Bridget Bishop – A Salem è la prima vittima della follia collettiva

 

 

Salem, il cui territorio ricade oggi, in gran parte, nella città di Danvers, negli Stati Uniti, è all’epoca un villaggio del New England, ultimo avamposto prima di inoltrarsi nei territori indiani. La località è colonizzata nel 1626 da un gruppo di immigrati europei, calvinisti, condotti da Roger Conant, in opposizione alla politica anglicana di re Carlo I° contro le minoranze religiose. La maggior parte degli abitanti della colonia inglese professa il puritanesimo, vive all’insegna della moderazione dei costumi e soprattutto dell’inflessibilità morale. Si richiede che gli abitanti siano molto devoti e rispettosi della fede. Fanno pasti moderati e praticano i digiuni prescritti. Non conoscono il gioco d’azzardo. Non consumano tabacco o alcol, né tantomeno droghe, considerando fra queste anche caffè e tè. Gli abiti non devono essere vistosi, né gli atteggiamenti possono essere provocanti o comunque sconvenienti. I giovani sono obbligati alla castità prematrimoniale. Contratto, poi, il matrimonio, è pretesa la massima fedeltà coniugale. Ad eccezione degli inni liturgici per gli adulti sono proibite musica e danze; per i bimbi giochi e ogni tipo di giocattolo, considerati distrazioni futili. In breve, a Salem, tra i valori comuni spiccano l’onestà, l’integrità, l’obbedienza nei confronti di Dio, della legge e delle regole di vita comunitaria. Dal 1642 già in Inghilterra, patria d’origine, è ufficialmente riconosciuto il reato di stregoneria, punibile con la pena capitale. I religiosi predicano dal loro pulpito le nefandezze del demonio.

La storia delle Streghe di Salem nasce in questo clima di rigida osservanza. I numeri di un processo popolare determinato da una storia d’isteria collettiva, come oggi la definiremmo, sono presto detti. Vengono coinvolti circa 200 abitanti della comunità e ne finiscono sotto processo 144. Sotto tortura ben 54 fra questi confessano di essere devoti a satana. Via via nel corso delle sentenze sommarie sono mandate al patibolo 19 persone. Il 10 giugno 1692 a Salem iniziano le esecuzioni. La prima a salire sul patibolo è Bridget Bishopper condannata all’impiccagione. Il luogo dell’esecuzione è ancora oggi conosciuto come Witches’ Hill (la collina delle streghe). La Bishop, 60 anni d’età, è una proprietaria terriera. Coltiva preferibilmente mele e possiede una taverna. È sospettata di professare la magia nera; ma non solo, perché è anche accusata di aver sedotto molti fra gli uomini del villaggio e di incantare con le sue pratiche di stregoneria le giovani fanciulle di Salem. Questa storia, invero, nasce proprio fra le giovani fanciulle in fiore e si allarga progressivamente agli anziani del villaggio. Prende avvio quando nell’inverno, fra il 1691 e il 1692, Elizabeth Parris, conosciuta col diminutivo di Betty, figlia del reverendo, e sua cugina Abigail Williams, iniziano a manifestare dei disturbi comportamentali: hanno atteggiamenti aggressivi verso familiari e estranei, emettono strani versi vocali, si contorcono oppure si nascondono dietro i mobili, strisciano per terra. In particolare smettono di parlare e di rispondere alle domande dei parenti sulla causa del proprio “malessere”. Nessuno oggi si meraviglierebbe, considerando che hanno circa dieci anni d’età. Il medico interpellato non diagnostica malanni fisici, ma ricordiamo che a Salem, data la rigidezza dei costumi, anche i bambini sono dei piccoli adulti; perciò i loro non possono che essere sintomi derivati da un “malocchio”. La notizia non tarda a diffondersi, tanto che riecheggia un nuovo strano caso. Altre sei  brave ragazze del villaggio sono vittime di un seme follia collettiva. Cosa che è vera, anche ai nostri occhi, ma gli abitanti di Salem hanno tutt’altro metro di giudizio rispetto al nostro. L’ipotesi espressa dal dottor Griggs è che il maligno abbia preso possesso delle giovani. Chi lo ha evocato? se non qualche strega che si occulta fra le donne della comunità? Secondo il reverendo Parris, William Stoughton e William Phips, a Salem alcune donne praticano la stregoneria.

