Pietro Bembo – Con le sue Prose ritrovate fondò la lingua italiana

 

 

Il suo nome sfugge a chi non ha dimestichezza con i Classici. Pietro Bembo era un grande umanista, per l’appunto conoscitore dei classici latini, la cui figura è delineata nel nuovo libro della Collana “Scritture e libri del Medioevo” edita da Viella. Titolo: “Bembo ritrovato: il postillato autografo delle prose”. Autore: A. Bertolo. A riprendere il titolo vero del libro ritrovato, leggiamo: «Prose di messer Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al cardinale de’ Medici che poi è stato creato a sommo pontefice e detto papa Clemente VII divise in tre libri». Chissà, dunque, chi avrà il coraggio di continuare il nostro pur breve articolo per scoprire, come abbiamo fatto noi, questo lavoro realizzato su di un testo fondamentale da tre brillanti studiosi: un bibliologo, un paleografo e un filologo. Si tratta della prima edizione (stampata a Venezia nel 1525) delle Prose riguardanti la “volgar lingua”, ovverosia l’Italiano, quella lingua che stiamo usando per scrivere. Su quell’opera fu fondato l’italiano letterario e il modello che Pietro Bembo propose fu quello delle cosiddette «tre corone» (d’alloro naturalmente), meglio sarebbe dire «due corone + una». Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. Il terzo, Dante, usava secondo il cardinale Bembo un linguaggio un po’ troppo popolare. Tre toscani, comunque, ecco perché la lingua fiorentina del trecento si affermò come lingua condivisa in Italia a scapito dell’altra lingua parlata alla corte di Federico II nel Sud d’Italia.

L’originale dell’opera giunto ai nostri giorni, è stato ben conservato nella biblioteca di un collezionista privato di testi antichi, e riporta in copertina, inciso in oro sulla rilegatura in marocchino rosso, lo stemma araldico di Bembo. Il bibliofilo aveva acquistato il volume negli anni Cinquanta presso un libraio antiquario la cui copia era pervenuta dagli eredi Foscarini, costretti a vendere nell’Ottocento il loro patrimonio librario. Era il prezioso acquisto fatto due secoli prima da Marco Foscarini, ambasciatore a Roma e futuro doge di Venezia. Ecco dunque ricostruito a ritroso il percorso del libro che Bembo aveva stampato, come s’è detto, a Venezia nel 1525 e che aveva lasciato in eredità al «suo fedele discepolo ed esecutore testamentario», Carlo Gualteruzzi. La scoperta più importante sono oggi le postille autografe di Bembo, poste ai margini del testo, perché i bibliofili i libri li custodiscono amorevolmente, ma sono gli studiosi che li esaminano e li riportano a nuova vita. Attraverso la ricostruzione filologica è possibile capire anche il metodo di lavoro dell’autore. Si comprende perciò che il grande umanista Bembo continuò ad annotare considerazioni per vent’anni dopo l’uscita del famoso libro, fino alla sua morte avvenuta a Roma nel 1547. In una seconda edizione delle Prose, parte di tali annotazioni furono inglobate nel testo a stampa, ma nell’originale si vedono quelle altre cancellate con un tratto di penna oppure ripetutamente corrette. Oggi anche le note non trascritte sono tornate alla luce grazie a quel testo, con chiose autografe, che permette di leggere le Prose come l’autore avrebbe pubblicato in una nuova edizione che non avvenne mai per mano sua, bensì di altri.

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PIETRO BEMBO (Venezia, 20 maggio 1470 – Roma, 18 gennaio 1547) è stato un cardinale, scrittore, grammatico, traduttore e umanista italiano. Contribuì potentemente alla diffusione in Italia e all’estero del modello poetico petrarchista. Le sue idee furono inoltre decisive nella formazione musicale dello stile madrigale nel XVI secolo. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA LETTURA (CORRIERE DELLA SERA)

Stelline a cinque punte e mezzelune: i segreti di Bembo

William Turner – La modernità si affacciava sulla scena del mondo

 

