Paris Gallery Weekend – Una Fondazione e 44 gallerie per l’arte di domani

 

(Foto Riccardo Piaggio)

 

Oggi FLIP è tra le Gallery di Paris per il Weekend. Virtualmente, s’intende. L’iniziativa d’arte contemporanea che troviamo nei vecchi luoghi Bourgeois Bohémiens è spiegata da Riccardo Piaggio per il Sole 24 Ore. Quartieri rinati ormai da quasi mezzo secolo, ma chi nel Marais passeggiava negli anni Settanta del Novecento trovava in questo cuore di Parigi vecchie case e qualche bistrot, con anziani che giocavano a carte e bevevano vino. Però – in esecuzione della legge Malraux del 1962 per la protezione dei siti storici e in attuazione del piano del 1993 per la salvaguardia e la valorizzazione – il Marais è letteralmente resuscitato. Certo, non dimentichiamo l’effetto traino prodotto dal Centro Georges-Pompidou, poco distante, inaugurato il 31 gennaio 1977 tra le smorfie di molti intellettuali, che all’epoca erano una schiera più numerosa di quella odierna. Col Beaubourg (così lo chiamano i francesi), su progetto di Piano e Rogers, la cultura delle arti visive – design, architettura, fotografia ed, oggigiorno, opere multimediali – è entrata nel tessuto urbano di questi luoghi a un tiro di schioppo dalla Senna, che quando tracimava li rendeva simili ad una “palude”, perché questo è l’origine del nome Marais.

Non meraviglia, quindi, che 44 gallerie diano vita a “Paris Gallery Weekend”, iniziativa curata da un collettivo di galleriste che riunite nell’associazione Choises in questo fine settimana presentano un fiume straripante di exhibitions, openings, performances, concerti, screening, talks. La parola d’ordine è “Evidenziare l’arte moderna e contemporanea a Parigi in primavera”. Entrate sul sito ufficiale per documentarvi sul programma, c’è di tutto e di più. Citiamo solo uno degli incontri più simpatici, una visita guidata quale iniziazione ideale ad allenare l’occhio in modo giocoso per diventare “un collezionista”. E poi c’è il “gioco”, perché sabato e domenica, ci si può lanciare in una ricerca artistica attraverso le 44 gallerie per provare a vincere duemila euro utili per acquistare una delle opere d’arte in mostra. Basterà seguire e identificare i 5 indizi sparsi in 5 gallerie (quali fra tutte?) e infine trovare la scatola misteriosa col premio.

Dare vita ad una manifestazione di tutto rispetto significa, però, avere alle spalle validi sostegni finanziari rappresentati dall’intervento pubblico (nello specifico dal Ministero della Cultura e dalla Mairie come dire la municipalità parigina) e da quello privato espresso qui dalla nuova Fondation d’Entreprises Lafayette. La Fondazione s’impegna in attività d’appoggio attraverso il proprio braccio operativo costituito da Lafayette Anticipations, primo centro multidisciplinare in Francia nato per offrire ad artisti, designer e performeur condizioni e strumenti individuali per orientarsi nel proprio lavoro. Lo slogan è significativo: «Nel montaggio qualcosa sta sempre succedendo».

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FONDATION D’ENTREPRISE GALERIES LAFAYETTE. Creata nel mese di ottobre 2013 dal Groupe Galeries Lafayette, Lafayette Anticipations – Fondation d’entreprise Galeries Lafayette ha aperto le sue porte a marzo 2018 al n. 9 di rue du Plâtre, nel quartiere del Marais, a Parigi, in un edificio riabilitato da Rem Koolhaas e dalla sua agenzia di Architettura OMA . Questa fondazione d’interesse generale mira a sostenere gli artisti e i creatori del nostro tempo. Aperta al design e della moda, riconosce il pensiero singolare di tutti i creatori nella loro capacità di partecipare al cambiamento sociale e anticiparlo. La Fondazione è presieduta da Guillaume Houzé e il suo amministratore delegato è François Quintin. La Fondazione è operativa dal 2013 attraverso il programma di prefigurazione Lafayette Anticipations(Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL SOLE 24 ORE

Un weekend tra le Paris Gallery

Libri e alambicchi, ospedali e spezierie, tra ‘500 e ‘900

 

Filosofi e scienziati, libri e alambicchi, ospedali e spezierie, maestri e luminari, musei e conventi, artisti e religiosi: la straordinaria avventura delle arti sanitarie e della chimica farmaceutica a Napoli e nel Regno del Sud. Una passeggiata tra i secoli – dal Cinquecento al Novecento – per incrociare le appassionanti biografie dei principali protagonisti, le storie dei cenacoli segreti, le vicende delle grandi Scuole, i luoghi dove gli antichi insegnamenti si fusero con la tradizione.

