del padre, andare in festa nei paesi circostanti. Cose che a me, nella esaltazione della nuova vita, scolorivano. Sapevo che la città doveva essere, sarebbe stata, piú bella, se soltanto avessi continuato a viverci e avuto il coraggio necessario. Da troppo poco avevo scoperto la mia stanza, la gioia di entrarci e uscirne nelle ore piú piccole, le lente sere che aspettavo con Gallo che venissero gli altri. Certe notti pigliavo sonno, stanchissimo, pregustando l’indomani, un avvenire festoso e tutto quanto disponibile. La mia padrona s’affacciava adesso alla porta con un piccolo sorriso, rigirandosi la sigaretta fra le dita, e mi chiedeva se poteva entrare. L’aiutavo ad accendere, e poi lei si aggirava parlando e mi trattava come un uomo, e finiva per sedersi accavallando le gambe nella poltrona accanto al letto. La segreta possibilità che accendeva i suoi occhi mi teneva tutto desto e voglioso. Capivo che anche lei se n’era accorta.

Il giorno che me ne accomiatai per tornare a casa, mi aiutò a fare la valigia, e intanto mi chiedeva se mi ero divertito durante l’anno. Io mi sentii quasi truffato, che avesse atteso quel momento per venire alle confidenze, e le dissi e ridissi che mi aspettasse, nell’autunno sarei tornato da lei. Glielo dissi tante volte che mi sentii goffo, ma anche lei sorrideva e mi parve commossa.

L’estate passò, per me in attesa, per Gallo in lunghe giornate tra l’aia e la stalla, in levate col sole, in veglie, in discussioni coi braccianti. Quando andavo a cercarlo, nella bassa cucina della loro fattoria, m’invitava a colazione o a cena e mi faceva bere, e i suoi, le sue sorelle, i nonni, mi parlavano come se non mi fossi mai mosso dal paese. Ciò non mi dispiaceva, ma anche Gallo era tutto preso nella sua giornata e si ricordava del passato soltanto in certe sere che tornavamo dal paese sotto la luna. Lui del resto in città studiava agraria e nel prossimo inverno sarebbe andato fuori corso. Io pensavo a tutt’altro; fra i colleghi cittadini mi ero molto legato a qualcuno che frequentava i teatri e discuteva, e avevo trovato in questo un nuovo senso della vita che mi occupava la giornata. Una sera di luna, proprio sull’argine, confessai a Gallo che con la mia padrona non avevo concluso nulla. Gallo mi parlò di un suo amore cittadino e confidò che era stato lí lí per portarsela in casa dai suoi, ma che aveva poi capito che il bello di queste cose è non farle sul serio. Cioè, sul serio ma non passare un certo limite. Io gli dissi ch’ero pronto invece a passare ogni limite ma non mi riusciva di trovare l’oggetto.

A novembre trovai la mia camera già affittata, ma la padrona, sempre in vestaglia e sempre sollecita, mi scongiurò di venirla a trovare, di non farle quel torto. La confusione della città me la tolse di mente, e mi allogai non so dove in una pensione, fin che d’accordo con Gallo non tornai nell’antica stanzaccia comune. Quest’anno a lui non occorreva piú risiedere; faceva scappate; rimase durante l’inverno, ma con la bella stagione cominciò a viaggiare perché, adesso ch’era andato fuori corso, suo padre lo voleva presente ai lavori e non gli fece grazia di un mese continuo. Ci furono sí delle schiette serate come una volta, in cui si bevve e vociò nella nostra stanza; quasi tutti i colleghi tornarono a noi; ma capivo che l’anima del gruppo era Gallo, e Gallo adesso aveva cose a cui pensare. Io andai molto a teatro – anche questo era bello – e i nuovi amici mi accettarono con sé. Con loro la vita aveva un sapore diverso; si andava per esempio a ballare, conobbi donne e ragazze che poi ritrovavo nei caffè o nelle famiglie. Facevo sforzo per distinguere quelle che erano sorelle dei miei colleghi dalle semplici amiche notturne, giacché vestivano e parlavano tutte allo stesso modo. Ma quando fu aprile, e poi maggio, mi mancarono le lunghe nottate trascorse a bere, a cantare, a discutere, in un’osteria fuori mano, le camminate con Gallo nel fresco dell’alba, le ultime chiacchiere davanti alla finestra.

Quell’anno cominciarono gli studi due nostri compaesani ancor ragazzi, uno era anzi cugino di Gallo. Io non li volli nella nostra stanza, per quanto Gallo dicesse. — Non sono una balia, — obiettavo, ma il vero motivo era piuttosto che cominciavo a vergognarmi della nostra goffaggine campagnola. Avevo invece un amico, uno studente giovanissimo, biondino, di cui conoscevo la sorella. Erano gente di città, molto agiata, e lui si chiamava Sandrino; la sorella, Maria. Sandrino discuteva con me di teatro e gli piaceva molto il nostro camerone-soffitta, disordinato e aperto sui tetti. Strano ma vero, prima che con lui avevo fatto conoscenza con la sorella, non so se in una gita o in qualche ballo, e questa ragazza mi aveva detto che la nostra soffitta era celebre in molte famiglie, e discussa, vilipesa o esaltata secondo l’età dei giudicanti; quanto a lei, Maria mi disse che la cosa sarebbe stata divertente, ma perché frequentare certe donnacce senza gusto e ubriacarci? Maria diceva divertente col tono volubile che hanno appunto le ragazze della sua classe – sulle sue labbra la parola era bella – e per quanto respingessi l’accusa con convinta energia, scuoteva il capo sorridendo. Comunque, fu attraverso lei che conobbi Sandrino, che entrava allora all’università, e Sandrino si prese di una grande passione per me e per qualche collega che amava discutere. Conobbe anche Gallo in una delle ultime apparizioni che Gallo fece in quei mesi prima della laurea. Lo portai io una sera con noi, perché diversamente da sua sorella Sandrino parlava dell’ubriachezza senza farne caso, come di una comune esperienza, e badava piuttosto a ripetere che gli piaceva di noialtri proprio la forza, la volgarità contadina. Me lo disse sovente, e in questo era ancora ragazzo. Io che a quel tempo credevo di essere ormai diventato un altro, provavo un certo disappunto.

Gallo ripartí l’indomani, di buon’ora. Rimasi solo nello stanzone vuoto, e dal letto guardavo il tavolo sparso di piatti, bicchieri e di pezzi di carta, nel grigio fresco del mattino. M’intorpidiva ancora il disordine della notte, e immaginavo Gallo sul suo treno nella campagna, socchiudendo gli occhi, giocherellando con l’immagine di una bottiglia stagliata sul davanzale e sul cielo. Sandrino era davvero un ragazzo intelligente; aveva riso, cantato, discusso con noi; avevamo anche parlato con foga di certi libri. Una scampanellata mi fece sobbalzare.

Era Sandrino, che veniva a quell’ora insolita perché non aveva potuto dormire, e mi portava il pane e la frutta per colazione. Mentre mi vestivo, riparlammo della serata, e Sandrino, volto alla finestra, diceva che chiunque, vivendo a quel modo sui tetti, doveva godersela assai. — Il male è che s’invecchia, – dissi. – Dovevi vederci l’altr’anno, io e Gallo, quando a quest’ora scendevamo la collina, non piú ubriachi, e stanchi morti.

— Eravate mattinieri, — mi disse.

— Stavamo su tutta la notte.

— Era sempre mattino per voi.

— Soltanto alle donne non va questa vita, – dissi. – Le donne non vogliono saperne.

Sandrino aveva di bello che parlava anche di donne senza scomporsi. Disse tranquillo: — Una donna al mattino dev’essere bello, — mentr’io prendevo le ciliege per lavarle.

— Tutto si può fare al mattino, avendone voglia, – gli dissi. – Ma dove la trovi la donna che si accontenta di mangiare quattro ciliege guardando i tetti?

Sandrino mi guardò, biondo e ammirato.

— Io preferisco le ciliege, — dissi.

Discorremmo cosí, e facemmo un po’ d’ordine nella stanza. Sandrino mi disse che Gallo era un bel tipo, ma non intelligente come me. — Va bene per passarci una sera a cantare, ma non di piú —. Quando gli dissi che Gallo era stato la mia guida e maestro, sorrise lievemente – il sorriso di sua sorella.

Circa a mezza mattina sentii toccare la porta, e subito un’altra scampanellata. Sandrino disse: — Sarà Maria. Mi ha detto che passava di qua —. Obbiettai costernato: — Ma non c’è mai venuta.

— E con questo? — disse Sandrino tranquillo.

Infatti era Maria, fresca e indignata per la lunga scala, che veniva a fare un sopraluogo nell’antro. Storse la bocca alle bottiglie e bicchieri ammonticchiati sul davanzale e mi chiese chi scopava la stanza. — La portinaia, — dissi. Maria guardò comicamente l’uscio.

Per me quella visita fu un colpo. Sinora incontrando Maria altrove, mi ero comportato con cautela, le avevo detto soltanto le cose che potevo dirle, avevo ridotto la villania dei miei modi a una bruschezza cortese. Ma che lei ora scoprisse le sporche tracce della nostra allegria – mozziconi di sigaro, un fiasco in un angolo, ritagli di giornale incollati sui vetri – mi atterrò. Lei fu abbastanza caritatevole da elogiare la vista che si godeva sui tetti e tendermi la mano con un fresco sorriso. Disse persino: — Oh voi uomini, — ma capii che non erano stati il disordine né la sporcizia a offenderla. Pensai, quando mi lasciarono solo, che, se avesse trovato qualche traccia di donna, forse ne sarebbe stata meno urtata. Anzi, mi dissi, le avrebbe fatto piacere.

Con Sandrino non potevo sfogarmi: sarebbe stato come dirgli che volevo passare per quel che non ero. E a Maria non sapevo rinunciare: lei mi parlava in un modo diverso da come avevo conosciuto ballerine e prostitute in quell’anno. Gallo mi avrebbe detto di non fare lo scemo e ricordarmi di dove venivo, ma di Gallo mi vergognavo, e mi vergognai di averlo fatto conoscere a Sandrino. La mia vita era un’altra. Fortuna che veniva l’estate.

Quando Gallo se ne andò l’ultima volta in giugno, laureato e contento, io tirai un respiro. La stanza e le strade erano adesso cosa mia. Scrissi a casa che cercavo un lavoro in città, che mi lasciassero provare, perché se mi assentavo avrei perso i contatti, necessari per dopo la laurea. Da casa mi mandarono qualche soldo, raccomandandomi di tornare per la vendemmia.

Non potevo aver fatto questo soltanto per restare vicino a Maria, giacché lei con Sandrino e tutti i suoi se ne andarono in villeggiatura. La loro compagnia mi durò ancora un mese; li vedevo quasi ogni giorno; girai con loro in bicicletta; con Sandrino scherzavo, con lei discorrevo; fui ammesso in casa sua. Quando venne il momento della separazione, sua madre mi chiese se non tornavo anch’io dai miei. Le risposi che dovevo lavorare e restavo in città. E la madre disse a Sandrino, in presenza di Maria, che prendesse esempio da me. Maria, compiaciuta, mi fece un gesto di minaccia con la mano.

Adesso ero solo. Naturalmente non trovai nessun lavoro. Nelle torride giornate bighellonavo per le strade, specialmente al mattino; godendomi le bande d’ombra fresca sul marciapiede annaffiato. Spalancavo la finestra sui tetti ogni mattina, tendendo l’orecchio ai rumori vaghi che salivano fin lassú. Nell’aria limpida i tetti scuri e rugosi mi parevano un’immagine della mia nuova vita: speranze labili sopra un ruvido fondo. In quella calma, in quell’attesa mi sentivo rinascere.

Cosí fu, per tutto luglio. Ma un pomeriggio, nell’ora che si chiudono gli uffici, m’imbattei proprio sull’angolo di casa in un viso noto. Dove l’avevo veduto? Si fermò anche lei. Me lo disse lei stessa: era Giulia, l’amichetta di Gallo. Mi chiese dove abitavo e, quando sentí ch’era là sopra, si animò tutta quanta e voleva salirci.

— Ma io devo andare a cena.

— Andiamo a cena, – mi disse, – aspetterò quando hai finito —. Cosí quella sera Giulia salí nella mia stanza.

Era sempre la scura ragazza, magra e dal ciuffo in mezzo agli occhi, che avevo conosciuto con Gallo. Allora gli si attaccava al braccio testarda, quando non voleva andare in qualche posto. Aveva fatto la commessa e l’operaia, adesso faceva la serva. Ma la serva a giornata. Mi disse sorridendo sotto il ciuffo, che poteva fermarsi tutta la notte. Io non volevo, non posso soffrire la presenza di una donna quando mi sveglio, ma mi piacque tanto il modo come Giulia mi gettò le braccia al collo, che ci stetti. Quella notte inevitabilmente venni a parlare di Gallo, e Giulia ebbe un gesto gentile: mi posò il dito sul labbro e mi fece tacere. Mi piacque, ripeto.

L’indomani, come avesse capito i miei gusti, se ne andò di buon mattino. Io rimasi nel letto a pensare a Maria.

Con agosto le strade divennero quasi deserte. Giulia prese a salire da me nel pomeriggio. Aveva un modo di scavalcarmi furtiva e distendermisi accanto, che pareva un gatto. Parlava poco, era asciutta e muscolosa. Fu la prima donna che conobbi veramente. Al calare del giorno, quando l’aria si faceva piú fresca, saltava in piedi e sfaccendava per la stanza. Allora parlottavamo. Cercai di spiegarle perché mi piaceva restare in città. Lei voleva che la portassi in campagna, almeno fino ai sobborghi; e siccome resistevo cominciò a ricordarsi di Gallo e con sorrisi maliziosi si chiedeva e mi chiedeva dove fosse a quell’ora. — È in campagna, — dicevo. Giulia allargava gli occhi e si faceva descrivere le colline, i fossati, le strade, le ragazze. Imitava con la voce il rumore che fa la catena scendendo nel pozzo, e la prendevano crisi di gaiezza in cui mi saltava addosso, quando anch’io m’ero alzato, e tornava a rovesciarmi sul letto. Era sempre vissuta in città e non aveva famiglia. — Dove dormi? — le chiesi. Cambiò discorso, e il sospetto che avesse un altr’uomo per la notte mi fece quasi piacere. Voleva dire che per lei ero un capriccio, che tutti noialtri eravamo un capriccio.