È la prima volta che le opere di William Turner sono in mostra a Roma, raccolte da David Blayney Brown per esporle al Chiostro del Bramante dal 22 marzo al 26 agosto 2018 con il titolo “TURNER, Opere della Tate”. Sono, infatti, provenienti dalla Tate Britain di Londra; ma in realtà giungono a noi direttamente dallo studio personale dell’artista, che non volle vendere, quanto donarle all’Inghilterra come lascito testamentario. Secondo il suo amico ed estimatore, John Ruskin, sono state realizzate negli anni per il suo “proprio diletto”. Rievocazioni di viaggi, vedute paesaggistiche fissate col pennello, emozioni dell’animo suscitate nel corso dei suoi soggiorni all’estero. Ruskin era solo uno degli illustri e colti intenditori che frequentavano costantemente il suo studio al numero 64 di Harley Street di Londra. Il duca di Bridgewater o Sir John Leicester avranno visto e commentato le oltre novanta opere esposte oggi a Roma: schizzi, studi, acquerelli, disegni e naturalmente dipinti ad olio. In inverno l’estroso pittore si chiudeva fra le pareti avvolgenti dello studio per trasferire su tela i ricordi di quanto gli si era impresso nella memoria dal vivo. Quando la bella stagione affiorava, prendeva a lavorare all’aria aperta. Allora, era possibile vedere in giro un ometto di poche parole, di bassa statura, robusto, sbrindellato. Anche se nel proprio ritratto giovanile sembra tutt’altra persona. Quest’uomo con tavolozza e cavalletto a spalla spaziava dai dintorni della sua residenza a mezza Europa. Disponeva il cavalletto dove percepiva una scena che lo colpiva, come il mare in tempesta o un rudere monumentale.

Davanti alle rovine di un acquedotto romano, “eterna” la Città Eterna. Qualcuno che mastica di pittura, da queste poche parole lette, si sarà ricordato degli impressionisti; si dedicavano anche loro alla pittura “en plain air”, solo che William Turner molto prima di loro ha colto modernamente la realtà che si presentava al suo sguardo curioso. Restituiva, con pennellate irrequiete, bagliori di luci e oscurità di ombre, lo scorrere o l’agitarsi dell’acqua, lo sfrecciare di un treno in una nuvola di fumo. Tutto questo lo dipingeva in modo libero, svincolato dal “controllo” che all’epoca la Royal Academy esercitava sugli artisti ammessi fra i suoi soci, come era lui stesso, ma dai quali spesso si dissociava per quel suo carattere indipendente che lo portava a dipingere a modo suo. Non era, perciò, un pittore alla moda, né era ben accetto dalla critica; anzi era oggetto di biasimi e allusioni, sui giornali dell’epoca. Questo però non gli precludeva dal rimanere sempre attratto dal giusto prezzo a cui vendere le proprie opere. E le opere di Roma sono proprio alcune di quelle invendute, perché non pagate secondo quanto da lui richiesto. Il fatto è che quelle vedute colte nei suoi viaggi affascinavano i contemporanei come luoghi esotici. Nell’agosto del 1818 è in Italia: Torino, Milano, Venezia, Roma, Napoli. Ammira i maestri della pittura nei musei, nelle chiese e nei palazzi dell’aristocrazia. Ed oggi a sua volta si fa ammirare da un pubblico incantato, perché è come scoprire il passato: non solo con gli occhi dei pittori, ma con la loro stessa sensibilità percettiva, come in quel suo acquarello nel quale ritrae Venezia e la laguna al tramonto. Turner lo dipingeva nel 1840, ma a noi tutti ricorda Claude Monet che nel 1872 rappresentava la sua evanescente impressione al levar del sole (Impression, soleil levant, al Musée Marmottan Monet di Parigi). Monet, col suo quadro connoterà la strada lungimirante, aperta molti anni prima da pittori come William Turner e non solo da lui. La modernità si affacciava sulla scena del mondo.