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Robert Indiana – Il suo “LOVE” è colorato, poliedrico, riproducibile da tutti

 

 

La cosa più divertente è che, magari, c’è chi ha negli occhi l’immagine ma non conosce chi l’abbia realizzata. In una parola l’immagine è diventata iconica; si è cioè sviluppato un “rapporto iconico”, nel senso che il segno è diventato un tutt’uno con l’oggetto significato. La parola in questione oggi su FLIP è “Love”, che tradotta significa (chi non lo sa?) amore. L’amore è universale e così è stato per l’opera realizzata dall’artista pop statunitense Robert Indiana, che nel 1964 dispose in un quadrato le quattro lettere della parola “Love”, con la lettera O inclinata. L’immagine fu ideata per una cartolina natalizia del Museum of Modern Art di New York (meglio conosciuto con l’acronimo di MoMA). Nel 1973 la stessa immagine fu ripresa per un francobollo celebrativo da otto centesimi emesso dal Servizio postale degli Stati Uniti. Da allora le molteplici versioni scultoree sono state collocate in moltissimi spazi interni ed esterni: dalla Sixth Avenue a New York al quartiere NishiShinjuku di Tokyo, su Wikipedia l’elenco è lungo. Dal 29 settembre 2016 al 19 febbraio 2017, ad esempio, il Chiostro del Bramante a Roma ha ospitato la mostra “LOVE. L’arte contemporanea incontra l’amore”, a cura di Danilo Eccher. Molte opere dai linguaggi fortemente esistenziali hanno coinvolto il pubblico nelle differenti manifestazioni del sentimento più naturale del mondo, come l’amore: a partire da quello infantile, per approdare all’amore corrisposto, negato, ignorato, ambiguo, trasgressivo. Al centro dell’attenzione era la scultura di Robert Indiana con i significati poliedrici che suggerisce. Robert Indiana nel corso della sua vita artistica ha sempre utilizzato segni universalmente condivisi, dal profondo significato esperienziale perché indirizzato a proporre un’arte immediata e d’impatto, comprensibile da tutti di primo acchito. L’autore è scomparso nei giorni scorsi, all’età di 89 anni, ma la sua opera “Love”, realizzata quand’era trentaseienne, non ha età e neppure limiti imposti dai diritti d’autore. Ci si può amare, finora, senza timori.

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ROBERT INDIANA, all’anagrafe Robert Clark (New Castle, 13 settembre 1928 – Vinalhaven, 19 maggio 2018), è stato un artista, scenografo e costumista statunitense, associato al movimento della Pop Art. Indiana si trasferì a New York nel 1954 e si unì al movimento della Pop Art, usando caratteristici disegni di immagini per realizzare approcci di arte commerciale mescolati con l’esistenzialismo, che evolsero gradualmente verso ciò che Indiana chiama “poesie scultoree”. L’opera di Indiana spesso consiste di immagini audaci, semplici, iconiche, in particolare numeri e parole brevi come “EAT”, “HUG” e “LOVE”. È noto anche per aver dipinto lo straordinario campo da pallacanestro un tempo usato dai Milwaukee Bucks nel palazzetto dello sport di quella città, lo U.S. Cellular Arena, con una grande forma ad M che occupa le due metà del campo. La sua scultura nell’atrio del grattacielo Taipei 101, chiamata 1-0 (2002, alluminio), usa numeri multicolori per suggerire la conduzione del commercio mondiale e i modelli della vita umana. Indiana è stato scenografo e costumista teatrale, come nella produzione realizzata nel 1976 dalla Santa Fe Opera de La madre di tutti noi (The Mother of Us All) di Virgil Thomson, basata sulla vita della suffragetta statunitense Susan B. Anthony. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, Indiana produsse una serie di Dipinti della pace (Peace Paintings), che furono esposti a New York nel 2004. Indiana visse come residente nella città isola di Vinalhaven, Maine, dal 1978. Apparve nel film Eat (1964) di Andy Warhol, che consiste in un’unica ripresa da 45 minuti di Indiana che mangia un fungo. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Morto Robert Indiana, l’artista pop che rese un’icona la parola «LOVE»