Che fosse già stata l’amica di Gallo mi dava un senso di sicurezza, tanto piú che di lui parlavamo adesso come di un fratello maggiore. Lei conosceva anche l’altra, quella che Gallo aveva tenuto per due anni e quasi sposava. S’erano insieme consolate quando Gallo era partito.

— Perché, volevi sposarlo? — le chiesi.

— E chi non avrebbe voluto sposarlo? — rispose dandomi un’occhiata.

Per essere come Gallo le dissi che volevo regalarle un vestito. Giulia mi fece molte carezze, e quando l’ebbe si piantò sulla porta per uscire con me. Volle andare a ballare. Queste cose piacevano a Gallo, ma a me non piacevano. Pure uscimmo nel crepuscolo tiepido, e la portai a cena. Per occupare la serata le offrii da bere. Bevemmo molto. Comprammo anche una bottiglia e ce la portammo a casa. Giulia, attaccata al mio braccio, rideva e si divincolava.

Passò cosí un’altra notte con me. Credetti di essere tornato all’anno prima, ma invece di amici e discussioni accalorate ora avevo davanti una ragazza tutta animata e compiacente. L’indomani dormimmo a lungo, e Giulia se ne andò a mezzogiorno. Nel pomeriggio arrivò con provviste e mi disse che offriva la cena. Io misi il vino.

Siccome, dopo il primo calore, con lei non sapevo piú che dire, mi piacque la trovata del bere. Non andando alla trattoria risparmiavo parecchio, e ormai cenavamo quasi sempre insieme, nella stanza, tenendoci allegri. Giulia aveva di bello che faceva del suo meglio per mantenere un po’ d’ordine, e il mio risveglio avveniva sempre allo sciacquío dei piatti che Giulia prima di mezzogiorno lavava. Allora protraevo il dormiveglia, covavo il maldicapo e il malumore, fantasticavo di antiche bevute, fingendo un’immobilità ch’era soltanto del corpo. Rivedevo gli amici, Sandrino; temevo catastrofi; mi batteva il cuore nel silenzio frusciante. Lo strepito dell’acqua e di Giulia mi veniva come da distanze remote.

Un mattino toccarono l’uscio, sentii voci, una scampanellata. Prima che potessi drizzarmi, l’uscio era stato aperto, e Giulia scalza, a torso nudo, con la semplice gonnella, indietreggiava davanti a Sandrino e Maria. Di Maria vidi appena la smorfia sotto il largo cappello di paglia; poi non la vidi piú.

Mentre mi vestivo a casaccio, Sandrino mi disse, abbastanza disinvolto, ch’erano tornati in città per degli acquisti e volevano invitarmi con loro in campagna. Parlando girava gli occhi sul tavolo dove c’erano ancora fiasco e bicchieri della cena. Balbettai non so che, quando la voce di Maria, imperiosa, da dietro la porta gridò: — Lascialo stare. Io me ne vado —. Allora Sandrino aprí le braccia con un gesto d’impotenza e mi disse: — Arrivederci un giorno o l’altro —. Gettò un’occhiata ambigua a Giulia e se ne andò.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

18- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Vocazione

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Vocazione

Ricordo quanti papaveri si vedevano dalla finestra nella campagna, e quelli non me li ero certo sognati. Colori cosí vivi non si sognano e poi ho sempre osservato che di un sogno non si ricordano i particolari inutili. Ma quei papaveri non servivano a niente e spuntavano sul rialto, dentro la finestra, come una cosa vera. Anzi, ricordo che pensavo: «Se tutto questo fosse un sogno, spunterebbe qualcuno in mezzo ai papaveri, succederebbe qualcosa, perché tutto nei sogni ha un significato». Invece, di tanto in tanto che riuscivo a sbirciare fuori della finestra, capivo che nulla vi poteva accadere e trovavo proprio nell’erba e nelle cose un senso incrollabile di fiducia. Era questo, anzi, che mi faceva sorridere.

Questo senso di fiducia mi è abbastanza familiare, e mi prende ogni volta che da un luogo chiuso do un’occhiata al cielo, alle piante, all’aria. È come se per un momento avessi dubitato dell’esistenza delle cose e quello sguardo mi rassicurasse. Un vezzo piuttosto banale. Come pure l’abitudine che ne consegue, di cercare il chiuso per godermi l’istante di liberazione quando metto fuori il naso. Nasce di qua che sono un grande frequentatore di caffè e di osterie, e mi piace sedermi negli angoli in penombra, sotto le finestre.

Ma non ho l’abitudine di ubriacarmi, né tanto meno di prender sonno sui tavolini. Comunque, in quei tempi ogni mia abitudine era saltata in aria e certe volte mi ritrovavo a notte alta in qualche strada dei sobborghi, e camminavo ancora, deciso a far l’alba in piedi. Me ne andavo con ogni sorta di pretesti, e di preferenza in paraggi fuori mano. Certe ore del giorno le centellinavo irrequieto su questo o quell’angolo. A ripensarci oggi, è strano che tanta inquietudine la quale insomma voleva dire che non sapevo piú vivere da solo – e infatti, parte del giorno e della notte non vivevo piú solo – mi sia rimasta in mente come una smania di solitudine, come una sazietà, quasi una nausea della sola presenza che allora cercavo. Ma cosí succede, dicono. A farla breve, ero innamorato; e godevo come potevo il mio amore. Da quella casa uscivo di notte, a mattino avanzato, a metà pomeriggio, nelle ore piú assurde, sazio e contento, e andavo, fin che avevo gambe, per ogni sorta di strade, inquieto per il prossimo incontro, qualche volta assonnato e qualche volta fresco e curioso. Dormivo a tutte le ore, e ad ogni risveglio mi pareva fosse mattino: cosí per me tutto il giorno era un lungo mattino. I caffè e le osterie erano come le tappe di un viaggio che non finiva mai.

Quella volta dei papaveri ero seduto a un tavolo grande sotto la finestra, appoggiato sul gomito, e sapevo che fuori c’era la campagna ma per indolenza non guardavo. Avevo ancora negli occhi la sonnolenza del gran sole sofferto, e un ronzío fatto di mosche e di fatica riempiva la penombra. Altro non si udiva, perché la stanza era deserta, e deserta pareva tutta l’osteria, né, ch’io sappia, mi ero mosso per ordinare qualcosa. Forse mi godevo la dimenticanza in cui tutti mi lasciavano, né so come dall’ingresso ero passato in quella stanza appartata. Se pure c’era un ingresso. Ricordo che tendevo l’orecchio sperando nel lontano frastuono di un tram, e fu l’assenza di questo rumore che mi diede a un tratto un senso leggero di smarrimento e un sospetto – il primo – che, se non udivo nulla, era perché non dovevo e che forse intorno a me qualcosa era cominciato che sarebbe finito chi sa come.

Ma proprio questa sensazione, che dovrebbe supporre uno stato di veglia, si mescolava a un’assurda fiducia – addirittura una tranquillità – che nulla poteva succedermi perché chi stava seduto dall’altra parte del tavolo mi era amico.

Questo è il punto. Niente era accaduto da quando, sapendomi solo in quella stanza d’osteria, non mi ero mosso a chiamare i padroni e avevo anzi cercato di popolare il silenzio col brusío di un tram lontano, ed ecco che ora ragionavo accettando tranquillamente la presenza di un estraneo e costui sapevo persino chi fosse. Cioè, non chi fosse, ma tuttavia qualcosa di piú: le sue disposizioni verso di me, i suoi gesti abituali, il suo modo di tacere e di guardarmi. Credo che non guardai nemmeno con curiosità il mio vicino; perché non si è curiosi di chi si presenta con la stessa inevitabilità con cui un altro noi stesso appare nello specchio. Non era questa la mia inquietudine: la compagnia l’accettavo con tutta naturalezza, ne ero persino lieto. Niente di simile, per esempio, all’ansia che m’invadeva a volte in quei giorni se mi riscuotevo da quella che mi era sempre distesa accanto e mi chiedevo per un attimo chi fosse veramente per me. Ripeto, il mio compagno non m’inquietava: c’era tra noi una confidenza fatta come di un’immensa e vaga massa di ricordi, a me impenetrabile in quel momento, ma pure esistente e comune.

Va bene, dicevo, essere qui con lui; ma in queste cose non bisogna ragionare troppo, né credere che, se i tram non si sentono, ci sia per forza un significato. Forse li ho sentiti senza farne caso.

Una volta per tutte devo dire che, fin da ragazzo, svegliandomi dopo un sogno non ho mai saputo rassegnarmi a dimenticarlo cosí senz’altro, ma vi ho sempre ripensato cercando di afferrarne il segreto. È tutt’altro che facile. Ma una cosa almeno ho messo in chiaro: un sogno si svolge non come un fatto che accade, ma come un fatto che viene raccontato. Per esempio: voi correndo in sogno perdete una scarpa. Credete sia per caso, ma non è. Dopo bizzarre avventure che vi hanno fatto completamente dimenticare il vostro piede scalzo, succede che al centro di una ricca mensa imbandita a cui vi accostate col fiato sospeso vedete la vostra scarpa, privata delle stringhe, ché assolutamente non bisogna succhiarle. L’operatore che vi proietta il sogno – voi stesso, direte – vi aveva fatto perdere la scarpa, l’aveva tenuta in serbo come un narratore fa di un buon particolare, ed ecco che ve la ammannisce quando voi piú non ci pensate. Per mera vocazione, io con l’andar degli anni mi sono tanto invasato di questa ricerca, che non di rado mi succede ormai di accompagnare un sogno con la continua preoccupazione di come è fatto, e con una estenuante attenzione ai suoi minimi particolari nel tentativo d’indovinare quale significato essi assumeranno piú oltre. Spero poi sempre – e temo – di cogliere l’operatore in fallo.

Tutto questo – ammesso sempre che in quel pomeriggio io sognassi – potrebbe spiegare qualche cosa. Per esempio, il mio orgasmo a proposito del silenzio del tram. Qualunque sia la ragione di questo silenzio, dicevo, è sciocco preoccuparsene. Ciò che accade è ben piú importante. Se davvero è cominciato qualcosa, bisognerà prima sognare fino in fondo, poi si vedrà.

Ma c’era la finestra. E dentro la finestra, nell’erba pallida del pomeriggio, i papaveri scarlatti, che non avevano niente a che fare con me o col mio orgasmo, eppure m’interessavano molto perché cosí vivi di colore e cosí assurdi. Per loro, che i tram non andassero non voleva dir nulla; picchiettavano quel rialto di prato come fantasmi leggeri, dondolando appena; e ricordo che li guardai di sfuggita perché capivo che in quel momento il loro mondo era un altro e ch’io ero il solo a saperli là.

Il mio vicino taceva. C’era tra noi come un’intesa a non farci sentire fuori della stanza chiusa, perché in quel caso uno di noi due avrebbe dovuto sparire. Ciò lo sapevamo benissimo. Come pure, io sapevo che, benché mi somigliasse di spalle, di mani, di espressione, lui era qualcosa come un operaio, tant’è vero che la giacchetta la teneva infilata a rotolo nella cinghia dei calzoni, e poggiava un gomito nudo sul tavolo e il pugno sotto la mascella, stando aggobbito a guardarmi.

Sorrisi meditabondo, senza staccare gli occhi dalle nocche di quel pugno che avevano un grande rilievo perché magre e forti e perché ad esse era legato, non so come, quel mio senso di confidenza e di passata intimità. Ecco che cominciavo a chiedermi il perché della mia sensazione e a cercar di superare la muraglia di tanti misteriosi ricordi comuni. Mi conosco bene e sono certo che se non avessi avuto già da tempo una prova tangibile di cordialità da quegli occhi, sarei stato inquieto o, per lo meno, imbarazzato. Che il giovanotto – di cui ecco sapevo anche il nome, Masino – fosse lui invece imbarazzato, non era un’idea che si confacesse al mio temperamento. In nessuna circostanza della vita penso mai che chi mi sta dinanzi possa temere qualcosa da me, mentre pure l’esperienza m’insegna che questo è il caso piú frequente. Comunque, cominciavo a capire, o forse immaginarmi, di che cosa fosse fatta la mia fiducia. Noi dovevamo aver già parlato, poco prima. Infatti come sapevo il suo nome sapevo anche il timbro della sua voce; sapevo persino che rigirava le parole italiane con una pronuncia faticosa e lenta; che si esprimeva in italiano come chi ha piú familiare il dialetto ma vuole adeguarsi all’interlocutore.

— Vediamo l’altra mano, — dissi improvvisamente. Senza scomporsi Masino mi tese il braccio libero, poggiando sul tavolo il gomito e il dorso del pugno chiuso, e non mutò volto, come se mi proponesse un gioco o un indovinello. Io allungai avidamente le mani e gli presi le dita e cercai di aprirgli il pugno a forza. Ricordo che mi sollevai persino sulla sedia. Masino con l’altro pugno sempre poggiato sotto il viso, non cedette. Allora feci come se la cosa non avesse importanza e lo guardai disinvolto. Masino sorrise contro le nocche della mano.

— C’è proprio bisogno di scherzare? — dissi.

Masino aprí il pugno. La palma era magra e scura, e i polpastrelli incalliti. La guardai appena, e mi chiedevo invece il perché di quella lotta e se me ne sarei vergognato per molto tempo.

— Sei contento di non pensarci piú? — disse Masino con una voce esitante.