 

JOSEPH MALLORD WILLIAM TURNER (Londra, 23 aprile 1775 – Chelsea, 19 dicembre 1851) è stato un pittore e incisore inglese. Appartenente al movimento romantico, il suo stile pose le basi per la nascita dell’Impressionismo. Benché ai suoi tempi fosse visto come una figura controversa, Turner è oggi considerato l’artista che elevò la pittura paesaggistica ad un livello tale da poter competere con la più blasonata pittura storica. Famoso per le sue opere ad olio, Turner fu anche uno dei più grandi maestri britannici nella realizzazione di paesaggi all’acquerello, e meritò il soprannome di «pittore della luce». (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LIBERO

Turner in Italia – Roma la folgorazione

Hermann Rorschach – Andy Warhol ne interpretò le famose macchie

 

I nostri lettori conoscono senza dubbio il famoso test di Rorschach. Conoscono anche le “Warhol’s Rorschach”? È una serie di sessanta dipinti realizzati da Warhol nel 1984, modellata sul famoso test “inkblot”, concepito dallo psichiatra svizzero Hermann Rorschach. Il test si compone sostanzialmente di 10 tavole: su ognuna di esse è riportata una macchia d’inchiostro simmetrica: 5 sono monocromatiche, 2 bicolori e 3 colorate. Le tavole sono sottoposte all’attenzione del paziente una per volta. Senza limiti di tempo, lo psichiatra chiede al paziente di esprimere tutto ciò che la tavola gli ispira, descrivendo una propria sensazione oppure raccontando una storia stimolata dall’immagine rappresentata. Non esistono risposte giuste o sbagliate, nondimeno Rorschach ha compilato un complesso elenco per la valutazione del test. Dall’interpretazione delle risposte è possibile delineare il profilo del paziente (attitudini, personalità, eventuali problematiche). Mentre il test effettivo, del tipo psicologico proiettivo, fornisce dieci macchie standardizzate per penetrare la personalità del paziente, Warhol dal canto suo con le “Rorschach Paintings”  ha inventato una personale interpretazione del test piuttosto che dell’osservatore delle sue macchie. Le ha ottenute dipingendo un lato della tela per poi ripiegarla verticalmente per imprimere l’altra metà.

Ironia del caso è che Warhol, inizialmente, aveva compreso erroneamente il processo clinico, credendo che i pazienti creassero loro stessi le macchie d’inchiostro e i medici interpretassero i disegni prodotti: «I thought that when you went to places like hospitals, they tell you to draw and make the Rorschach Tests. I wish I’d known there was a set». Pensava, cioè, che quando ci si recava nella sede di un ospedale, i medici chiedessero di realizzare le macchie e che in questo consistesse il test di Rorschach. Non era assolutamente a conoscenza che ci fosse un set di 10 tavole già predisposte. A causa di questo iniziale equivoco, la serie “Warhol’s Rorschach” è una delle poche opere in cui l’artista statunitense non si basa su immagini preesistenti. Nel saggio di catalogo predisposto per una mostra dedicata a questi particolari dipinti, il critico Rosalind Krauss, legge la serie “Rorschach” come una “parodica visione dell’astrazione Color Field”, praticata da Helen Frankenthaler e Morris Louis, Kenneth Noland e Jules Olitski. Questo movimento pittorico è, infatti, caratterizzato dall’uso di tele interamente dipinte con estensioni di colore, escludendo qualsiasi interesse nei confronti di segno, forma, materia.

 

HERMANN RORSCHACH (Zurigo, 8 novembre 1884 – Herisau, 2 aprile 1922) è stato uno psichiatra svizzero. Deve la sua fama soprattutto alla creazione di un originale metodo psicodiagnostico creato indipendentemente dai presupposti freudiani. Tale metodo, detto Test di Rorschach, si avvale di una serie di dieci tavole coperte di macchie d’inchiostro nere o policrome che il paziente deve interpretare. Hermann Rorschach nacque nel 1884 a Zurigo, la “capitale svizzera della psichiatria” dell’epoca (in quei decenni operarono presso l’Ospedale Psichiatrico della città, il celebre Burghölzli, psichiatri del calibro di Eugen Bleuler, Carl Gustav Jung e C.Velvet). (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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SOLE 24 ORE (in anteprima su Cinquantamila.it)