Alcuni cantieri didattici di restauro realizzati dagli allievi

 

L’Istituto Veneto per i Beni Culturali (IVBC) è stato fondato nel 1995, da allora propone corsi di restauro triennale finanziati dalla Regione Veneto e dal FSE. l’IVBC ha condotto numerosi interventi di restauro tramite la didattica sperimentata nei cantieri scuola. Tali interventi hanno avuto una forte ricaduta nel territorio nazionale. Questa pubblicazione espone alcuni tra i cantieri didattici gestiti dai restauratori dell’IVBC e realizzati dagli allievi. L’Istituto Veneto per i Beni Culturali (IVBC) è stato fondato nel 1995 e offre corsi di restauro triennali finanziati dalla Regione del Veneto e dal FSE. L’IVBC ha condotto numerosi progetti di restauro didattico e queste misure hanno avuto un impatto sul territorio nazionale. Questa pubblicazione espone alcuni dei siti gestiti da IVBC.

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Philip Roth – Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando

 

A Philip Roth il premio Nobel non lo hanno mai dato ed è morto pure nell’anno in cui è stato deciso di non assegnarlo a nessuno, in ragione del noto scandalo che ha macchiato persino il prestigioso riconoscimento mondiale. Anche qualora lo avesse ricevuto, questo Nobel, ora che è morto che cosa ne avrebbe fatto? Un premio serve per i vivi, per evidenziare i migliori, quelli che aiutano a guardare la realtà, così com’è, non per come la vorremmo. Per questo c’è tutto il resto della letteratura oziosa o irrilevante. Ma chi era Philip Roth? Rispondere “uno scrittore” parrebbe semplicistico. Se lo avessimo chiesto a lui stesso, avrebbe chiarito semplicemente: «Smonto frasi. È la mia vita. Scrivo una frase e poi la smonto. Poi la rileggo e la smonto di nuovo». E ancora: «Scrivo cose inventate e mi dicono che sono autobiografiche. Scrivo cose autobiografiche e mi dicono che sono inventate. Visto che sono così confuso e loro sono così acuti, lasciamo che decidano loro». Chi sono “loro”? Sono i critici. Sui giornali di oggi, a due giorni dalla morte, i paginoni si sprecano, per cui fareste meglio a leggere quegli articoli anziché queste poche righe. Tutti concordano che era un gigante della letteratura contemporanea americana, evidenziano quanto abbia inciso sulla cultura. Lui non ne era affatto convinto, ammesso che fosse davvero sincero. Aveva ancora i capelli neri, nel 1984, quando concesse un’intervista a Hermione Lee per la rivista Paris Review: «Mi chiedi se i miei romanzi abbiano cambiato qualcosa nella cultura, e la risposta è no. Senza dubbio hanno fatto un po’ di scalpore, ma la gente si fa scandalizzare in continuazione: è uno stile di vita. Non significa niente. Se mi stai chiedendo se avessi voluto cambiare in qualche modo la cultura coi miei romanzi, la risposta è ancora no. Quel che voglio è possedere i miei lettori mentre leggono il mio libro: a riuscirci, vorrei possederli in modi inarrivabili agli altri scrittori. Poi li lascerei ritornare, com’erano prima, in un mondo dove chiunque altro sembra lavorare per cambiarli, convincerli, prendersi cura di loro e controllarli». Anticipava i nostri giorni. In tutti i sensi. Per esempio, leggerete le note biografiche che riportiamo da Wikipedia; ma lo sapete voi che, nel 2012, proprio Wikipedia non ha corretto quanto lo scrittore chiedeva? Si riferiva al suo romanzo The Human Stain (La Macchia Umana). «Io, Roth, non ero una fonte credibile», dovette concludere! Sulla diatriba Roth spedì una lettera aperta al New Yorker. La riportiamo di seguito. Queste sono le sue conclusioni: «La scrittura romanzesca è per il romanziere un gioco a fingere. Come la maggior parte degli altri romanzieri che conosco, una volta ottenuto ciò che Henry James chiamava “il germe” ho continuato a fingere e ad inventare». Nel caso di Philip Roth, però, il suo processo di scrittura porta noi lettori a domandare: quando dall’invenzione affiora di nuovo la realtà?