— Può darsi che ci pensi ancora e molto, – risposi. – Perché non dovrei pensarci? Le umiliazioni mi restano impresse piú che le soddisfazioni. Sono come un ragazzo.

— Se ascolti me, non ci pensi piú, – disse Masino. – C’è cosí poco tempo. E tu devi far presto a raccogliere tutte le soddisfazioni che puoi, perché il momento che ti svegli è finita.

Io fissavo il tavolo e borbottavo tra me e me, come faccio sovente quando son solo. E, come succede, mi commuovevo in modo straordinario e non levavo piú gli occhi e mi sentivo vuoto e disperato, tanto che mi scorrevano le lacrime come fossero sangue, e dicevo: «Questo è il mio sangue che se ne va. Falle da solo queste cose, buffone». Ma sapevo che piú mi avvilivo e piú presto sarei tornato a galla, e un bel momento dissi:

— Basta. Non era niente. Io non c’entro.

— Allora, – disse Masino che non s’era mosso, – sei convinto?

— No, – risposi seccamente. – Tu con me non fai complimenti, e io neanche.

Parlavo col terrore di esagerare, ma non potevo trattenermi. Parlavo come si getta una pietra in un pozzo, seguendone il tonfo col freddo dell’acqua nelle ossa ma senza osare sporgersi. Masino poteva anche cambiare espressione e diventare mio nemico. Con la coda dell’occhio sorvegliavo la finestra e aspettavo che il torso di qualcuno la riempisse. Ma sapevo che fuori non c’era nessuno.

Quando riguardai Masino, mi ero messo a sorridere come lui prima, con la mano contro la bocca.

— Ho ragione? — dissi.

Masino mi fece con gli occhi cenno di continuare.

— Sono sempre stato un disgraziato, – dissi. – Ma piú che un disgraziato, un ragazzo. Certe notti mi rincresce di andare a dormire, perché mi pare tempo perso. Vorrei essere sempre sveglio, disposto a respirare e a vedere. Vedere, vedere sempre: mi basterebbe. Per me è un piacere da venir matto uscir fuori di casa e guardare il tempo, la gente che va, sentire l’odore. Poi è bello pensarci sopra. Ci sono sí delle umiliazioni, ma pazienza.

— Svegliarsi veramente, è un’altra cosa, — disse Masino con voce dura.

— Lascia parlare. Spetta a me dir questo, ché ci penso giorno e notte. Sarà solo un’umiliazione. La piú grossa di tutte. Ma si potrà raccontarla.

Seguí un momento che, oggi ancora, non so connettere col resto. Mi pare che facessi una smorfia, che tornassi ad accasciarmi, ma che ogni tanto levassi la testa e gettassi a Masino un’occhiata furtiva. Masino mi ascoltava cosí seriamente, che la finestra pareva non esistesse. Io invece la vedevo di sfuggita, e ciò mi dava un senso segreto di superiorità. Attento a non farmene accorgere, tenevo a bada i suoi occhi perché non guardasse fuori come me, e intanto pensavo, pensavo. Masino s’era tolta la mano dal mento, e stava curvo con le braccia incrociate sul tavolo.

— Si può raccontarla, – continuai. – Ne ho raccontate delle altre. Se tu vuoi, te la racconto bell’e adesso. Non faccio altro giorno e notte.

Tutti e due ci guardavamo sorridendo, e stavamo chini sul tavolo come due giuocatori. Io non sentivo piú in me l’irritazione. Ero stordito. Tutti e due volevamo parlare.

— Io una volta ho provato, – disse Masino. – Ma non sono capace. Bisogna sapere il perché della scarpa.

— Prova adesso, — pregai.

Allora Masino storse le spalle e fece una smorfia.

— Quello che so io è vero, – disse. – Non posso. Sono povera gente che verrebbero qui tutti e non ci lascerebbero parlare. Ci sono anche delle ragazze –. Masino rideva piano, e apriva e chiudeva nervosamente le dita sul tavolo. – Bisogna pensarci sopra e capire il perché. Si fa una cosa, ma raccontarla è diverso.

— È vero, – dissi. – Nessuno mi ha mai raccontato quello che faccio io. È impossibile.

Ci venne insieme la stessa idea. Gliela lessi negli occhi. Lui mi guardava a testa bassa.

— Bisogna essere in due, – dissi. – Come a fare l’amore.

Ma proprio mentre parlava, sentivo di essere nel vuoto. Non era questo che Masino aspettava da me. Lui pensava a tutt’altro.

— È piú bello ancora, – continuai. – Come venire al mondo un’altra volta.

Vidi la fronte di Masino rivolta alla finestra e risentii quel vecchio sussulto.

— Non ti sei mai svegliato veramente? — mi chiese a voce bassa.

Io avevo negli occhi la luce di quei papaveri e li guardavo intensamente dentro di me, come se questo fosse l’unico modo per assorbirli del tutto e nasconderglieli. Quasi gridavo dall’ansia. Era legata la mia vita a quei papaveri.

— Che cosa c’entra? – dissi in fretta. – Non ho paura a svegliarmi. Tanto ci penso giorno e notte.

Masino disse, sempre volto alla finestra: — Non serve pensarci. Svegliarsi è peggio che avere paura. Da quel momento non puoi fare piú niente.

— Lo so, — dissi piano. Proprio allora Masino aveva lasciato i papaveri e s’era rimesso a fissare il tavolo. Mi pesava il cuore perché capivo che niente sarebbe accaduto; che quel che poteva, era già stato; ch’era tutto contenuto in quella stanza e in quella finestra. Udivo come il rombo del silenzio nella penombra, e qualcosa in fondo al cervello mi susurrava: «Non importa, non importa».

Guardavo Masino con pietà, quasi con pena, e non volevo farmene accorgere. Tutto adesso di lui m’impietosiva, e provavo quel senso invincibile che ci dà la pietà di noi stessi, quando istintivamente ci si lascia andare e si piangerebbe, se non fosse un sordo rancore che si prova verso di sé. Gli guardavo le mani dure e tristi sul tavolo.

— Non vuoi sapere niente, Masino, — gli dissi a un tratto.

— No, niente, — rispose la sua voce allontanandosi, come se fosse di là dal muro.

Io rimasi non so quanto tempo seduto in quel luogo, con la tempia poggiata all’imposta di legno di dove senza muovermi avevo veduto prima i papaveri. Sapevo che veniva sera, ma stavo bene e non mi muovevo.

Quando mi giunse il frastuono dei tram mi riscossi, eppure avevo una vaga coscienza di sentirli già da tempo. La penombra che riempiva anche la finestra non poteva ancora aver nascosto il prato, ma io non ci pensavo in quel momento, e non guardai. Vedevo invece in fondo alla stanza una porticina socchiusa che dava sull’aperto e, ignorando da quanto tempo fossi là, mi prese l’inquietudine che sbucassero i padroni e si lagnassero della mia permanenza clandestina. Non era soltanto inquietudine, era spavento. Infilai la porticina, e, dopo un tratto di prato percorso col batticuore, scantonai dietro una fabbrica.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

17- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – L’estate

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

L’estate

Di tutta l’estate che trascorsi nella città semivuota non so proprio che dire. Se chiudo gli occhi, ecco che l’ombra ha ripreso la sua funzione di freschezza, e le vie sono appunto questo, ombra e luce, in un passaggio alternato che investe e divora. Amavamo la sera, le nubi torride che pesano sulle case, l’ora calma. Del resto, anche la notte ci faceva l’effetto di quella breve penombra che inghiotte chi dal gran sole rientra in casa. C’incontravamo sull’imbrunire, ed era già mattino, era un’altra giornata tranquilla. Ricordo che la città era tutta nostra – le case, gli alberi, i tavolini, le botteghe. Nelle botteghe e sui banchi rivedo montagne di frutta. Ricordo il profumo caldo e le voci nelle vie. So dove cade a una cert’ora il riquadro di sole sul mattonato della stanza.

Di noi, invece, e delle nostre parole non ritrovo quasi nulla. So che mangiai molta frutta; che mi assopii tante volte abbracciato e abbracciando; che attardandomi a sera per via, godevo i passanti, i colori, gli istanti, sapendomi atteso. So che le mie mani e il mio corpo erano divenuti una cosa tenera e viva, come appunto le nuvole, l’aria e le colline in quelle sere d’estate. Tutto questo mi fu familiare, e direi quotidiano se il succedersi di quei giorni non mi paresse tuttora illusorio, tanto che a volte l’intera stagione mi riesce, a ripensarci, una sola giornata che vissi in comune. Questa giornata era dentro di me, e la compagnia che finí con l’estate le dava un senso e una voce. Quando ci lasciavamo non ci pareva di separarci, ma di andare ad attenderci altrove, come a un convegno, come in fondo alle vie scompare e riappare la collina. La vedevamo ogni sera coprirsi d’ombre, e ci piaceva tanto nella sua calma che divenne una delle cose della stanza, divenne parte della finestra e della via. Nella notte breve non scompariva, tant’era vicina. La giornata cominciava e finiva con lei. Mangiavamo la frutta guardandola. Adesso non resta che la collina e la frutta.

La città semivuota mi pareva deserta. Il gioco dell’ombra e del sole l’animava tanto, ch’era bello fermarsi e guardare da una finestra sul cielo e su un ciottolato. Sapere che oltre alla luce e all’ombra fresca c’era qualcosa che mi stava a cuore e rinasceva col sole e affrettava la notte, dava un senso a ogni incontro che avvenisse su quelle strade. C’erano gli alberi che bevevano il sole, c’erano i gridi delle donne, c’era un grande silenzio. Uscivo dalla stanza presentendo altri sentori e la frescura della sera. Potevo guardare e amare ogni cosa.

A volte, in tutt’altra parte della città, c’era una piazza che mi attendeva, con le sue nuvole e il suo calmo calore. Nessuno l’attraversava, nessuna finestra s’apriva, ma s’aprivano gli sfondi delle vie deserte in attesa di una voce o di un passo. Se tendevo l’orecchio, nella piazza il tempo si fermava. Era giorno alto. Piú tardi, a sera, ci pensavo e la ritrovavo immutata.

In quelle sere l’estate non perdeva vigore, giacché sapevamo che ciascuno di noi pensava all’altro. Ogni incontro consueto mi toccava nel cuore questa certezza, muovendola appena, e la faceva traboccare. Allora s’increspava la luce, che vedevo come un giovane ricordo, quasi rientrassi d’improvviso in un’estate diversa, di là dai corpi e dalle voci, e la stanza che avevo lasciato mi fosse valsa come un’ombra che discreta mi riaccoglieva. Ogni cosa, accadendo, si faceva ricordo, perché accadeva dentro di me prima che fuori. Era come se la lunga giornata l’andassi facendo io, e perciò niente, della stanza e della sera, mi era estraneo; nemmeno il corpo che accoglieva il mio, e la voce sommessa.

Una sera le nuvole si addensarono, e piovve tutta la notte. Io attendevo a una finestra che non era la nostra, e gli spruzzi e le gocciole mi giungevano in faccia. Sapevo che l’indomani la luce sarebbe stata piú viva e piú fresca l’ombra, e non ebbi fretta di rientrare dov’ero aspettato. Era l’ultima pioggia dell’estate, e cambiò il colore della città. Avrei potuto attendere, al riparo, ma discesi sotto la pioggia e percorsi altre strade. Pensavo intensamente alla nostra finestra, ci pensavo e me ne allontanavo. La collina era in fondo alle strade, oscurata e avvicinata dall’ombra accresciuta. Vidi sotto la pioggia davanzali e portoni che avevo sempre visto nel sole. Tutto era fresco e vicino, e veramente stavolta la mia città era deserta. Traversai molte piazze. Quando rientrai, innamorato e pensando alle strade dell’indomani, trovai la stanza vuota, e tale fu fino a notte. Mi misi allora alla finestra.

Stemmo insieme ancora molti giorni, fin che durò la stagione, ma entrambi sapevamo che tutto sarebbe finito entro l’autunno. Cosí fu infatti.


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16- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Piscina feriale

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Piscina feriale

È bella la nostra piscina color verdemare sotto il sole e intorno cespugli che nascondono le case e i viali, e piú lontano colline basse, cosí bella che qualcuno di noi si alza ogni tanto, dà un’occhiata comprensiva e fa un passo, poi respirando con un sospiro chiude gli occhi e torna a stendersi tacendo. Se una donna fa questo, tutti la guardiamo; poi gettiamo un’occhiata al cancelletto d’ingresso dove non entra nessuno. Sappiamo che il sole e l’acqua verde bastano a riempire la mattinata – di tanto in tanto uno di noi si alza e si butta in acqua –, ma il sospetto di ognuno è che cosa farebbe se la piscina fosse deserta e gli toccasse godersi da solo tanta luce e tanto sereno.

In verità, siamo tutti in attesa. Ce lo diciamo con frasi scherzose o indolenti, voltando appena il capo, muovendo le labbra che sanno di sudore. Le due compagne che sono con noi stanno sedute o distese secondo che richiede il sole o la voglia mutevole. La compagnia che ci facciamo serve a distrarci dalla varia attesa, dal vuoto instabile che la tentazione di tacere crea dentro di noi.

La piscina è molto grande, ma non ci viene in mente di percorrerla scavalcando i corpi e osservando. Uno non ha curiosità, in piscina. Per quanto circondato da volti e corpi amici, preferisce lasciarsi sorprendere da improvvise solitudini. C’è della gente che strilla e che ride: si direbbe che per loro l’attesa è finita. Si guarda, si vedono schiume, corpi nudi, spruzzi; sono ragazzi, sono giochi. Non è ancora questo: non per noi, almeno.

La nudità del cielo fa appello alla nostra. È difficile nascondere pensieri in questa insolita nudità. Ci si riscuote appena, ci si sente visibili come ciottoli in fondo all’acqua. La nostra solitudine è un vuoto, un’immobilità dei pensieri. Soltanto cosí ci resta in cuore qualcosa di nostro. A volte ce ne dimentichiamo, e diciamo a voce alta cose improvvise che subito suonano superflue, già sapute dagli altri.