Rorschach e il suo test, anima e moda

Pablo Picasso – L’uomo che di ogni opera faceva un monumento

 

Scrivevamo che FLIP è un angolo di Experiences dove mettere in risalto alcune buone letture; oggi aggiungiamo anche le buone visioni (quelle filmiche, naturalmente). È in televisione la seconda serie di “Genius”. Dopo Einstein, National Geographic racconta, infatti, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Parliamo di Picasso, la cui biografia televisiva è in onda dal 10 maggio su National Geographic Channel. La serie s’incentra su due momenti dell’esistenza del pittore: la giovane età (grosso modo protratta ai 40 anni) interpretata da Alex Rich, e la maturità (dai 40 ai 92 anni) che vede quale protagonista credibile e convincente Antonio Banderas. Una particolarità, a margine: Pablo Picasso e Antonio Banderas sono ambedue nati a Malaga e l’attore, per sua stessa testimonianza, sembra che abbia in più occasioni rifiutato d’interpretare il ruolo, per deferenza nei confronti del grande “genio” spagnolo. Naturalmente, non c’è alcun bisogno di spiegare chi sia Picasso. Ovunque si appella come “padre del cubismo”. In verità, la svolta cubista si verificò tra il 1906 e il 1907, influenzato dalla retrospettiva sulla pittura di Cezanne, scomparso in quel periodo, e  dalla scultura africana, riscoperta di quell’esotico primitivismo che aveva affascinato Gauguin e tanti dopo di lui. Nel 1907 diede vita a «Les demoiselles de Avignon» che contrassegnò l’inizio della stagione cubista di Picasso, che strinse un intenso sodalizio artistico con George Braque. Le loro opere di questi anni sono sovente indistinguibili. La fase cubista dell’artista malaguegno durò pressappoco dieci anni, ma tanto bastò perché la sua fama raggiungesse un livello impensabile. Molte sono state, in realtà, le aree di sperimentazione artistica di Picasso, che espresse anche attraverso l’impegno civile. Basti pensare all’Esposizione Mondiale di Parigi del 1937, e alla sua interpretazione dell’eccidio di «Guernica», presentato in mostra nel Padiglione della Spagna. Il dipinto rappresenta, infatti, una delle opere più simboliche di tutto il Novecento.

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L’attore nei panni del grande artista nella serie tv ‘Genius’ 

PABLO RUIZ Y PICASSO, semplicemente noto come Pablo Picasso (Malaga, 25 ottobre 1881 – Mougins, 8 aprile 1973) è stato un pittore, scultore e litografo spagnolo di fama mondiale, considerato uno dei protagonisti assoluti della pittura del XX secolo. Snodo cruciale tra la tradizione ottocentesca e l’arte contemporanea, Picasso è stato un artista innovatore e poliedrico, che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte mondiale per esser stato il fondatore, insieme a Georges Braque, del cubismo. Dopo aver trascorso una gioventù burrascosa, ben espressa nei quadri dei cosiddetti periodi blu e rosa, a partire dagli anni venti del Novecento conobbe una rapidissima fama: tra le sue opere universalmente conosciute Les demoiselles d’Avignon (1907) e Guernica (1937). (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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NATIONAL GEOGRAPHIC

Antonio Banderas è Pablo Picasso nella seconda stagione di “Genius”

Michelangelo Buonarroti – Era mancino ma lavorava con la destra

 