La caccia alle streghe comincia dai popolani e non dalle autorità giudiziarie, anche perché nessun reato civile o penale è ancora dimostrabile. Una donna, Mary Sibley, sa come individuare le colpevoli. Basta far mangiare ad un cane una focaccia di segale impastata con l’urina delle sospettate e si scoverà chi è la vera strega; ma la missione non consegue alcun risultato. È allora che si ritiene giusto istituire un “regolare” tribunale. Tanto regolare che fra le prove addotte è quella dell’evidenza spettrale. Le donne accusate sono chiamate a deporre in tribunale alla presenza delle vittime. Se nell’udire la loro voce o nell’ascoltare l’esposizione dei fatti le ragazze avvertiranno malesseri o manifesteranno qualche stato di crisi isterica, la prova spettrale fornirà i risultati sperati. Questo avviene quando il popolo si fa giustizia da sé ed anni di ordinamento giuridico sembra non siano mai esistiti. Per conoscere l’evoluzione del processo basterà ai nostri lettori seguire la scheda che appare di seguito all’artico, su Wikipedia. Per avere conferma di come, ancora oggi, questi casi non siano per nulla superati, occorrerà leggere l’articolo di Tiziana Della Rocca riflettere.

 

BRIDGET BISHOP (Inghilterra, 1632 circa – Salem, 10 giugno 1692) fu la prima condannata a morte per stregoneria durante i processi alle streghe di Salem nel 1692. Il suo cognome da nubile era probabilmente Playfer, o forse Playford. Si sposò tre volte. Il suo primo matrimonio, intorno al 1660, fu con il capitano Samuel Wasselbe. Il secondo matrimonio, celebrato il 26 luglio 1666, fu con Thomas Oliver, vedovo e importante uomo d’affari, da cui ebbe una figlia, Christian, nata l’8 maggio 1667, che in seguito sposò Thomas Mason. Rimasta vedova, Bridget fu accusata di aver ucciso il marito ricorrendo ad arti magiche, ma fu assolta per insufficienza di prove. Il suo ultimo matrimonio fu celebrato nel 1687: sposò Edward Bishop, un ricco legnaiolo. Nei verbali processuali che la riguardano si legge che era originaria di Salem[1], termine con cui si intendeva Salem Town (oggi Danvers), mentre in altri atti di accusa Salem Village è specificato per esteso. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL FOGLIO

Streghe di ritorno

Vogue Italia: evoluzione dell’immagine visiva in 50 anni di moda

 

Prendendo in considerazione la storia della rivista di moda Vogue e concentrandosi sul caso italiano, in questa tesi di laurea di Giulia Farrauto in Design e Comunicazione Visiva (Torino, 23 Luglio 2015) è stata svolta un’analisi delle copertine e delle pagine interne nel corso dei vari decenni, indagando le influenze e le componenti socio-culturali che hanno affermato l’identità visiva della rivista.

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Maria Teresa d’Asburgo – L’infanta di Spagna sposa Luigi XIV re di Francia

Presentazione a Luigi XIV di Francia da parte di Filippo IV di Spagna della figlia Maria Teresa, promessa sposa e prossima regina di Francia.

 