Chi di noi lascia il gruppo per buttarsi in acqua, ha l’aria di scusarsi e invita gli altri a seguirlo, a tenergli compagnia. Le nostre compagne lo guardano, e sorridono. A volte si alzano anch’esse, a volte ci alziamo tutti, e scendiamo nell’acqua.

Non si sfugge, nemmeno nell’acqua, alla solitudine e all’attesa. Qualcuno di noi scende al fondo, scende a toccare il cemento; è una cosa insolita, e tutti gli istanti che trascorre sommerso nell’acqua verde sono un modo di nascondersi, di essere solo. Quando ritorna fra noi, taciturno, è l’unico che ha l’aria di non attendere qualcosa.

Che cosa deve dunque accadere? Se ne parla, di tanto in tanto, quando il gruppo si va ricomponendo. È una questione che ci appassiona; qualcuno non capisce subito quando il piú vivace di noi la intavola, ma poi gli viene spiegata e anche lui s’incuriosisce. — Siamo qui per bagnarci e per prendere il sole, – diciamo. Ecco. – Siamo qui per stare insieme —. Ciascuno di noi pensa che, se la piscina fosse deserta, non reggerebbe a starsene solo, sotto il cielo.

Una nostra compagna sorride, e, siccome è seminuda, si capisce che pensa che siamo qui per farle corona. — Anche questo è vero, – dice un altro. – Sí, sí —. Ma siamo tutti inquieti, chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda.


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15- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Il tempo

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Il tempo

Fin da giovane ebbi questo sospetto, che chi non dormisse mai non invecchierebbe. O forse il tempo affiorava nei ricordi, nelle pause in cui mi fermavo sorpreso di me stesso, quando mi pareva di svegliarmi come ci si sveglia al mattino, e sapevo che un altro giorno era passato, un’altra vita, un altro incontro. La presenza degli altri era un’occasione che avevo di vivere e sfuggire al tempo, e la cercavo con un’avidità che non cessava nemmeno a notte alta. Nella notte, nel buio, questa presenza mi riassaliva e costringeva a parlare come se avessi un interlocutore, e mi era facile intrattenermi con me stesso, perché giornata e parole interrotte mi lasciavano la calma certezza che il mio colloquio con gli altri sarebbe ripreso l’indomani e intanto me ne nutrivo in solitudine. Davvero, in quegli anni il tempo affiorava soltanto se dormivo o ripensavo al passato. Le due cose ne facevano una sola, perché ne uscivo – mi svegliavo – riavvistando la luce e il presente con uno stesso brivido incredulo. Il mio piacere di tornare al mondo era nuovo ogni volta.

Non potevo credere che i vecchi, i quali dormono poco, trascorrano le ore di veglia, e specialmente quelle sull’alba, riandando il passato. Essere sveglio vuol dire pensare e vivere, aspettare la luce e smaniare. Fossero pur vecchi e avvezzi al tempo, ma i loro sensi induriti e il sangue spesso dovevano tanto più aver bisogno dell’urto e del rimescolío della vita. Questa vita era fatta di visi e di cose, di schianti, di voci, era un incessante incontro, un movimento che non aveva passato. Non capivo come ci si potesse docilmente fermare, sia pure per sazietà, e abbandonare come loro ai ricordi. Voleva dire sentire il tempo, e la morte.

Quanto a me, anche i ricordi più lontani mi coglievano come scoperte. Erano altrettanti risvegli che mi rimettevano nel presente. Il fatto più singolare – tanto che spesso lo provocavo ad arte – era di accorgermi che un gesto, un colore, una voce, li avevo già visti o sentiti chi sa quando, e che perciò risorgevano dalla mia stessa coscienza piú che dalle cose intorno. A questo sospetto, a questa certezza di sentirmi radicato nel mondo, provavo un entusiasmo tranquillo che, pur essendo per natura limitato ai miei occhi e al mio corpo, poteva nella sua fugacità scuotermi come un incontro umano. Avevano veramente, questi risvegli sempre inattesi, qualcosa della presenza di un altro, la presenza di un amico o quella, ancor muta, di chi lo sarà presto e tacendo ci cammina accanto e ci guarda. Cose non dette trasparivano in fondo all’istante come un oggetto noto in fondo all’acqua di una vasca, e sarebbe bastato quel lieve coraggio di tuffare la mano, per toccare la lontana inafferrabile parvenza. Ciò accadeva specialmente al mutare delle stagioni, quando l’aria è tutta corsa da brividi di passato che, freschi e inattesi, ci riportano antiche certezze. Quest’antico, questi brividi, mi davano come un incremento di vita, come un senso che sotto il labile istante s’accumulasse un tesoro già mio, che dovevo soltanto riconoscere.

Per questo, nulla mi era piú caro che, in certe notti d’aprile o d’ottobre dopo tanto parlare e ascoltare, rientrando con un amico coetaneo indugiare il commiato. Tacevamo, o parlottavamo di cose indifferenti; nell’aria passavano barlumi, echi, voci lontane. Tra gli spigoli dei tetti occhieggiavano le stelle, o, talvolta, fra i rami di un albero. Come a uno strano gioco sorgeva la luna: disegnando quinte d’ombra tra le case, o sulla collina di là dal fiume frammentandosi contro le piante e straripando in cielo. L’amico taceva e si soffermava; io sentivo trapassarmi sui sensi, sulla pelle, l’alito di altre notti come questa.

Una sera sorgeva la luna, sul ciglio della collina. Gli alberelli lontani erano neri; la luna, enorme, matura. Ci fermammo. Io dissi: — Tutti gli anni, a settembre, la luna è la stessa, eppure mai che me ne ricordi. Tu lo sapevi ch’era gialla?

L’amico guardò la luna, e ci pensava. Mi pareva davvero di non averla mai vista cosí, ma insieme di averne in bocca il sapore, di salutare in lei qualcosa di antico, d’infantile, tanto che dissi: — È una luna da vigna. Da bambino credevo che i grappoli d’uva li faccia e li maturi la luna.

— Non so, – disse l’amico. – Per me è sempre la stessa.

Ora il brivido mi aveva lasciato e la luna col suo sapore di vendemmia ci guardava entrambi come una creatura che conoscevo e ritrovavo. E, come una creatura, il suo passato non contava per me ch’ero giovane e avrei potuto andarle incontro e parlarle, e salire fin lassú fra gli alberelli, nei dolci vapori estivi ch’erano sempre stati e non invecchiano mai. L’amico taceva, e io pensavo già al piacere che avrei provato l’indomani portando in me sotto il sole la certezza che anche la notte è viva.

Cosí quei giorni mi passavano, monotoni e freschi, nella loro novità. Non sapevo che la loro tumultuosa baldanza l’avrei vista un giorno come un fermo ricordo.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

14- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Risveglio

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Risveglio

Quella notte avevo subito una grossa umiliazione: di quelle che ci colgono in mezzo alla gente senza che la gente se ne accorga. Continuammo a sorridere, io e i miei interlocutori, come se nulla fosse avvenuto, e per loro infatti nulla era avvenuto: semplicemente era stata detta una parola che per tutti, me compreso, era uno scherzo. Ma un attimo dopo respiravo a fatica e me ne stavo aggobbito nel mio angolo, stordito e assorto come uno smemorato. Fortuna che nessuno mi badò, e tutti pensavano a parlare e farsi ascoltare. Riuscii anzi poco dopo a interloquire anch’io: cercai di riportare il discorso alla frase di prima; se fosse debolezza, o una sfida alla mia angoscia, non so.

Quando tutti se ne furono andati, io che pure mi mostravo assonnato e cascante, accompagnai verso casa l’amico P. L’amico taceva di buon umore e, visto che non parlavo, mi sbirciava incuriosito. Io mi chiedevo perché mi fossi messo con lui; e anelavo la solitudine del ritorno per abbandonarmi all’avvilimento e toccarne il fondo. C’era qualcosa di non detto tra noi, e la cautela dell’amico inconsapevole aggiungeva disagio alla mia disperazione. Perché quella notte ero davvero disperato.

— E domani, che fai? — disse l’amico, quando fummo per fermarci.

Non so che cosa gli risposi; forse soltanto uno dei gesti d’impazienza abituali tra noi. Dové credere che il malumore mi venisse dal sonno, e se ne andò sul marciapiede echeggiante. Io tesi l’orecchio ai suoi passi, quasi fingendomi che il suo allontanarsi fosse l’ultima voce della vita che mi lasciava, e trovando in questa fantasia come un sollievo disperato. Poi mi volsi e ripresi la strada, abbandonato a me stesso.

Era notte di giugno, e l’oscurità palpitava. Io misuravo la mia angoscia a tanta dolcezza, e scavavo scavavo a ogni passo nel mio dolore come se tutta la tenebra ne fosse intrisa e bastasse avanzare per sentirsene addosso il peso sempre più intollerabile. M’accorsi a un tratto – e mi fermai – che mi era caduta di mente l’innocua parola da cui tutto era cominciato. Ero fermo sul marciapiede di una piazza dove una fontana borbottava. Quel rumore mi parve futile, pure nel suo incanto. Nulla ormai poteva abolire la realtà miserabile della mia esistenza. Della dolcezza dell’ora coglievo soltanto il silenzio, il profumo, la calma. Era notte avanzata, e avevo vagabondato più del solito per distrarre nella novità della cosa la mia umiliazione. Non potevo rassegnarmi all’idea che mi sarei svegliato l’indomani e nel breve dormiveglia dell’alba mi sarei ritrovato in cuore, prima ancora di aprire le palpebre, questo tormento familiare. Ero stanco e indolorito a un punto, che potevo soltanto rimettermi attraverso uno sforzo, una rottura.

Decisi allora di attendere il giorno per le strade, di fare io stesso il giorno, giacché tutta la città era deserta e il cigolìo di qualche carro lontano non era cosa di città ma di campagna. Già il tepore del cielo non accennava più a un’ora notturna. Ripresi a camminare guardandomi intorno, dirigendo i miei pensieri avviliti sul brusio di un mulinello di foglie, sulla nera trasparenza del cielo. Nacque così tra me e la notte un’intimità vaga – vaga, perché ben altro mi pesava nell’anima, e le case, i lampioni deserti, la volta del cielo, mi trascorrevano intorno in silenzio come bava di vento. Nel silenzio il mio grande dolore taceva quasi assopito in vece del corpo. Io continuavo a camminare; passavo viuzze, piazze, viali; tendevo a giungere alla fine di quella strada interminabile, che sarebbe cessata soltanto nel mattino. Avendo uno scopo non temevo più il tempo, e la solitudine stessa aboliva la passata coscienza di me. Il mattino non mi avrebbe più colto a tradimento come usa; l’ora insolita che vivevo ne aveva già assorbito ogni amarezza, e io gli andavo incontro come a qualcosa di mai visto e di mio. Lo salutai dietro una casa di sobborgo.

Quando si svolse e inondò le strade, io cominciavo a rallentare il passo. Ora potevo anche fermarmi e assaporare la stanchezza, abbandonandomi alle voci che lo chiamavano fresche. Ma fermandomi, smettendo di evocarlo e andargli incontro, esso sarebbe diventato una mattina come le altre, come avevo già temuto nella notte. Perciò continuai ad avanzare, opponendo al residuo dolore la mia instancabile volontà di veglia. Passai le ultime case, giunsi a un ponte; di là dal ponte cominciava la campagna. Fissai in fondo alla pianura un’osteria minuscola e bruna e mi disposi a raggiungerla.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

13- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Una certezza

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Una certezza

La mia vita è tutt’altro che sedentaria; posso anzi dire di avere avuto avventure insolite, rovesci, riprese, burrasche, né le prove sono tuttora finite; eppure, in mezzo a tutto ciò, se mi accade di fermarmi un momento a pensare, nel mio passato non mi ritrovo e le sue agitazioni non le capisco. È come se tutto fosse toccato a un altro, e io sbucassi adesso da un nascondiglio, un buco dove fossi vissuto sinora senza saper come. Se non fosse che in questi momenti provo un grande stupore e non mi riconosco nemmeno, direi che il nascondiglio da cui esco è me stesso. Succede, a volte, di vivere intere giornate, e anche molto attive, senza prendere parte ai propri gesti e alle proprie decisioni. Ma non è questo. Io, in genere, so benissimo quello che voglio, e bisogna pure che chi, come me, fa una vita di responsabilità e paga di persona, abbia idee chiare e si versi tutto nei fatti.

Quand’ero più giovane mi toccò una volta starmene rinchiuso per parecchi giorni. Avevo dei nemici, parecchi nemici (non è adesso il caso di raccontare tutto, ma il sangue caldo è sempre stata la mia qualità), e le cose erano a un punto che io dovetti per forza tenermi nascosto. Ricordo che i primi giorni stetti come una tigre, andai avanti e indietro nella stanza, parlai da solo; ma poi, avvicinandosi la fine, cominciavo ad adattarmi e la sera che potei permettermi di uscire esitai un attimo sulla soglia. Poi, beninteso, uscii e ripresi i fatti miei. Ebbene, ricordo che in quel momento di esitazione mi sentii appunto nel modo che ho detto – un grande stupore, un rincrescimento come di chi è trattenuto sull’orlo di un gesto, di un risveglio che stava avvenendo e adesso non avverrà più. Ma non fu come quando s’interrompe un’abitudine (la pace e il silenzio della mia stanza per l’incerta vastità delle strade) – né allora né dopo sentii quell’attimo di disagio, bensì l’impressione di essere di colpo sbucato in un’aria tutta diversa dalla solita, un’aria che ti pare di avere dentro invece che intorno, un grande abisso d’aria, di vuoto, di possibili eventi e pensieri che sgorgherebbero dal più profondo te stesso, se questo te stesso non fosse subito sparito tant’era incredibile.