La conferma che Michelangelo fosse mancino viene da un libro: la biografia del maestro scritta Raffaello da Montelupo, suo assistente. Vi si racconta come cercasse abitualmente di adoperare la mano destra, salvo che nelle azioni di forza. In realtà Michelangelo nascondeva la propria natura per via dei pregiudizi che al tempo screditavano i mancini. La sinistra era considerata la mano del diavolo – dipinto nelle iconografie medievali con due arti identici e non speculari – quindi la sinistra era la mano «sbagliata», che predisponeva all’eresia e all’apostasia. Le prove di un Michelangelo mancino affiorano nelle analisi del tratto effettuate sui disegni oppure sono evidenziate nello studio dell’esperto di medicina nell’arte Davide Lazzeri pubblicato sul Journal of the Royal Society of Medicine. Lazzeri spiega l’artrite degenerativa «che ha colpito la mano di Michelangelo, in particolare la mano sinistra come si evince dai quadri, usata per i lavori di forza come scolpire e cesellare. Altro elemento suggestivo è che Michelangelo in giovane età intaglia e incide un crocifisso per l’abbazia di Santo Spirito in cui l’iscrizione è dipinta da destra a sinistra, molto probabilmente perché all’epoca era ancora più abile con la mano sinistra nella pittura». Michelangelo non è stato comunque l’unico mancino fra gli artisti celebri; troviamo, infatti, pittori come Leonardo o Picasso, letterati come Kant o Kafka, ma anche musicisti quali Beethoven, Bob Dylan, Jimi Hendrix. Il Giornale torna sull’argomento Michelangelo e FLIP segnala l’articolo ai propri lettori.

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MICHELANGELO BUONARROTI (Caprese, 6 marzo 1475 – Roma, 18 febbraio 1564) è stato uno scultore, pittore, architetto e poeta italiano. Protagonista del Rinascimento italiano, fu riconosciuto già al suo tempo come uno dei maggiori artisti di sempre. Fu nell’insieme un artista tanto geniale quanto irrequieto. Il suo nome è collegato a una serie di opere che lo hanno consegnato alla storia dell’arte, alcune delle quali sono conosciute in tutto il mondo e considerate tra i più importanti lavori dell’arte occidentale: il David, la Pietà del Vaticano, la Cupola di San Pietro o il ciclo di affreschi nella Cappella Sistina sono considerati traguardi insuperabili dell’ingegno creativo. Lo studio delle sue opere segnò le generazioni successive, dando vita, con altri modelli, a una scuola che fece arte “alla maniera” sua e che va sotto il nome di manierismo.(Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL GIORNALE

Michelangelo, un genio mancino costretto a lavorare con la destra

Tutankhamun – Nessuna stanza segreta all’interno della sua tomba

 

«Riuscite a vedere qualcosa?» domandò Lord Carnarvon. «Sì, cose meravigliose!» rispose Howard Carter. È il dialogo tra Lord Carnarvon, il finanziatore della ricerca, e Howard Carter, il tenace archeologo, in occasione della prima visione della Camera Funeraria KV62. In quel momento il nome del re fanciullo si impose al mondo contemporaneo. Quando, però, il 16 febbraio del 1924 Carter dispose di aprire il sarcofago, Lord Carnarvon, era scomparso l’anno precedente. «Diedi l’ordine. Fra il profondo silenzio, la pesante lastra si sollevò. La luce brillò nel sarcofago. Ci sfuggì dalle labbra un grido di meraviglia, tanto splendida era la vista che si presentò ai nostri occhi: l’effige d’oro del giovane re fanciullo». La mummia intatta del faraone era collocata in un sarcofago d’oro massiccio pesante circa 110 kg, con il volto coperto da una maschera aurea riproducente le sembianze del defunto. Quella maschera funebre è ormai famosa quanto le meraviglie dell’Antico Egitto. Rimaneva sapere se la tomba di Nefertiti, bellissima sposa del faraone Akhenaton, padre del giovane re, si trovava o meno oltre la camera mortuaria di Tutankhamon, dietro a supposte porte murate. La tesi, infatti, era ed è che il faraone bambino, morto senza avere avuto il tempo di realizzare una tomba all’altezza della sua immagine divina, dimorasse provvisoriamente in quella realizzata per Nefertiti, anzi che la regina fosse deposta in qualche stanza attigua non ancora rivelata. Sembra, invece, che oggi si sia posto fine a questa controversia nata dall’ipotesi dell’egittologo Nicholas Reeves, cioè che la tomba della regina Nefertiti potesse essere dietro i dipinti a nord e a ovest della camera mortuaria. Non c’è niente di niente, con buona pace delle ipotesi e grazie ai rilevamenti scientifici.