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PHILIP MILTON ROTH (Newark, 19 marzo 1933 – New York, 22 maggio 2018) è stato uno scrittore statunitense. È stato uno dei più noti e premiati scrittori statunitensi della sua generazione, considerato tra i più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese, una tradizione che comprende Saul Bellow, Henry Roth, E. L. Doctorow, Bernard Malamud e Paul Auster. È conosciuto in particolare per il racconto lungo Goodbye, Columbus, poi unito ad altri 5 più brevi in volume (premiato con il National Book Award), ma è diventato famoso con Lamento di Portnoy, da alcuni considerato scandaloso. Da allora si è ritagliato un posto di grande interesse, e attesa a ogni titolo, con una produzione lunga e costante ed estimatori (ma anche periodici attacchi per il linguaggio considerato da alcuni troppo aperto e scurrile), che l’hanno proposto più volte per il Premio Nobel, premiandolo nel frattempo con molti altri riconoscimenti. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA REPUBBLICA

È morto Philip Roth, gigante della letteratura privato del Nobel

Percorsi dell’anima all’interno di tre certose simbolo

 

Tre luoghi simbolo della storia universale e dell’immaginario religioso, architettonico e artistico, le certose di san Martino a Napoli, di san Giacomo a Capri e di san Lorenzo a Padula. il filo conduttore delle esposizioni, tra assonanze e distinzioni, si articola sulle interpretazioni storiche dei temi della meditazione, della violenza, della redenzione, del conflitto religioso.

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Socrate – Vivere o morire, quale sia migliore è cosa oscura a tutti

 

Nel FLIP di oggi poniamo in evidenza il giudizio di una delle grandi firme del “Corriere della Sera”, come Paolo Mieli, che recensisce il saggio di un’altra grande firma del “Corriere” e de “la Lettura” qual è Mauro Bonazzi autore di “Processo a Socrate”, pubblicato da Laterza. Bonazzi, che insegna Storia della filosofia antica presso l’Università di Utrecht e l’Università Statale di Milano, pone la domanda delle domande, ovvero quella che ogni studente di filosofia di liceo, interessato al grande filosofo greco, in cuore suo si è posto: E se fosse stato Socrate stesso a decidere di morire? A sentire Platone e Senofonte, due degli allievi del filosofo, se fosse stato un tantino più conciliante avrebbe potuto ottenere l’assoluzione. Il fatto è che il settantenne Socrate – secondo Aristofane, che ne tratteggia figura e pensiero nella sua celebre commedia «Le Nuvole» (423 a.C.) – non solo era strambo, come poteva essere un “sofista”, ma rappresentava «il peggio della nuova cultura», soprattutto per due motivi. Il primo: era sospetto di ateismo, poiché negava l’idea stessa di divinità. Il secondo: corrompeva i giovani, sovvertendo in loro lo schema tradizionale riguardante l’autorità, da quella familiare all’intera organizzazione sociale. Bonazzi nel suo libro spiega quello che sarebbe da interpretare come «uno scontro tra la filosofia e la democrazia». Da una parte c’è Socrate, che rivendica autonomia e indipendenza contro conformismo e pregiudizi; dall’altra c’è Atene, che lo accusa di cospirare contro le istituzioni democratiche. Socrate rifiuta la difesa offerta da Lisia, preferendo l’autodifesa. Rispetto a coloro che sostengono la tesi politica, Bonazzi suggerisce cautela poiché mancano consistenti indizi in tal senso e la figura di Socrate è «difficilmente riducibile negli schemi tutti politici dell’opposizione tra oligarchi e democratici».

Riassumiamo i momenti salienti del processo come li sintetizza Mieli: «L’uditorio era composto da 501 giudici e da un folto pubblico. Socrate scelse di preparare da solo i suoi due (forse tre) discorsi di difesa, rifiutando l’aiuto del già citato Lisia, uno dei più celebri oratori dell’Atene dell’epoca. Il processo poi aveva norme garantiste: se, ad esempio, un imputato fosse stato assolto, gli accusatori rischiavano di essere puniti. “A ulteriore conferma”, nota Bonazzi, “del fatto che non mancavano strumenti per impedire che si intentassero processi con troppa disinvoltura”. Ciò che in quel frangente il filosofo temeva di più era il boato del pubblico, che effettivamente fu usato contro di lui (ne parla Platone per stigmatizzarlo). Comunque la prima votazione si risolse in favore sì dell’accusa, ma con uno scarto tutto sommato ridotto: 280 voti contro 221, e Socrate si lasciò persino andare a qualche dileggio nei confronti di chi lo aveva trascinato in giudizio. Ma la seconda votazione, quella in cui si doveva decidere tra una sentenza di morte e il pagamento di un’ammenda, si concluse con una maggioranza a favore della pena capitale. Una maggioranza netta».