Sono momenti questi, che si possono chiamare di disponibilità assoluta. S’intravede, dopo che uno li ha vissuti, che tutto il proprio passato visibile e perciò anche il presente e insomma tutta la vita, non conta per quello che si è fatto voluto sofferto ottenuto, e che tanto varrebbe starsene fermi su un angolo come un pezzente e, borbottando qualcosa che i passanti non capiscano nemmeno, fissare a occhi chiusi questo stupore, quest’abisso. C’è qui dentro un segreto più importante di tutte le responsabilità che si possano dare. Ma per quanto questo stato sia sempre identico a se stesso, non c’è nessuna monotonia: uno ha sempre la stessa faccia, gli stessi occhi, la stessa voce, eppure non si sogna di stancarsi di queste cose.

Certi giorni che mi tocca andare molto per le strade (sono i soli momenti che riposo) o rivedere facce di vecchia conoscenza, so già che a poco a poco mi lascerò prendere dalla solita idea – quest’idea comincia a camminare con me – mi fa compagnia negli incontri e nelle attese – sta per dirmi una parola decisiva – e proprio mentre credo di vedere qualcosa, capisco ch’è soltanto il riflesso di un momento di quand’ero ragazzo e non sapevo nemmeno che sarei diventato io. Con tanto che ho fatto, veduto e capito nel mondo, mi succede dunque che le cose più mie sono un mucchio di sassi dove mi sedevo allora, una griglia di cantina dove ficcavo gli occhi, una stanza chiusa dove non potevo entrare. E il bello è che quell’impressione di sfiorare un mondo libero come l’aria, di sentire per un momento che io e questo mondo siamo una cosa sola e, se l’impressione continuasse per un po’, dovrei credermi chi sa chi e vivere in tutt’altro modo, quest’impressione potevo già provarla, senza neanche capirlo, da ragazzo. È un fatto che non vorrei ammettere in conversazione con nessuno, questo che, a pensarci, i momenti di maggior soddisfazione sono quelli più lontani, che uno neanche sapeva di aver vissuto, quando cominciava a scappare di casa e lo faceva con la paura. L’unica differenza è che allora andavo d’accordo con me stesso e non avevo bisogno, per capire chi sono, di prendere al volo il momento, e fermarmi in strada come uno smemorato e come una bestia spaventata. Ma poi penso che uno le sue soddisfazioni se le prende dove le trova e non è detto che, perché le mie giornate mi sembrano quelle di un altro, io sia meno risoluto quando si tratta di lavorare e di pagare di persona. Anzi, avere questo mezzo di sfogo in certo senso mi rifà; come se sapere che tutto quello che ho, che maneggio e che comando, domani prenderà il volo soltanto a pensarci, mi desse una garanzia che almeno il volo non lo prenderò io. Vuol dire che in questo caso mi godrò la compagnia di quel ragazzo, che non era poi tanto ragazzo se ha sempre saputo una cosa simile.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

12- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Sogni al campo

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Sogni al campo

C’erano mattine che ci svegliavamo stranamente riposati, tanto riposati che ci pareva d’essere stanchi. Il corpo ci pesava come pesa nel sonno. Nelle reni e nei polpacci si schiumava un sangue torpido ma vivo. Guardandoci in faccia, ciascuno di noi pareva venire da lontano. Parlavamo del giorno, del bel tempo sperato, quando anche il cielo alle inferriate era coperto di nuvole. Ma nessuno osava dire ch’era proprio quel torpore e quella stanchezza del cielo a farci socchiudere gli occhi di compiacenza – una furtiva compiacenza che ci lasciava irresoluti.

Non so se più tardi, aggirandoci tra le baracche, c’era qualcuno che raccontasse al suo compagno come aveva passato la notte. Un giorno mi chiesero: — Tu, che cosa hai sognato? — e non seppi rispondere se non che avevo dormito come un bambino, senza sogni.

Eravamo come bambini, fra quelle tristi baracche, e in attesa d’incolonnarci per l’uscita consueta chi si affannava a correre cercando qualcosa, chi sedeva scioperato su una cassetta o uno scalino. Scioperati eravamo tutti, ma alcuni non volevano saperne di abbandonarsi al torpore. Temevano di doversi poi riscuotere, a un richiamo esterno, per rientrare nel giorno. Eppure quel torpore era in noi, e sapeva di un’immensa fatica, durata chi sa quanto, e chi sa dove. Ci pareva, in quel risveglio, d’incespicare come chi esce da un mare dove ha nuotato fino all’ultimo lasciando cadere a piombo nell’acqua le gambe stremate. Qualcosa era certo accaduto, durante la notte. Avevamo sognato con tanta convinzione che adesso ogni ricordo era abolito e ci restava nel sangue soltanto uno stupore incredulo. Così il ronzio del silenzio fa pensare talvolta a un urlo, a un clamore tanto assordante che non si oda più nulla.

Non ho vergogna di confessare che ho paura del buio – io che pure tenni duro in quel campo della desolazione, dove lo spuntare di una bella giornata ci faceva pena tant’era assurdo. Avevamo paura di noi stessi e del buio. E chi ha paura del buio non è che creda a prodigi esistenti. Semplicemente è uno che sa che il suo sangue e il suo pensiero possono scuotersi al contatto della notte e schiumare meraviglie come un cavallo il sudore. Accadeva di risvegliarci la mattina a poco a poco, senza una scossa, come una barca s’accosta alla riva; e si scendeva indolenziti guardandoci intorno, un po’ sorpresi, quasi che quelle eterne baracche fossero bensì le stesse ma i nostri occhi, lavati nel mare nero del sonno, non le riconoscessero subito. Chi di noi si sedeva fin di primo mattino, levando lo sguardo agli inquieti che s’affaccendavano sotto il cielo basso per le viuzze del campo, aveva l’aria di cercare tra i compagni quelli che nella notte si erano aggirati con lui e con lui avevano affrontato gli spaventi, le peripezie dei torbidi sogni. Nessuno ne parlava. Ci bastava di sentire affievolirsi in noi la meraviglia.

Parlavamo del giorno invece, e delle nostre occupazioni consuete. Siccome nulla in quel campo potevamo cominciare con la certezza di finire, seguivamo ogni volta gli umori del cielo, e nella sua serenità cercavamo di leggere avidamente la nostra, ma era ogni giorno una delusione perché le tristi baracche ce ne mostravano l’inutilità. Sole e vento ci esasperavano, come fanno ai malati. Poi col trascorrere della bella stagione imparammo a serbarci malinconici sotto il cielo più terso, e ciò volle dir molto per la nostra pace, giacché tra noi soffrivano di più quelli che parevano più spensierati.

Forse di notte ci accadeva veramente di sperimentare ciò che di giorno tacevamo con tanta cura. Di notte il nostro corpo s’involava di là dall’ultima baracca, di là dalle colline silenziose, se pure nel sogno ci sono ancora baracche e colline e non invece un campo nero dove le cose traspaiono per luce propria e i terrori le fitte le ansie i ritrovamenti sono una cosa sola col tumulto del sangue che mugge nel buio. Gli eventi del sonno erano già dimenticati prima ancora che accadessero, e di qui nasceva forse la tremenda fatica per riportarli in luce, per riportare alla luce almeno quel sangue e quel corpo in cui s’erano avverati. Forse in certe notti chi ci avesse visto dormire non ci avrebbe riconosciuti. Una lampada assente moriva nella baracca: pareva oscillare, essa stessa preda del sogno. Nulla di ciò che la sua scarsa luce toccava, era vero. Erano veri i tumulti e i tuffi del sangue nell’assurda immobilità della notte, come di una ruota che rapita in un turbine appare ferma. Chi di noi si svegliava prima dell’alba, tendeva l’orecchio alla notte e, parendogli di esser fuori del mondo, attendeva con ansia la voce rauca delle sentinelle.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

11- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Il prato dei morti

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Il prato dei morti

La finestra donde si poteva assistere ai delitti dava su un largo erboso, chiuso in fondo da certe baracche di legno. Sotto la finestra correva un canale, di quelli traboccanti ma lenti, che escono da sotto le case per una griglia nera. Un tempo il canale serviva ai suicidi ma adesso non se ne fanno più. La mattina si trovava sullo spiazzo solitario la vittima, distesa nel sangue, accoppata, o anche strangolata. Facevano pena le ragazze, vestite di colore, a volte eleganti. C’era una sala da ballo sul viale, a duecento metri, con grandi pergolati e gioco di bocce. Di là venivano queste ragazze. Venivano anche gli uomini – sportivi, operai, negozianti – e questi finivano quasi sempre accoltellati.

Dalla finestretta, nelle notti di luna, si vedeva benissimo la scena. Una coppia girava l’angolo – uomo e donna, oppure due uomini, a volte persino due vecchi – e costeggiando il canale avanzavano sullo spiazzo con un’inesplicabile temerità. È che quasi sempre discutevano, oppure, se tacevano, erano assorti nel farsi il broncio, nel disperarsi, nel tranquillare l’altro. Così accadeva che arrivassero fin nel prato, sotto la luna, e qui l’improvviso intralcio dell’erba li faceva alzare il capo e guardarsi intorno. Le loro parole suonavano limpide nella notte. Quasi mai erano grida o ruggiti di isterici e cavernosi. Parlavano invece con un’ombra di stanchezza, come se quelle cose le avessero già dette e ridette all’infinito e si trattasse adesso di ricapitolare per concludere. Questo scambio d’idee prima del delitto, avveniva sempre. Forse, in passato, sullo spiazzo deserto s’erano aggrediti degli sconosciuti, ma ormai non accadeva più da un pezzo. Del resto come tendere imboscate in quell’angolo morto dove non passava mai nessuno? No, là si andava da pari a pari, come a passeggio. C’è da scommettere che alla vittima, quando cacciava il suo grido soffocato come un gemito, e le rare volte che restava poi sull’erba a rantolare e dibattersi ancora, guizzava in mente il pensiero di aver sempre saputo che sarebbe finita così.

Né mancava l’assassino che, compiuto il fatto, si fermava irresoluto a guardare il cielo, l’orizzonte basso. Probabilmente si chiedeva quale fosse di chiaro giorno l’aspetto dello spiazzo, e cercava di spogliare la scena del suo orrore lunare e immaginarla come un luogo qualunque sotto il sole, incorniciato da colline nel fondo come tutta la città.

Erano quelli i momenti che giungeva da sopra le case un clamore d’orchestra o un cozzo di bocce. Allora l’assassino scappava. Scappava e spariva, non si capiva mai dove. Molti probabilmente tornavano alla sala da ballo, rallentando il passo via via che s’avvicinavano, e gettando un’occhiata atona nella grande specchiera d’ingresso. Una volta ce ne fu uno che attraversò la strada e venne a lavarsi le mani nell’acqua del canale. Ma fu uno solo.

La vittima restava sotto la luna fino al mattino. Guardando dalla finestretta nella notte chi poteva sapere dei suoi lividi o del lago di sangue? Queste cose sarebbero esistite al mattino: adesso i minuti passavano tranquilli, l’orchestra aveva chiuso da un pezzo e anche la passione gli interessi il furore che per un istante avevano empito la notte, erano dileguati, come i vapori allo spuntare della luna. Nemmeno faceva freddo. C’era soltanto una persona che in tutta la notte si sentiva nelle ossa un po’ di gelo, e questa persona era scappata. La vittima riposava in pace.

Una notte ce ne furono due. Venne un tale con una ragazza e la strozzò. Dopo mezz’ora di luna, sbucarono all’angolo un paio di uomini anziani, un po’ ciondolanti, che andarono lì lì per cascare nel canale. Ma gli ubriachi sanno quello che vogliono. Presero il prato rimproverandosi un’antica villania. A due passi dalla prima vittima si sentì un sospiro rauco e uno dei due restò in piedi, pulendosi il coltello sui calzoni. Poi se ne andò, sotto la luna.

Non pareva che valesse più la pena di guardare: per quella notte era finita. Chi non avesse assistito prima, non avrebbe mai conosciuto i due mucchi scuri, distesi accanto immobili. Era notte alta; l’acqua gorgogliava nel canale, la luna regnava sola. Fu allora che un brontolío roco (la finestretta era alta: possibile che di là si sentisse?) riempì tutta la notte.

Diceva: — Donna, è lontano da casa?

E la voce di lei: — Facciamo ancora un giro, poi devo scappare.

Il dialogo cessò. Era evidente che i due non avevano altro da dirsi e tacquero in pace. Ma poco dopo la ragazza riprese:

— Torneremo domani e saremo noi soli.

— Che cosa vuoi dire? che non sopporto la strada?

Si sentí piagnucolare: — Non hai vergogna della luna?

— Donna, è lontano da casa?

Adesso parlavano, parlavano. Ciascuno con la sua voce più sola, come convinto che l’altro non l’ascoltava, come se l’ascoltasse la luna. Era notte avanzata, e cominciavano a passare nuvole davanti alla luna, nascondendo lo spiazzo le baracche ogni cosa. Faceva pena pensare che i due morti si sforzassero così inutilmente. Ma un poco alla volta le voci s’assottigliarono e sotto un nuvolone più grande degli altri tacquero definitivamente.


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10- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Il mare

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: Il mare

Il mare

Alle volte penso che se avessi avuto il coraggio di salire fino in cima alla collina, non sarei poi scappato di casa. La notte di San Giovanni doveva esser passata da poco, perché già diverse volte ci eravamo messi per la strada del vallone e salivamo fino ai noccioli a cercare il letto dei falò. Sapevamo che in cima ce n’erano di larghi come un prato. Ma un giorno Gosto si vantò che da ragazzo suo nonno era scappato di casa e andando per il vallone era salito così in alto che di lassù vedeva il mare.