Saint-Jean-de-Luz, è un comune francese ad un tiro di schioppo da Biarritz e Bayonne, ma soprattutto è pressoché al confine con i Paesi Baschi. Il 9 giugno del 1660, nella chiesa di Saint-Jean-Baptiste de Saint-Jean-de-Luz, è celebrato il matrimonio di Luigi XIV, re di Francia, e di Maria Teresa di Spagna. Le nozze, in verità, erano state già celebrate per procura in terra spagnola il 3 giugno. Mercoledì 9 giugno avvenivano in forma ufficiale. Maria Teresa dovette preliminarmente rinunciare al trono di Spagna che la legge di successione concedeva anche alle donne. Suo padre, re Filippo IV, sottoscrisse la disponibilità al versamento di una dote di 500.000 scudi d’oro, che non pagò mai e che solo sette anni dopo fu pretesto per scatenare la Guerra di Devoluzione (1667-1668). Per questo motivo Luigi XIV invase alcune città delle Fiandre, rivendicate in virtù del diritto esistente nei territori del Brabante contro l’attribuzione a Carlo II d’Asburgo, divenuto nel frattempo re di Spagna. L’emendamento prevedeva il possesso ereditario a favore dei figli di primo letto, quale era appunto Maria Teresa divenuta moglie di Luigi XIV quel 9 di giugno, e non a Carlo II figlio di secondo letto di Filippo IV. Non solo quindi problemi di dote, ma interessi che invero riguardavano la sovranità su territori specifici. D’altra parte, lo stesso matrimonio tra il ventiduenne Luigi re di Francia e Maria Teresa infanta di Spagna avveniva per motivi politici e non sentimentali. A soli otto anni, Maria Teresa si era trovata ad essere l’unica figlia del potentissimo Filippo IV, essendo già morte le sue cinque sorelle maggiori e soprattutto il fratello Baltasar Carlos, legittimato al trono. In questo momento Maria Teresa ricopriva il ruolo di presunta erede del dominio spagnolo. Con la pace dei Pirenei, stipulata il 7 novembre 1659 tra Francia e Spagna, il cardinale Mazzarino, primo ministro e stretto consigliere del giovane Luigi, chiudeva la Guerra franco-spagnola. Filippo IV, per sigillare la ritrovata armonia fra i due Paesi, concedeva la mano di colei che non sarebbe più divenuta regina di Spagna, ma consorte del sovrano di Francia. Una concessione dura. Fin da piccola, per ragioni di Stato si era pensato di unirla in matrimonio dapprima a suo cugino l’arciduca Ferdinando e, dopo la sua morte, al fratello che quattro anni dopo diverrà l’imperatore Leopoldo I. Ambedue rappresentano il ramo degli Asburgo d’Austria. L’ipotizzato matrimonio avrebbe di nuovo riuniti gli sconfinati territori asburgici appartenuti a Carlo V, sul cui regno non tramontava mai il sole, che per successione erano stati divisi fra i suoi due figli. Filippo IV apparteneva invece all’altro ramo, quello degli Asburgo di Spagna.

Nonostante i progetti di riunificazione dinastica, la giovane Maria Teresa avrebbe voluto sposare il re di Francia, quel Luigi XIV, cugino anche lui sia da parte di padre che di madre, ma appartenente alla opposta casata dei Borbone. Allorché, con la pace, si avviano le iniziative per il matrimonio, che soddisfano le mire politiche del cardinale Mazzarino sulla Spagna, è richiesto un ritratto dell’infanta, da spedire a Parigi: sarà dipinto da Velasquez e con questo ritratto sarà spedita anche una ciocca dei suoi capelli. Benché Maria Teresa fosse certa che il futuro sposo fosse innamorato di lei, Luigi era preso dalle avvenenze di Maria Mancini, nota fra le sette nipoti del cardinale italiano, chiamate appunto mazarinettes, portate in Francia per far loro contrarre matrimoni vantaggiosi. Sia la Regina-madre, Anna d’Austria, che lo stesso Mazzarino si opposero ad un legame infruttuoso per le sorti di Stato. I due sposi s’incontrano per la prima volta sull’isola “des Faisans”, porzione di terra emersa fra le acque del fiume Bidasoa, confine naturale tra Francia e Spagna, scelto per i negoziati e la stipula del trattato dei Pirenei.

All’epoca Maria Teresa non conosce il francese, che apprenderà a corte. Al Louvre Anna d’Austria, nel contempo suocera e zia, le insegnerà la lingua e come destreggiarsi nel ruolo di regina, ma lei conserverà sempre la propria naturale goffaggine. Non aveva le capacità diplomatiche, si annoiava durante le rappresentanze ufficiali, si presentava in pubblico barcollando sulle sue zeppe altissime per camuffare la bassa statura, così disarmonica rispetto all’incedere del sovrano, sempre odorando d’aglio o con la bocca e i denti imbrattati di cioccolato di cui era golosissima. Luigi XIV prese ben presto ad evitare di farsi accompagnare da lei, dove non fosse strettamente necessario. La regina temeva le ombre della notte e occorreva che una delle sue cameriste spagnole le raccontasse storie per farla addormentare, tenendola per mano. Luigi XIV tornò a dedicarsi alle numerose favorite, ma fu sempre ligio ai suoi doveri coniugali. Maria Teresa dette alla luce sei figli in dieci anni, che scompariranno tutti prima della morte dei genitori. Sopportò l’adulterio, poiché comprendeva che il loro matrimonio e persino la messa al mondo dei figli facevano parte di accordi di Stato. Raccontano le cronache che quando negli ultimi anni della sua vita ritrovò le gentilezze e le attenzioni del marito solesse dire: «Dio ha creato Madame de Maintenon per rendermi il cuore del Re! Mai mi ha trattato con tanta tenerezza da quando la ascolta!». Madame de Maintenon era la compagna che Luigi XIV sposerà con matrimonio morganatico (senza cioè diritti di successione né per la moglie che per i figli) quando Maria Teresa passerà a miglior vita. Ragioni di Stato, dunque. Tali ragioni di Stato porteranno Filippo V, affezionato nipote del re Sole, ad essere il primo re di Spagna appartenete alla dinastia dei Borbone. Assurse al trono, proprio perché sua nonna, ovvero la regina Maria Teresa, era figlia di primo letto di Filippo IV di Spagna e sorella di Carlo II ultimo re spagnolo della dinastia degli Asburgo, nato dopo il matrimonio di Maria Teresa con Luigi e morto come i suoi fratelli prima di lei.