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NEBKHEPERURA TUTANKHAMON (1341 a.C. circa – gennaio/febbraio 1323 a.C. circa), precedentemente noto come Tutankhaton e conosciuto semplicemente come Tutankhamon, è stato un sovrano egizio appartenente alla XVIII dinastia. Dodicesimo re della XVIII dinastia, facente parte del cosiddetto Nuovo Regno, è anche noto come “il faraone fanciullo”, essendo assurto al trono in giovanissima età, tra i nove e i dieci anni. La non trascrizione delle vocali nell’antica lingua egizia comporta oggi che il suo nome venga spesso riportato, anche a seconda della lingua, come Tutanchamun, Tutankhamun, Tutankhamen, Tutenkhamen, Tutenkhamon (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA REPUBBLICA

Torino, svelato il mistero di Tutankhamun: la tomba di Nefertiti non esiste

Jean de Reveillon – Il vescovo di Sarlat che portò pace nel meridione d’Italia

L’antico palazzo episcopale di Sarlat

La notizia riportata dal corrispondente del Corriere della Sera è curiosa come non mai. Riguarda Sarlat-la-Canéda, comune francese di diecimila abitanti nella regione della Nuova Aquitania. Il piccolo borgo è restato legato alle origini medievali, giacché le sue strade sono ancora senza nome e occorrerà intitolarle quanto prima ai personaggi autorevoli che hanno fatto la storia di quei luoghi. Experiences vorrebbe proporre il nome di Jean de Reveillon, vescovo della diocesi di Sarlat, dal 2 ottobre 1370 fino alla sua morte nel 1396. Nel catalogo dei libri pubblicati da Experiences compare, infatti, il prezioso volume scritto a quattro mani da Sergio Bertolami e Rosa Manuli, intitolato “ex Aqua”. La vicenda che vi si descrive – relativa allo studio dell’area falcata di Messina e del suo toponimo di San Raineri – ha come fulcro la firma del Trattato di Avignone del 1371, voluto da papa Gregorio XI. Nel tentativo di pace tra angioini ed aragonesi, per porre fine ad una guerra che contava ormai novant’anni, il papa Gregorio XI proteggeva e vigilava costantemente la regina Giovanna I di Napoli, attraverso collaboratori fidati quali Niccolò Spinelli e Raimondo del Balzo, nonché proprio il vescovo di Sarlat Jean de Reveillon. Grazie ad un’opera di ricucitura politica molto complessa, il papa riuscì a condurre a buon fine il matrimonio tra il siciliano Federico IV d’Aragona ed Antonia del Balzo, nipote della regina angioina Giovanna I di Napoli.
La principessa Antonia accompagnata dal vescovo di Sarlat, legato pontificio, e dagli ambasciatori siciliani e napoletani, sbarcò sulla riva del porto falcato di Messina in prossimità del Faro, accolta con grandissimo giubilo dallo sposo e da tutte le autorità della cittadinanza messinese. Due giorni dopo, il 26 ottobre 1373, furono fastosamente celebrate le nozze dal legato pontificio nel Duomo di Messina. Ciò che più conta, sotto il profilo politico, è che il re aragonese Federico poco meno di un mese dopo annunzierà di avere giurato il 17 dicembre il trattato di pace nelle mani del vescovo di Sarlat ed in presenza dei grandi del regno. Si compivano così le operazioni relative alla pace, la quale, sulla base del Trattato di Avignone dell’anno precedente, era stata concordata dal re Federico con la regina Giovanna I nel 1372; modificata dal pontefice e ratificata dalle parti contraenti il 31 marzo 1373 ad Aversa. Fu quindi sottoscritta da Federico IV in persona il 17 dicembre 1373 nel palazzo reale di Messina, dove il 17 gennaio del nuovo anno prestava giuramento di fedeltà al papa (che tolse la scomunica sull’isola di Sicilia) nelle mani del vescovo Sarlat, suo legato.
Per la verità, il re aragonese, è passato alla storia come “Federico il semplice” vale a dire “lo stupido”; con questo soprannome lo appella il grande storico Tommaso Fazello. In realtà, a differenza degli avi, è grazie al suo tenace agire che la pace si è concretizzata veramente, dimostrando di fatto – scrive Francesco Renda nella sua documentata Storia della Sicilia dalle origini ai nostri giorni, (Sellerio editore, Palermo 2003) – «che non fu poi così semplice se con il trattato di pace del 1372 sciolse il nodo storico che non era riuscito a sciogliere il nonno Federico III, cioè pose fine alla guerra dei 90 anni e raggiunse il riconoscimento internazionale del Regno di Sicilia».