Noi il vallone ci portava dentro una vigna quasi piana, chiusa intorno dai càrpini. Che cosa facessimo là fino a sera, non so. Guardavamo le punte degli alberi. Io dicevo a Gosto che al mare non accendono falò, perché il mare è pianura, e disteso sull’erba mi annoiavo a guardare le nuvole. C’erano anche dei grilli in quella vigna, e avrei voluto essere uno di loro per restarci la notte e trovarmici al mattino con la prima luce quando il sole è ancora freddo. Il sole da noi spunta dietro le colline basse, dove il nonno di Gosto aveva visto da ragazzo il mare.

Che il mare fosse da quella parte, l’avevo detto io a Gosto. I giorni di temporale, era là che si apriva lo slargo e il sole tornava a battere come sopra un gran campo di fiori, mentre da noi sgocciolava ancora. Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua. Lo stradone che scende verso quelle colline non è una strada di campagna; porta fuori della valle, in una pianura che scende sempre, che ha degli alberi che sembrano giardini. Già alla svolta, dopo lo sbocco nel vallone, dopo il ponte di ferro, c’è la casetta della Piana che ha un balcone di gerani. Laggiù non ci sono più vigne né boschi né stalle; di carretti tirati dai buoi non ne salgono di là; salgono invece i biroccini a tutta corsa e comitive coi parasoli.

Tutta la notte di San Giovanni, Gosto era stato in giro per il paese e io non avevo potuto andarci, perché in casa nostra a godere i fuochi si sta sul terrazzo. Gosto mi aspettava sotto, nella strada, e ci mostrammo gridando i falò più lontani e i più grossi. Ma poi passò la musica che andava in paese – c’erano tutti, anche Candido – e io mi attaccavo alle sbarre e li chiamavo; Candido si fermò a salutare le mie sorelle e scherzare; poi si misero in fila suonando, e Gosto con loro, e se ne andarono in piazza e per tutta la notte si sentì il clarinetto di Candido e tromboni e chitarre e cantare a gran voce, specialmente le donne. Noi andammo a dormire che gli ultimi falò si spegnevano sulle colline nere, e nel letto piangevo dalla rabbia, ma le voci sperse degli ubriachi e dei cani mi fecero pensare alla mia vigna del vallone e ai biroccini e alle colline che l’indomani avrei rivisto a volontà.

Invece l’indomani non andammo oltre i noccioli, e a Gosto sua nonna mi portava come esempio. Gosto rideva. In casa mia mi dicevano di prendere esempio da lui che, solo al mondo con la nonna, rappresentava tutta quanta la famiglia. Non servì raccontare adesso le cose che avevamo fatto in collegio a Alba. Non mi credevano. Dicevano e dicono che Gosto è più uomo di me. In casa mia non sanno i discorsi che fa.

Intanto, l’idea del mare venne a me, non a lui. Gosto non sa che cosa sia mettersi davanti a una casa, e guardarla fin che non sembra più una casa. Gosto è tanto libero di sé che fa tutto quel che gli dicono, ma lui solo non ci arriva. Ancora adesso non vuol credere quando gli spiego che lo stradone non ha fine, come non han fine le strade ferrate, e di paese in paese gira fin che c’è terra senza mai interrompersi. Dice che, se fosse così, la gente non smetterebbe di camminare e tutti girerebbero il mondo. E sul nostro stradone sarebbe un viavai di stranieri d’ogni paese. — Tutte le strade finiscono al mare, – gli dicevo, – dove ci sono i porti. Di là ci s’imbarca e si va nelle isole, dove gli stradoni riprendono.

Non era convinto che per andare verso il mare bastasse incamminarsi. — Bisogna sapere la strada, — diceva. — Ma la strada si sa. Prendi verso la Piana. — Sarà lontano? — Se dalle Ca’ Rosse tuo nonno l’ha visto. — Quanti anni sono che l’ha visto?

Un giorno andammo nella bottega del carradore che ci prendeva in giro perché non sappiamo andare scalzi. Io mi fermai sull’uscio e non vidi quasi niente nel buio dei fornelli, ma sentivo picchiare sul ferro e Pietro mi chiese se andavo anch’io a scuola con Gosto. E ci disse che alla nostra età lui aveva già attraversato le montagne per andare a lavorare e che cosa sapevamo fare noi? Allora mi accorsi che non sapevamo fare niente. In quel momento Pietro aveva smesso di picchiare, e Gosto diceva: — Siamo nati con le scarpe, noialtri. — Così è, – disse Pietro, senz’arrabbiarsi. – Siete nati con le scarpe.

Ci pensai molto alle parole di Pietro, e il giorno dopo passammo dalla bottega per ritornare sul discorso. Pietro non si era mosso dal fornello e ci disse di non parargli la luce.

Quel giorno ci raccontò che da ragazzo aveva fatto il magnano e viaggiavano lui e un padrone cercando lavoro nei cortili e portandosi dietro i fornelli e il carbone. Per passare le montagne avevano dovuto mettere le scarpe di corda. Poi avevano lavorato nelle miniere di carbone, così lontano che per tornare c’era voluto il treno. Raccontando si fece sulla porta e guardò in piazza. — E il mare, Pietro, non l’hai veduto? — gli disse Gosto. Allora ci disse che era stato a Marsiglia e che là il mare l’aveva davanti alla porta. Guardò la piazza dove cadeva l’ombra della casa e disse: — Come fosse qui in piazza. È movimento giorno e notte. Più che il mercato grosso —. Sputò nel sole e tornò dentro.

Gli chiedemmo com’è fatta la riva del mare, ma non sapeva o non capí quello che noi volevamo. Disse che, sì, l’acqua è verde e sempre mossa e che fa continuamente le schiume, ma dentro non c’era mai stato e non sapeva come sia la terra veduta dal largo. Ci raccontò che i bastimenti hanno un colore tra rosso e nero e che nel porto c’è un odore come nelle stazioni. Disse che carica e scarica più carbone un porto in un giorno che non carri d’uva tutte le nostre colline. E i marinai, anche stranieri, sono vestiti come noi e non hanno altra idea che tornarsene a casa. — Costa fatica il mare, – diceva. – Bisogna nascerci scalzi.

Venne il mese d’agosto, tra i primi e i secondi raccolti, quando in campagna non si fa più niente e la giornata dura ancora metà della notte. Succedeva che andassi a letto quando fuori era sera e sentivo nello stradone sotto il terrazzo ridere gli altri e la gente passare. Per qualunque sciocchezza mi mandavano a letto. Se Gosto veniva a cercarmi, gli dicevano ch’era tardi e che dormivo da un pezzo.

Di là dal Belbo andavamo ogni tanto, ma io mi annoiavo più che a casa dove almeno leggevo i giornali. Ne avevo un armadio pieno. Un pomeriggio verso sera leggevo sul terrazzo e Gosto mi chiamò dalla strada. Gridava e gridai anch’io, ma quando mi disse di ascoltare laggiù, sentii voci lontane, come quando a settembre si discorre nelle vigne. Allora mi accorsi che la musica, che nel pomeriggio aveva suonato sul vento, era cessata. Al Martino facevano nozze e la mattina erano tornati in vettura dal paese: Candido, i tromboni e gli ottavini suonavano già dalla sera avanti. — C’è il fuoco! — urlò Gosto. Le mie sorelle uscirono sul terrazzo e guardammo oltre le piante. C’era tanto sole che non si vedeva netto, sulle piante pareva che l’aria tremolasse. Qualcuno gridò che si sentivano le donne piangere. Dalla casa intorno erano usciti tutti in strada, e parlavano, si arrampicavano sulle pile, le vecchie chiamavano. Gosto ci gridò ch’era passato un garzone marcio di sudore, che correva in paese. Finalmente vedemmo il fumo, c’era dietro la collina che tremolava come sott’acqua.

Quando dal terrazzo mi gridarono di non muovermi, io ero già in strada con Gosto e non potevano più fermarci. Risposi che andavano tutti, che là c’era Candido, e lasciassero i giornali sul terrazzo. Gosto correva già scalpitando.

Non l’avevo mai visto rosso e agitato così. Quando dietro la meliga comparve la colonna di fumo e si sentì il crepitío delle fiamme, si mise a muggire facendo il toro. — Il falò! Il falò! — gridammo insieme. Ma poi stetti zitto, anche per riguardo ai padroni; lui invece si ficcò in quel cortile urlando e menando calci alla roba e, se non lo tenevano, entrava anche in casa.

Il cortile era pieno di roba buttata dalle finestre e dagli usci, e in mezzo scorrazzavano i conigli. Molte donne portavano fuori altra roba; una, per via di un materasso grosso, non poteva passare dall’uscio. Nessuno parlava; si sentiva soltanto il muggito della fiamma dai fienili, e una voce ogni tanto, che dava un comando.

Fortuna che il vento portava il fumo e le falavesche sulla vigna. Faceva un caldo rovente, e i tre o quattro che tiravano su i secchi d’acqua dal pozzo, prima di darli ai ragazzi che correvano, ci buttavano dentro la faccia e s’inondavano. Gosto adesso girava fra i tavoli ancora imbanditi sotto i noci e mi faceva segno di venire anch’io a servirmi. Io conoscevo quasi tutti in quel cortile, e riconobbi la sposa: vestita di rosso, era seduta su una seggiola, al sole, con le scarpe e le calze fini, e guardava il cortile con aria di superbia, come se lei non c’entrasse. Pareva che piangesse e che nessuno le dovesse parlare. Parlavano sotto i noci chiamandosi, e mi videro e dissero chi eravamo, io e Gosto; sembrava la domenica quando passano sotto il terrazzo per andare in paese. Qualcuno, seduto, mangiava. Da dietro la casa uscivano gli uomini scamiciati e sudati – lo sposo che bestemmiava – e si versavano un bicchiere, dicevano qualcosa, si battevano la mano sul collo per schiacciare le mosche. Prima di sera andai anch’io a vedere le fiamme. La casa, dietro, era sventrata, la stalla e i fienili fumavano aperti e mandavano un calore insopportabile. Qui trovai Candido che col tridente sparpagliava del fieno nero; non disse nulla, mi strizzò l’occhio senza ridere e fece segno di andarmene.

Nel cortile i discorsi continuavano. Adesso, donne e uomini, i padroni, la sposa, erano tutti insieme sotto i noci, e chi esclamava, chi taceva, chi dava un calcio a una zappa. Con Gosto girammo il cortile, guardando i letti, gli armadi, le robe rotte e rovesciate. Ormai avevo capito che le facce brutte, lo spavento, l’affanno di quella gente, andavano più in là dell’incendio, erano accuse, dicerie, cattivo sangue.

— Non potevo sposarmi e guardare la stalla, — gridava lo sposo, ancora col fazzoletto di seta intorno al collo. — Se invece di ascoltare la musica… — Ma l’ha voluta vostra figlia, la musica, — diceva tra i denti una vecchia. Vidi Candido spuntare da dietro la casa, e allora si fermarono e cominciò un altro discorso, sulla paglia che restava.

Dall’inferriata della cucina si vedevano le stanze vuote, sfondate in fondo. Sui muri restavano i segni dei mobili e pendevano ancora i festoni di carta. Fuori, dei ragazzi gridavano rincorrendo i conigli. Una donna scalza che entrò in cucina di corsa, scappò dicendo che il pavimento scottava.

Che fosse tardi lo sapevo. Gosto mi disse che, prima di notte, dovevano riacchiappare le bestie che spalancandosi le stalle erano scappate. Sotto gli alberi, discutevano il modo. Si misero a squadre, escluse le donne: la sposa per quella notte doveva andare a dormire alla Piana, ma prima di traversare le ghiaie di Belbo mangiarono qualcosa, e fu una tavolata di più di venti. Intanto, Candido e gli altri acchiappavano le bestie nella campagna. A noi ragazzi proibirono di muoverci: un bue scottato faceva presto a incornarci. Nell’aria fresca li sentimmo gridare, Candido e i suoi, sopra le vigne.

Mentre Gosto frugava in cortile, io girai sotto i noci, e ascoltavo le donne che dovevano andare alla Piana. Dalla Piana passa la strada delle colline: di là dalle colline, è questione di tempo, c’è il mare. Bastava guardare in mezzo ai tronchi dei noci, tutta la valle scende laggiù. Passata la bassa del Belbo si è in altri paesi.

Giravo sotto le piante, e una delle donne, Delia della Piana, mi chiamò e mi disse se non cenavo con la sposa. Vidi Gosto, già seduto, che mangiava anche lui. Mi diedero carne, salame, frittelle. Mangiai poco, ma bevvi del vino e dissi a Gosto attraverso la tavola: — Salute.

La sposa, Clelia e altre ragazze parlarono con me e con Gosto. Mi chiesero delle mie sorelle, mi domandarono perché non erano venute a nozze anche loro. Una vecchia disse che noi del paese eravamo superbi. — Siamo venuti noi per loro, — disse Gosto a bocca piena. — Lo sanno che sei qui? — mi chiese Clelia ridendo.

Quando partimmo per la Piana era buio. Due o tre dei suonatori di Candido ci accompagnavano. Noi camminammo in mezzo a loro e alle donne; e a metà strada era notte. Quando sbucammo sullo stradone, suonò la chitarra e le ragazze cominciarono a cantare, prendendo a braccetto la sposa. Ne erano rimasti indietro della comitiva, giovanotti e ragazze, e si sentivano ridere e chiamarsi sulle ghiaie bianche, di là dai prati. Io camminavo insieme a Gosto e gli dissi: — Stanotte è la buona. — Puoi dirlo, — fece lui correndo.

Non tutti cantavano; c’erano coppie di ragazze che venivano avanti parlando; c’era qualcuno che andava e veniva da un gruppo all’altro, come i cani. Io mi tenevo vicino a Clelia, perché mi piaceva sentirla cantare.