Cosa dettò l’andamento sfavorevole di questo processo che portava in tribunale l’intera esistenza del filosofo? La risposta di Bonazzi è inequivocabile: un «doppio fallimento». Quello della democrazia ateniese «incapace di ascoltare il tafano che cercava di risvegliarla dal torpore dei suoi pregiudizi», ma anche il fallimento dello stesso Socrate, incapace di trovare «le parole giuste per far capire le sue ragioni». In realtà la linea di difesa adottata dal filosofo fu alquanto incomprensibile, preferendo la provocazione alla pacificazione. Socrate propose come soluzione del processo (quasi a mo’ di sberleffo) «di essere mantenuto a vita nel Pritaneo a spese dello Stato, un privilegio normalmente riservato agli orfani di guerra e ai vincitori delle gare olimpiche». In alternativa il pagamento di una cifra irrisoria. Non è irritando giudici che si può evitare una punizione dura ed esemplare, come la pena capitale. È vero, oggi possiamo condividere le parole di Mauro Bonazzi, piene di grandi idealità, quando sostiene che in qual senso Socrate è il vincitore morale del processo, in quanto «è riuscito nell’impresa di far finire sul banco degli imputati Atene, la città che non aveva saputo accettare la sua sfida e per questo aveva scelto di ripiegarsi su sé stessa e sui propri pregiudizi». Pur condannato a morte dal Tribunale di Atene, Socrate è stato «assolto e premiato da quello della storia». Vale domandarsi, però, se ne è valsa la pena e se un’assoluzione, scaturita da un chiarimento fra le parti, non avrebbe ugualmente premiato le ragioni della ragione. Che Aristofane avesse per caso un pizzico di ragione?

LEGGI PER INTERO IL LIBRO DI PLATONE “APOLOGIA DI SOCRATE”

SOCRATE, figlio di Sofronisco del demo di Alopece (Atene, 470 a.C./469 a.C. – Atene, 399 a.C.), è stato un filosofo greco antico, uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale. Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d’indagine: il dialogo che utilizzava lo strumento critico dell’elenchos (ἔλεγχος, “confutazione”) applicandolo prevalentemente all’esame in comune (ἐξετάζειν, exetάzein) di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell’etica o filosofia morale. Per le vicende della sua vita e della sua filosofia che lo condussero al processo e alla condanna a morte è stato considerato, dal filosofo e classicista austriaco Theodor Gomperz, il «primo martire per la causa della libertà di pensiero e d’investigazione». (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Socrate provocò la giuria del processo Quasi cercando la condanna a morte

Viceversa – Almanacco dell’Architettura Disegnata

 

Viceversa è una rivista bimestrale di architettura diretta da Valerio Paolo Mosco e Giovanni La Varra, pubblicata in pdf e su ISSUU. Ogni numero è curato da un redattore o un esterno. Il presente numero, dedicato all’architettura italiana disegnata, è curato da Carmelo Baglivo e Valerio Paolo Mosco.

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Umberto Eco e la sua Biblioteca semiologica curiosa, lunatica, magica e pneumatica

 

La notizia risale a oltre un mese fa, ma lo scrittore Paolo di Paolo torna oggi a parlarne in apertura delle pagine culturali di Repubblica, con un articolo intitolato “Biblioteche d’autore Maneggiare con cura”. La sua preoccupazione riguarda il destino della biblioteca di Umberto Eco, scomparso a febbraio del 2016. Eco definiva la preziosa sezione antiquaria come la «Biblioteca semiologica curiosa, lunatica, magica e pneumatica»: quasi un autoritratto commenta Paolo di Paolo. In questi ultimi giorni anche la città di Alessandria, sua città natale, ha espresso il convincimento di chiedere a sindaco e giunta di «contattare la famiglia in modo da dimostrare interesse». In verità la bella biblioteca privata del grande umanista è diventata oggetto di una gara tra biblioteche pubbliche per ottenere il prestigioso Fondo librario. Questo è un bene, tutto sommato, perché spesso il patrimonio lasciato in mano agli eredi da parte di autori di fama eccelsa ha visto prendere la via dell’estero. Basti pensare alla vicenda legata alla biblioteca di Giuseppe Pontiggia, e al suo archivio, che avrebbero potuto essere trasferiti in Svizzera ed oggi finalmente acquisiti dalla BEIC (Biblioteca europea di informazione e cultura) di Milano. La famiglia di Umberto Eco ritiene giusto che la collezione di libri rimanga in Italia, precisando che «le ipotesi di cessioni a università estere o vendite all’estero non sono mai state prese in considerazione, né la vendita all’asta o il frazionamento dei singoli fondi librari». Questo evidenzia grande sensibilità e rispetto culturale nei confronti, anzitutto, del loro famigliare. Per questo motivo, gli eredi di Eco – di fronte alle richieste da una parte del Comune di Bologna e della sua Università dove il grande intellettuale ha insegnato per molti anni, dall’altra della milanese Biblioteca Braidense – la famiglia ha dichiarato che i testi di lavoro di Eco saranno donati, piuttosto che venduti, invitando le due città ad un accordo fruttuoso. Per ottenere il Fondo, composto da oltre 35 mila volumi, occorrerebbe prospettare quale potrebbero essere le modalità di valorizzazione e di fruizione pubblica dei libri in donazione. Se questo fosse confermato con certezza, perché si continua a parlare di cifre milionarie? Occorrono idee progettuali riguardanti spazi e allestimento di una biblioteca adeguata e questo sembra che sia il minimo per essere credibili.