SARLAT-LA-CANÉDA è un comune francese di 10.082 abitanti situato nel dipartimento della Dordogna nella regione della Nuova Aquitania, sede di sottoprefettura (arrondissement). Lo sviluppo della cittadina avvenne in epoca medievale, intorno ad una abbazia benedettina, che ancor oggi rimane centro turistico di interesse internazionale (candidato come patrimonio dell’umanità UNESCO). La sua moderna rivalutazione, spinta anche dal lavoro del ministro della cultura francese (1960-69) André Malraux, l’ha resa importante e riconosciuta come città medievale. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Sarlat, dove le strade non hanno nome. E Internet non arriva

Stabilimenti per la pasta nell’Italia di fine Ottocento

 

L’apparire di nuove tecnologie comincia a cambiare il mondo. Nel campo della pasta, le vecchie aree e le storiche città del Sud verranno meccanizzate. Ma le nuove possibilità permettono il fiorire di attività anche in posti senza grande storia. Così a Torre Annunziata e Gragnano, si affiancano il pastificio Tommasini di Milano, come in Toscana, il pastificio Dolfi e la Buitoni di Sansepolcro, fondata già nel 1827, ambedue premiati all’esposizione di Parigi del 1900 con una medaglia d’oro per la qualità dei prodotti. A Fara San Martino a Chieti (in Abbruzzo), spicca, dal 1887, il pastificio De Cecco, fondato da Filippo De Cecco. Ancora esistente è pure la Agnesi di Pontedassio (Imperia), nata nel 1824. Ormai chiuso è, invece, sempre in Liguria, il pastificio Astenga di Savona. Ancora a Parma, nel 1911, si costituisce la Barilla, la cui pasta continua ad essere affermata attualmente.
A Parma il pastificio più rinomato è quello di Ennio Braibanti, I suoi figli, Mario e Giuseppe Braibanti, divennero, nel 1933, gli ideatori e i realizzatori della pressa continua. Insieme aprirono, pure, il primo pastificio totalmente automatizzato, che, all’inizio dello scorso secolo sfornava pastine glutinante all’uovo, molto richieste, e paste con formati esclusivi.

Mulino Agnesi

FABBRICHE DEL SUD
Contemporaneamente, la tecnologia importata nel Sud Italia mette in evidenza molti pastifici anche in questa area. Sono inizialmente delle piccole industrie, ma ben attrezzate. Ad esempio, lo stabilimento Scaramella e l’azienda Amato & C. di Salerno, premiata all’esposizione parigina del 1900, e tutt’ora molto conosciuta. A Gragnano opera, invece, il pastificio Alfonso Garofano, fondato nel 1842 e premiato anch’esso all’esposizione di Parigi del 1900. Purtroppo, ha chiuso nel 1970. Attualmente esiste un altro pastificio Garofano, che però è stato fondato nel 1935.
Tra i maggiori stabilimenti siciliani, si distinse il pastificio Russo di Termini Imerese ed altri quattro: due posti a Catania, uno a Palermo ed un altro a Caltanissetta.
Nella zona pugliese operavano pastifici a Bari, Brindisi e Foggia. Sono divenuti pastifici storici quelli di F. Tamma e C. di Bari e l’azienda F.lli Divella di Rutigliano (Bari).
Le industrie meridionali, ed in particolare siciliane, avevano come caratteristica quella di unire un mulino ad un pastificio.