Davanti alla cascina, la sposa tornò a piangere, perché il marito invece di venire a dormire lavorava anche di notte. Tutte, le vecchie e le giovani, esclamarono che avesse pazienza, che lo sposo acchiappava i buoi, che presto sarebbe tornato. Clelia e gli altri l’accompagnarono dentro, entrarono nel cortile; i suonatori – chitarra e ottavino – cominciarono la serenata. Dal fienile portarono la lampada.

Allora restammo sulla strada, in mezzo al buio. La casa dei gerani era alla svolta, un cento passi. Dissi a Gosto: — Se ci vedono adesso, ci mandano a casa. — Sei matto, – disse lui. – Si va? — Andammo. Con tanto che avevamo pensato a quel viaggio, partivamo di notte, all’improvviso. Gosto si lamentò poi, che era stata la cena della sposa a deciderlo. — Troveremo altri incendi e altre spose, — intanto diceva. Io sapevo che a casa era già come fossi scappato.

Faceva così scuro quella notte, che si vedevano soltanto le stelle. Prendemmo un passo come se quella strada non l’avessimo mai fatta. Gosto era ancora allegro dal vino, perché parlava dell’incendio, e rideva e ballava sulla strada. — Gente come noi, – diceva, – dovrebbe sempre andare a nozze —. Parlando non teneva il mio passo. Si fermava ogni tanto per chiamarmi. — Se il Martino bruciava stanotte vedevi che falò —. Ma quando sullo stradone si chiudevano gli alberi, anche lui camminava più svelto. Non era che avessimo paura. Non smettevamo di parlare. Ridevamo. Sotto alla casa dei gerani Gosto si mise a cantare, a gridare, come se qui conoscesse qualcuno. Lontano alle nostre spalle cantavano ancora. Gli dissi di tacere e lui diede un’ultima voce: — Al fuoco, Clelia! — Guardai nel buio respirando appena, perché soltanto adesso cominciava la strada e l’aria aveva un profumo. Gosto corse avanti.

Lo stradone con una svolta seguiva la costa, e dopo un poco non ci furono più dalla parte del salto gli alberi che ci facevano paura. Il ciglione della strada dava nel vuoto, sulla bassa piana del Belbo, che al lume delle stelle non si vedeva che nera. E anche le coste lavorate, che di giorno sono gialle, sembravano pozzi. Ci fermammo a guardare quel vuoto. Laggiù pareva che il vento attizzasse le stelle. — Quanti fuochi stanotte, – disse Gosto, – vuoi che non ci sia un incendio? — Stupido. È Cassinasco. — Ascoltiamo se si sente a gridare —. Si sentivano i grilli. Riprendemmo la strada. Ma Gosto insisteva che laggiù c’era il fuoco. — Voglio vedere un incendio di notte, — borbottò e poi gridò, e si mise a correre. Allora gli corsi dietro per la strada che saliva, e più correvo più lui gridava, fin che fummo a un’altra svolta e qui si vide di nuovo, come un salto nel vuoto, la pianura e a gran distanza un cielo nero di colline. — Non gridare, – gli dissi. – Se ci sentono —. Tendemmo l’orecchio se la serenata era finita, ma stavolta eravamo soli coi grilli. Anche Gosto smise di essere ubriaco e capì che gridare faceva spavento.

Adesso, buttato sull’erba, voleva fermarsi, e io gli dissi che dovevamo arrivare alle case, almeno ai Robini, per trovare un pagliaio. In quel momento cantò il gallo, chi sa dove. — Vedi, – gli dissi. – Viene giorno e noi siamo ancora qui —. Neanche Gosto sapeva che cantano tutta la notte. Da quel momento cominciammo a scendere, guardandoci intorno se spuntava la luce. Volevamo arrivare prima di giorno alle colline di fronte. Passammo i Robini, passammo altri borghi; sotto le stelle si vedeva appena il buio delle campagne, ma si sentivano all’odore.

Quella notte durò chi sa quanto, e non bisognava voltarci indietro. Da un pezzo eravamo discesi in pianura, e andavamo fra i giardini e le ville. Prima, sulla collina, si sentivano le voci dei galli. Adesso anche Gosto ciondolava e non mi dava più risposta. Ogni volta che in fondo alla strada si chiudevano gli alberi, io lo guardavo e mi pareva di essere solo. Sapevo che soltanto la luna ci avrebbe aiutato. Ma sarebbe venuta la luna? era già così tardi. Mi parve che i grilli non cantassero più. Sapevo che prima di giorno doveva levarsi il vento, ma tutto era zitto, le piante e la strada.

Il peggio era che, al buio, con Gosto che dormiva in piedi, mi veniva da pensare a casa. E pensavo alla notte dei falò quando tutti giravano per lo stradone e io ero già a letto. Aveva ragione Gosto, ci volevano incendi e nozze per scappare come avevamo fatto noi. Ci pensai tanto, andando al buio, e immaginandomi che a ogni svolta saremmo stati in riva al mare, che quando poi ci fermammo e scendemmo sotto un ponte per dormire al coperto, mi pareva che il mare dovesse esistere soltanto di notte. Non lo dissi a Gosto, perché a dirle queste cose non sono più niente; ma quando ci svegliammo sotto il ponte, nel sole, e fuori dell’arcata si vedeva l’acqua correre sotto le piante, m’accorsi che anche il Belbo andava al mare e che la sabbia dove avevamo dormito era una spiaggia.

Sotto quel ponte incontrammo Rocco. Gosto che si svegliò prima di me, lo trovò che si lavava gli occhi. Dopo, cercai di capire se fosse già stato vicino a noi nel buio e avesse ascoltato qualcosa che io dicevo a Gosto addormentandoci, ma non ci riuscii. Nel tempo che mettemmo a guardarci intorno, Rocco ci chiese solamente se venivamo da lontano, e Gosto gli disse che c’era bruciata la casa. Poi borbottò con me che Rocco non ci aveva mai né visti né conosciuti, e che cosa importava? bastava uscire di là sotto, ma Rocco ci venne dietro e s’arrampicava più svelto di noi.

Subito dopo il ponte c’era un viale di platani, e per questo viale ci venne incontro nel sole un biroccino tirato da un cavallo trottante che teneva la testa per sbieco, come se giocasse. Dietro i platani si vedeva a due passi la collina, una bella collina color d’uva bianca, e bassa. Io mi fermai, dissi a Gosto che lasciasse andare avanti quel Rocco; volevo ricordarmi una cosa. Per un po’ guardai in mezzo alle foglie dei platani, ascoltavo senza voltarmi il trotto del cavallo finire, e mi pareva che quell’eco, quel sole, la collina bassa, li avessi già visti, ci fossi già stato una volta. A due passi, tra i platani, mi aspettava Gosto; più in là, il vecchio Rocco si allontanava coi suoi stracci e il bastone, senza nemmeno voltarsi indietro. — Se n’è andato, — disse Gosto. In fondo ai platani c’erano le prime ville di Canelli, e noi entrammo guardandoci intorno. Non so perché, camminavamo mica sul marciapiede ma nel mezzo della strada. Così tutti capivano che venivamo da fuori. Gosto parlava sempre, non sapeva che a quell’ora è bello guardare. A me piacciono i balconi e i terrazzini sopra i vicoli, perché dei fiori come hanno a Canelli non li avevo mai visti. Guardavo da tutte le parti, guardavo la gente che andava e veniva. Sulla piazza trovammo una fontana come quella di Alba, e corremmo per berci; Gosto arrivò secondo e mi dava dei calci, ma io bevendo gridavo che lui aveva già bevuto troppo vino dalla sposa. — È per questo che ho sete, — diceva lui, e in quel momento sentii di nuovo la voce di Rocco.

Aveva aperto il suo fagotto sulla panchina, e si slegava una suola per cambiarsi la pezza. Parlava da solo e diceva che l’acqua non bisogna sprecarla. — Tanto versa, – disse Gosto. – La piazza è di tutti —. Allora Rocco non rispose e finí di legarsi la suola. Poi si alzò, si bagnò le dita alla fontana e se le asciugò nella pezza sporca. Sembrava le donne quando hanno mangiato le pesche. Tornò a sedersi, aprí il fagotto e tirò fuori pane e acciughe. — Tornate a casa, – borbottava. – Tornate. — Andiamo, – dissi a Gosto. – Noi mangiamo a Cassinasco. — Come ha fatto a capire che siamo scappati, — gridò Gosto quando fummo in fondo alla piazza. Allora gli dissi ch’era stato lui sotto il ponte a cianciargli del fuoco e della sposa. — Cosa credi? un vagabondo come quello capisce. — Dovevamo partire a settembre, – disse lui. – Senz’uva, me lo dici come facciamo a mangiare? — Basta arrivare a Cassinasco. Poi vediamo —. Ma invece tornammo da Rocco, per vedere che cosa faceva, senza staccarci dal marciapiede. In piazza il sole picchiava e Rocco non poteva restarci molto. Lo vedemmo finir di mangiare il suo pane, e poi, mentre si alzava, dei ragazzi di Canelli arrivarono alla fontana e cominciarono a schizzarsi l’acqua addosso. Lui per bere li fece chetare. Poi traversò tutta la piazza e girò l’angolo.

Gli andammo dietro, di corsa, e Gosto, contento, si divertiva come sullo stradone. Anche a me piacque il gioco, tanto più che Rocco usciva dal paese e andava nel nostro senso. La collina era in fondo, bassa, e sembrava di toccarla. Rocco non si voltava. Quando gli fummo addosso, Gosto gli disse: — Ciao, padrino.

Rocco non si stupí. Quando Gosto gli disse che viaggiare di notte era più fresco, rispose che non era da furbi perché, non vedendo dove si mettono i piedi, si bucano le scarpe. Passammo sotto la collina che prima avevamo davanti: Rocco deviò per uno stradino che saliva una collinetta da viti, e Gosto dietro. Io mi fermai. — Vieni con Rocco, – disse Gosto. – Non sai mica dove andiamo —. Per non guastare la mattinata ci stetti. Ma collinette così ne avevamo anche a casa. Gosto saltava intorno a Rocco raccontandogli che era stato un incendio coi fiocchi e che tutte le nostre bestie erano morte nella stalla. E gli disse che ci avevano cacciato di casa perché c’era da fare il conto dei danni. — Sembra di andare a Santa Libera, — dissi a Gosto. — Qui è la vigna del parroco, — fece Rocco, fermandosi. E alzò il bastone.

Non si vedeva altro che il cielo e una gran pianta di fichi bianchi sul primo filare. Gosto disse: — Stavolta —. Saltammo le spine e cominciammo a raccogliere. — Non mangiare, – gli dissi, – mangiamo poi dopo —. Mentre Gosto saliva sulla pianta, mi voltai e non vidi più Rocco. — Fa’ attenzione che il fico tradisce, — dissi piano. Per mangiarli, continuammo lo stradino a trovare un bel posto. E ci eravamo già seduti sull’erba, quando vediamo il bastone di Rocco e poi lui, che ci aspetta. — Vanno fatti seccare, – ci disse, – per mangiarli quest’inverno —. Come se li comprasse ne scelse a due a due una manciata dei più belli, e Gosto che glieli ficcava sotto il naso. — Io dico rubare, – borbottai, – quando si mette la roba da parte. — Sei tu che hai rubato, — mi disse Rocco. Quel mattino finí che arrivammo alla casa di Rocco. Era un muro di pietre che guardava sul vallone dietro la collina. Non c’era cortile, non c’era niente. Si vede che Rocco ci stava per carità. Gli chiedemmo se aveva dei beni. — Non è necessario, — disse lui, fermandosi. A vedere la casa, Gosto, diventò come un matto e diceva: — Guarda qui com’è bello —, e gli chiese se ci stava anche d’inverno. Rocco ci lasciò entrare nella stanza ch’era piena di zucche, di mazzi di meliga, di mele a seccare e mucchi d’erba. Sapeva un odore di cortile e di raccolto. Rocco, vicino alla finestra, s’era tolto il fagotto e allargava i fichi. Fece con la mano un gesto da vecchio e disse: — È mio.

Ormai togliere Gosto di là dentro era difficile. E fuori il sole scaldava. Mi disse che finché non si mangiava era mattina e avevamo tempo. — Vuoi mettere, – disse, – com’è bello fermarsi qui. Quando vogliamo ce ne andiamo a Canelli. Possiamo pescare nel Belbo. — Valeva la pena viaggiare di notte, – gli dissi, – per fermarci a pescare nel Belbo. Io non ci sto. — Non ci stai? — Non ci sto —. E lui: — Siamo a tre ore da casa. Quando vogliamo ritorniamo —. Parlavamo sulla porta, e Rocco non ci sentiva. — Allora non vuoi più venire con me? — gli dissi secco. Gosto non mi rispose e alzò le spalle. — Io me ne vado, — dissi. In quel momento spuntò Rocco e ci disse di andare a raccogliergli l’erba laggiú. Stavolta le spalle le alzai io e Gosto disse: — Non ci date colazione? — Prima l’erba ai conigli, — fece Rocco. Allora scendemmo nel vallone a raccogliere l’erba. Gosto correva sopra il prato e faceva dei rotoloni, ma io gli dissi e ridissi: — Questa sera sono a Cassinasco. — Per andar giusto, non ce n’è bisogno, – disse lui – che cosa vuoi salire lassú? Tanto il mare di là non lo vedi.

Lo sapevo che il mare di là non si vede; l’avevo saputo fin da quando credevamo alle Ca’ Rosse, ma con Gosto non l’avevo mai detto. Quando il sacco fu pieno, tornammo da Rocco, che ci diede dei pezzi di pane e lasciò che li ungessimo d’aglio. Lui il suo lo mise nell’acqua col sale, per fare la zuppa. — Di oggi, – disse Rocco, – voglio sgranare la meliga —. Gosto portò il discorso sulla collina di Cassinasco e gli chiese che cosa si vedeva di lassú. Rocco ci disse: — Il campanile di Bubbio. — Non finisce la collina? — Uh, – disse Rocco, – comincia allora. — Poi c’è Nizza, — dissi io. — Voi, padrino, che avete girato, – disse Gosto, – il mare non l’avete mai visto? — Che mare? – disse Rocco. – Macché —. Scappai, quel pomeriggio, con Gosto che mi veniva dietro e gridava di fermarmi. — Rocco ci ha dato da mangiare, – diceva, – sgraniamogli almeno la meliga.