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UMBERTO ECO (Alessandria, 5 gennaio 1932 – Milano, 19 febbraio 2016[1][2]) è stato un semiologo, filosofo, scrittore, traduttore, accademico e bibliofilo italiano. Saggista prolifico, ha scritto numerosi saggi di semiotica, estetica medievale, linguistica e filosofia, oltre a romanzi di successo. Nel 1971 è stato tra i fondatori del primo corso del DAMS all’Università di Bologna. Sempre nello stesso ateneo, negli anni Ottanta ha fondato il corso di laurea in Scienze della comunicazione. Nel 1988 ha fondato il Dipartimento della Comunicazione dell’Università di San Marino. Dal 2008 era professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna. Dal 12 novembre 2010 Umberto Eco era socio dell’Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA STAMPA

Alessandria partecipa all’asta per la biblioteca di Umberto Eco

L’attuale mercato della pasta, essenziale nella cucina italiana

 

Nell’era industriale, il Mezzogiorno italiano perde “l’esclusiva” sulla pasta. Con l’affermarsi della produzione su tutti i mercati, ovunque la pasta è vista come piatto essenziale della cucina italiana. Pasta e Pizza sono divenute ambasciatrici d’Italia. L’affermazione della pasta secca industriale e la sua elevata produzione comportano, a lungo andare, un cambiamento dei gusti alimentari. Nel Nord Italia, ad esempio, fino alla seconda guerra mondiale, si consumavano, soprattutto riso e polenta. Oggi predominano, un po’ in tutta la penisola, minestre e pastasciutta. Quello che era un alimento per ricchi è diventato comune per tutte le classi. Ormai la pasta è divenuta una portata nel menù alimentare degli italiani, mentre all’estero viene affiancata come contorno. Col tempo, le ricette per piatti di pasta sono aumentare enormemente, sfruttando l’editoria, come riviste, libri di cucina, rubriche su vari giornali per il pubblico femminile e, naturalmente, su internet e televisione.

Vari formati di pasta.

Il consumo maggiore d’uso quotidiano si registra soprattutto al Sud, mentre al Nord la pasta è considerata una valida alternativa a riso, polenta e minestre. Queste ultime vengono considerate un alimento leggero, per persone malate o bambini piccoli. La pasta fa parte della cucina mediterranea, ricca di verdure, in particolare modo, già a partire del mondo classico. Esiste anche una “dieta mediterranea” di cui fanno parte le paste dietetiche.

Oltre a ricette regionali, l’Italia si caratterizza per la varietà dei formati: quelli normali, quelli locali o cittadini e quelli specifici del pastificio che li produce. Oltre ai formati diffusi in tutta la penisola, come spaghetti o maccheroni, si trovano anche paste tradizionali di Sicilia, di Genova, di Napoli, di Puglia, od altro. L’uso è divenuto, però, così diffuso, da conseguire una normazione del settore, come la lunghezza di uno spaghetto o quella di un maccherone, con i loro spessori. L’Emilia Romagna è famosa per le paste all’uovo e quelle ripiene. Proprio in questo settore sono fiorite le paste speciali, con formati, sapori e colori. Il loro uso è entrato in voga, soprattutto perché permettono di differenziare l’offerta al pubblico di ciascun pastificio, evidenziandolo.