 

Javier Cercas – Mi rendo conto che le persone hanno dimenticato tutto

 

«Riflettiamo sull’Europa con Javier Cercas» così annuncia la Home del prossimo Salone del Libro di Torino. Perché Javier Cercas e chi è? Alla prima domanda troviamo risposta sul medesimo sito del Salone: «Siccome il futuro è al centro di quest’edizione, abbiamo chiesto a un grande scrittore europeo di ragionare insieme a noi sul concetto di Europa. Cos’è l’Europa nel XXI secolo, o cosa dovrebbe essere? È un’eterna incompiuta? È un’astrazione? È la grande speranza di tutti noi?». Quindi giovedì 10 maggio, in apertura di Salone, il pubblico ascolterà la lezione magistrale di Javier Cercas. Ma chi è questo scrittore spagnolo? Lo leggiamo nell’intervista di Marco Belpoliti rilasciata in occasione del suo ultimo romanzo, uscito lo scorso anno e visto che noi di FLIP siamo tipi curiosi abbiamo trovato come sfogliarne pure le prime pagine.

SFOGLIA LE PRIME PAGINE DEL SUO ULTIMO ROMANZO: Il sovrano delle ombre

 

JAVIER CERCAS MENA (Ibahernando, 1962) è uno scrittore e saggista spagnolo. Lavora anche come colonnista per il quotidiano spagnolo El País, e per anni è stato anche insegnante universitario di Filologia. La sua opera è principalmente narrativa, e si caratterizza per la mescolanza di vari generi letterari, l’uso del cosiddetto romanzo non-fiction e l’unione di cronaca e saggio con la finzione. Ha anche realizzato varie traduzioni di opere di altri autori. A partire dal suo romanzo di successo Soldados de Salamina, le sue opere sono state tradotte in più di venti paesi ed in più di trenta lingue. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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DOPPIOZERO

Scrittore o intellettuale? Intervista a Javier Cercas

Karl Marx – Come non accettare supinamente il pensiero egemone

 

Ricorrono duecento anni dalla nascita di Karl Marx. Per ricordarne l’evento FLIP oggi presenta due articoli. Quello del “Fatto Quotidiano” scritto da un professore di Storia economica come Sergio Noto e… sentite-sentite… una intervista fatta allo stesso Marx nel 1871. L’ha riproposta il settimanale “Internazionale”. L’originale è uscito su The World il 18 luglio 1871, con il titolo Interview with Karl Marx, head of L’Internationale. Accingiamoci alla lettura, dunque.

Karl Marx (1818-1883), filosofo politico e sociale, iniziò la sua carriera a Colonia nei primi anni quaranta come direttore di un giornale. Quando questo venne chiuso per motivi politici, si trasferì a Parigi, dove diresse un’altra pubblicazione fino a quando anch’essa venne chiusa per la stessa ragione. Si sistemò allora a Londra, dove scrisse le sue principali opere di filosofia e di economia politica. Si occupò ancora di giornalismo e fu corrispondente estero del New York Tribune dal 1851 al 1862. Il suo capolavoro, Il Capitale, venne pubblicato nel 1867. R. Landor, corrispondente del World, ha intervistato Marx a Londra e ha trasmesso il testo al giornale il 3 luglio 1871. Si pensa che l’altro signore tedesco presente per tutta la durata dell’intervista fosse Engels. Soltanto un paio di mesi prima, la Comune di Parigi, cui Marx aveva partecipato, era stata soffocata nel sangue.

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Marx, il nuovo Socrate

 

KARL MARX, spesso italianizzato in Carlo Marx (Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 marzo 1883), è stato un filosofo, economista, politologo, storico, sociologo, uomo politico e giornalista tedesco. Il suo pensiero, incentrato sulla critica in chiave materialista dell’economia, della politica, della società e della cultura capitalistiche, ha dato vita alla corrente socio-politica del marxismo. Teorico della concezione materialistica della storia e assieme a Friedrich Engels del socialismo scientifico, è considerato tra i filosofi più influenti sul piano politico, filosofico ed economico nella storia dell’Ottocento che ha avuto un peso decisivo sulla nascita delle ideologie socialiste e comuniste. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL FATTO QUOTIDIANO

Il capitalismo muore senza Marx