Arrivammo sotto il fico. — Senti, – gli dissi. – Per raccogliere l’erba ai conigli non valeva la pena di scappare da casa. Bisognava pensarci stanotte. Non possiamo tornare. — Ma è colpa di quel fuoco, — disse lui. — Stupido, – dissi allora. – Se stanotte ne cercavi degli altri.

Traversammo Canelli e ci lasciammo in piazza.

Gosto se ne andò davvero. Prese il viale dei platani trottando come un cavallo. Io rifeci la strada di prima e uscii correndo dal paese, per paura dei ragazzi di Canelli, che ce l’hanno con noi. Ma stavolta infilai la strada che saliva e, voltandomi a guardare in piazza, fui contento ch’ero solo.

Adesso non m’importava più se di là da Cassinasco non avrei visto il mare. Mi bastava sapere che il mare c’era, dietro discese e paesi, e pensarci camminando tra le siepi. Ci pensai tutto il pomeriggio, perché la collina è quasi piana e uno che guardi crede sempre di arrivare e non c’è mai. Terrazze, giardini e balconi se ne vedevano a ogni svolta, e io in principio li guardavo, specialmente le piante che avevano una foglia o un colore mai visto. Era un’ora, quella, che nessuno passava, solo qualche biroccino. Fermandosi, di là dalle siepi si sentiva la vigna e si vedevano le canne: è questa la bellezza di Canelli. Sembra di essere lontano, in un paese diverso, e la collina non è più collina, anche il cielo è più chiaro, come quando fa sole e piove insieme, ma la campagna la lavorano e fan l’uva come noi.

Arrivai sotto i pini di Cassinasco verso sera, in un’ora che Gosto doveva essere già a casa. Feci l’ultimo pezzo non pensando più a niente; c’era una siepe di rovi che chiudeva la vista. Avanti e indietro sulla strada di cresta passavano donne e contadini; il sole l’avevo nella schiena, e la mia ombra cadeva sui rovi. Le case di Cassinasco erano piccole e nere, ma battute dal sole come una chiesa. Finalmente sbucai. Vidi un’altra collina, e il cielo vuoto.

Rimasi a guardare, fin che il sole bastò. Guardando pensavo a quel che Gosto diceva a casa, e alla cena che mangiava. Forse Gosto era ancora per strada e a casa credevano che fossimo morti. Mi distesi sull’erba come facevo nella vigna dei nocciòli, e mi rinfrescai guardando il cielo. Fame non ne sentivo: mi pareva di essere a letto da un pezzo. Dormivo.

Dormii davvero, e mi svegliai ch’era notte. Sognavo l’incendio e sentivo gridare, delle voci come se mi chiamassero. Il cielo era pieno di stelle e credevo che Gosto fosse sotto le piante. Invece ero solo, e le piante a pochi passi da me traballavano in un riflesso rosso che schiariva tutta la strada.

Sulla strada passavano gente parlando e chiamandosi, e andavano verso il falò ch’era in un prato di là dalle piante. Era un falò enorme che riempiva il buio e, nei momenti che la gente stava zitta, si sentiva mordere e scoppiare. Corsi anch’io verso il prato; c’erano dei ragazzi che ballavano e si rotolavano, e degli uomini buttavano legna e fascine da più di cinque passi, perché non si poteva avvicinarsi per il calore. Io gridai: — Gosto, Gosto.

Durò più di due ore. E su tutta la collina di Cassinasco ne accendevano degli altri, ma il nostro era dei più grandi. Con quei ragazzi di Cassinasco li contavamo, e mi diedero dei pugni nella schiena perché confondevo i falò coi lumi delle cascine.

Poi correvamo chi riusciva a portar via un ramo acceso dal mucchio. Un giovanotto che mi vide nella fiamma, mi chiese: — Chi sei? — ma gli dissi che noialtri la sera di San Giovanni facevamo venire la musica e suonavamo tutta la notte. — Non avere paura, la festa è domani, – mi dissero. – La musica l’abbiamo anche noi.

Dalla strada ogni tanto si sentiva una voce che strillava di spavento. Correvano gli uomini e cominciavano a ridere, perché là li aspettavano le ragazze. Un uomo mi afferrò mentre stavo per raccogliere un ramo. — Sei matto, – mi disse, – e se cadi nel fuoco? — Invece lui mi strappò il ramo e corse al buio con degli altri, e lo gettarono acceso sotto la strada. Si sentí un gran gridare e una voce di donna e poi ridere e si presero a pugni. Ci fosse Gosto, pensavo. La fiamma andava così alta che si schiariva la vallata. — Chi sa se dal mare la vedono, — dicevo; e ogni volta che qualcuno ci buttava una fascina, guardavo giú nella vallata se almeno il Belbo luccicava. Avevo una gran voglia di posti aperti in mezzo agli alberi, e ballare e vedere di lassú tutt’intorno.

Dal paese ogni tanto si sentiva qualcuno attaccare a suonare, ma non era una banda come quella di Candido: sembrava soltanto che provassero il fiato. Il falò cominciò a farsi brace, e tutti dissero che andavano a bere. Noi ragazzi restammo a capovolgere i tizzoni e sentire il riverbero, e io mi feci amico con uno che si chiamava Maurizio e sembrava della mia età ma nel buio non lo distinguevo. Mi disse che veniva dai boschi, sul carro con tutti i suoi, per vedere la festa, e quel mattino si era messo le scarpe.

Maurizio ci faceva ridere quando diceva che le scarpe gli spellavano i piedi. Quella notte lo perdetti, perché corsi in paese con gli altri a sentire la banda che suonava, e ci fermammo sulla porta dell’osteria, ch’era piena di gente. I suonatori erano tre, ma nel chiuso non si poteva stare, tanto facevano forte. Passai la notte sulla piazza e sulla porta, e vedevo sui tavoli il vino versato. Chiesi da bere e mi diedero dell’acqua. Avevo combinato con Maurizio di dormire sulla paglia del suo carro, ma lui non mi aveva aspettato.

Quando venne giorno, era da un pezzo che giravo intorno al letto del falò, e si sentivano cantare i passeri e non riuscivo a prender sonno. I cespugli divennero rosa, poi rossi, e finalmente spuntò il sole dietro la collina. Una cosa sapevo: che il sole aveva acceso a quel modo anche il mare. La cenere del falò era bianca, e pensai ridendo che a casa in quel momento accendevano il fuoco. Ma avevo fame: avevo fame e le ossa rotte.

Girai tutto il mattino sulle strade della cresta, bagnandomi i piedi nell’erba, e mangiai delle more. Tra le piante vedevo la punta dell’altra collina, come da casa si vedeva Cassinasco. In paese, come in tutti i paesi, erano villani. Sulla porta dell’osteria era uscita una serva che, invece di darmi ascolto, aveva buttato un secchio d’acqua.

Se trovavo Maurizio mangiavo. Ma come trovarlo se l’avevo veduto soltanto alla fiamma?

Così, uscii dal paese, perché i contadini sono gli stessi dappertutto. Ma non c’era una pianta che fosse matura, e le mele crescevano troppo vicino alle case. Dalle finestre mi vedevano. Da tutte le parti si sentiva parlare e sbucava gente.

Allora mi buttai sull’erba, nel fossato della strada, perché mi trovassero loro e capissero ch’ero morto di fame. — Che cosa faccio? — dicevo, e anche stavolta sonnecchiai.

Mi svegliò il sole che scottava, e un baccano più forte. Era una cicala su una pianta. Sulla strada non passava più nessuno e si sentivano le voci in paese. Sembrava che venissero dalla collina in faccia, sul vento.

Fu allora che pensai di scender sotto a Cassinasco, dove avevo veduto quelle canne arrivando. Forse dietro quelle canne c’era un fico. Tanto a casa di stasera non arrivo, pensai, come fossi con Gosto. Corsi sotto il paese, e avevo appena messo piede sulla strada, che vidi Candido venirmi incontro, col suo clarino sotto il braccio.

— Come sarebbe? — disse fermandosi. — Sono qui —. Candido ha di bello che non mi tratta come fossi un ragazzo. Mi ascolta quando parlo, e ci pensa. — E Gosto dove l’hai lasciato? — mi disse. — Gosto è tornato ieri. Non l’hai visto? — Vi abbiamo cercati tutto il giorno nel Belbo —. Mi guardò, con la faccia che aveva al Martino, senza ridere. — Ieri il nome te l’abbiamo consumato —. Alzai le spalle e dissi ch’ero già a Cassinasco. Allora Candido guardò la strada: poi guardò la collina. Passò della gente su un carro, e gli gridarono qualcosa. Lui disse: — Buona sera. — Come, è già sera? — feci.

— Vieni su, – disse Candido. – Andiamo a vedere —. Prima cosa cercammo il telefono, e Candido conosceva la ragazza. Una ragazza che somigliava a mia sorella. Scherzarono un poco, poi gli diede la comunicazione. Candido fece chiamare casa mia e, mentre aspettavamo, mi disse che lui doveva suonare sul ballo per tutta la notte. — Vuoi ben tornare a casa? — La ragazza ci stava a sentire, e gli chiese ridendo quand’è che ballava anche lui. — Non faccio più a tempo stanotte, – io dissi. – Ho già messo due giorni a venir qui. — Così sai la strada, — disse Candido, e capii che non parlava chiaro per non farmi vergogna davanti alla ragazza.

Finalmente suonò il telefono e Candido parlò il primo. — Sono venute tutte quante, — mi disse. Gridò che eravamo a Cassinasco e quelle non capivano, e quando dovetti parlare io, avevo la tremarella. Non mi sgridarono; chiedevano dove avevo dormito, esclamavano, si davano il cambio e volevano che andassi a casa subito. Mi fecero venire il mal di cuore, dalla rabbia che la ragazza capisse. Ma questa parlava con Candido; allora chiesi a mezza voce: — E la mamma? — Stupido, la mamma ti aspetta —. Risposi che sarei tornato con Candido, che stavo con lui. Di nuovo vollero parlargli, ma in quel momento un’altra voce s’interpose e disse che la comunicazione era finita. Allora gridai: — Torniamo domani, — e posai subito.

Andammo a cena in una casa appena fuori del paese, dove c’erano già gli altri suonatori nel cortile, e tutti conoscevano Candido e lo aspettavano. Il cortile della casa coperto da viti dava sulla collina di fronte, e in cucina tutti andavano e venivano e c’era un fuoco che sembrava un falò. Candido disse che da ieri non mangiavo, e le donne, spaventate, mi diedero in un piatto pane e uva luglienga. Volevano sapere che cosa avevo fatto, ma con la bocca piena non potevo parlare. Mi ero seduto sulla cassa della legna e di lí sentivo il fuoco e l’odore della carne che friggeva e il rimbombo dell’asse dove quelle impastavano. Dalla porta si vedeva la collina e un po’ di cielo, e niente era più bello che pensarci adesso ch’ero con Candido e avevo parlato coi miei e nessuno sapeva che laggiú c’era il mare. La collina sembrava una nuvola. Bastava chiudere un po’ gli occhi e restava soltanto quel tronco di vite. — Non mangiare troppo, – disse Candido. – Poi ci sono gli agnolotti —. Allora uscimmo nel cortile, dove gli uomini bevevano parlando. Bevevano in piedi, e mi sembrava sotto i noci del Martino. — Le avete acchiappate le bestie? — chiesi a Candido. — Due ci sono scappate oltre Belbo, — disse lui con la faccia del gatto.

Allora, mentre i suonatori lo chiamavano, gli dissi che Gosto era uno stupido perché voleva fermarsi con un vagabondo del Belbo che ci mandava a raccogliere l’erba. Lui lasciò che raccontassi e poi disse: — Venire in festa a Cassinasco è troppo poco. Cosa credevi di trovare? Di qui non si va in nessun posto —. Ma senza aspettare che gli dessi risposta, guardò gli altri e a me disse: — Va’ deciso. Faccio anch’io come te, delle volte.

Adesso tutta la gente che c’era nel cortile aspettava che suonassero. Candido si mise in mezzo col clarino, e a me tutte le volte che allunga le labbra per attaccare, mi piace perché si fa serio che mai. La voce del clarino è la più bella e conduce le altre. Candido stringe sotto i baffi la linguetta e fissa in terra, ma è lui che conduce, comanda con gli occhi. Per tutto il tempo che suonarono non si sentí più una parola e la musica riempiva il cortile. Poi di colpo fu Candido che scosse la testa, levò la bocca del clarino al cielo e cessarono.

Quella sera mangiammo come tanti sposi, io vicino a Candido, e una donna gli chiese forte se ero suo figlio. Ma tutti sapevano che Candido è giovane e gli piace soltanto suonare, e ridevano. Una cosa che ha Candido è che lui beve poco, e mi diceva di non bere perché poi non si capisce più il discorso. — Tu devi conservarti la testa. Tu sei uno che studia, — mi disse anche stavolta. Ma io volevo essere allegro quella notte, e bevevo con gli altri. Bevemmo ancora nel cortile, quando uscimmo sul fresco. Bevemmo e mangiammo dell’uva. Io guardavo la collina scura, dove non c’era più un falò, e mi pareva di esser nato in quel cortile, di esser stato con Candido sempre lassú.

Si accorse lui che avevo sonno, e mi disse di andare a dormire. Litigammo quasi, ma tutti dicevano che il letto era pronto e che tanto sul ballo mi sarei annoiato. Risposi che non era il ballo, ma volevo aspettare il mattino. Candido mi diede ragione e un momento dopo mi portarono a letto perché cascavo dal sonno.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.