LEGGI L’ANTEPRIMA DEL LIBRO DI ANTONIA FRASER: Love and Louis XIV: the women in the life of the Sun King  

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MARIA TERESA D’ASBURGO, anche chiamata Maria Teresa d’Austria, soprattutto nella storiografia francese (in spagnolo: María Teresa de Austria; in francese: Marie Thérèse d’Autriche) (San Lorenzo de El Escorial, 10 settembre 1638 – Versailles, 30 luglio 1683), era figlia del re Filippo IV di Spagna e di Elisabetta di Francia. Dalla nascita ebbe i titoli di infanta di Spagna e del Portogallo e di arciduchessa d’Austria; probabile erede al trono spagnolo, venne destinata col Trattato dei Pirenei (1659) in moglie a Luigi XIV di Francia, suo cugino di primo grado da parte sia di padre sia di madre. Nata come Infanta Maria Teresa, Infanta di Spagna all’Escorial, era la figlia di Filippo IV, re di Spagna, e della sua consorte Elisabetta di Francia, che morì quando Maria aveva solo sei anni. Poiché la corona spagnola (a differenza di quella francese) non era vincolata alla legge Salica, era possibile per una donna non solo trasmettere il diritto di successione, ma anche ascendere al trono. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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THE NEW YORK TIMES

The King’s Bed

Riflesso – Magazine sulla Cultura del Design 2018

 

Presentiamo della rivista “Riflesso” il numero speciale realizzato con il patrocinio di WDO (World Design Organization) in collaborazione con la Fondazione Franco Albini. “Riflesso” è curata da una redazione composta da esperti in specifici ambiti che trattano argomenti inerenti i loro settori di competenza. Il modo di comunicare le loro passioni e i loro interessi si adatta perfettamente a una tipologia di linguaggio facilmente fruibile anche ai non addetti ai lavori. Ciò permette un’elevata attendibilità dei contenuti espressa con un taglio giornalistico, caratterizzato da rigore di sintesi, agilità di lettura e capacità di suscitare interesse. La finalità del progetto editoriale è quella di far conoscere, con cura di dettaglio, le bellezze e le eccellenze di cui i territori oggetto della ricerca possono forgiarsi.

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Marie-Antoine Carême – Era Chef francese ma introdusse il “servizio alla russa”

 

Servizio alla russa

 

Antonin Carême non solo sapeva cucinare, ma anche scrivere. Anzi, amava più scrivere che cucinare e spiegava perché: «Niente è più effimero di un pranzo. Lo spazio di una, due ore, e tutto diventa scarto, carcassa, rifiuto. Un libro rimane. E cammina. Perché le buone idee hanno le gambe e fanno il giro del mondo». Le sue buone idee le riportò su L’Art de la Cuisine Française, ben 5 volumi, usciti in due anni: 1833–34. Fu al servizio personale di Charles Maurice de Talleyrand, di Napoleone Bonaparte, dello Zar Alessandro I, di Giorgio IV d’Inghilterra e James de Rotschild. Sin dalla nascita, l’8 giugno 1784, il suo nome lo legò ad una regina. Fu infatti chiamato Marie-Antoine in onore di Maria Antonietta. Il figlio del manovale Carême era solo un bambino, quando il 16 ottobre 1793 la regina di Francia perse la testa sulla ghigliottina. «Bisognerà cambiargli nome, al ragazzo…» s’interrogarono i genitori. «Ci ha già pensato lui, dice che si farà chiamare Antonin». Così Antonin a quindici anni, fa apprendistato nella pasticceria Bailly, e qui diventa il più bravo “tiratore” di sfoglia per torte dolci e salate. Frequenta nel tempo libero la biblioteca Nazionale di Parigi, legge molto e sbircia soprattutto le stampe dei solenni monumenti greci e romani. Ha idea di realizzarli in marzapane per le “pieces montees”, preparazioni di pasticceria di grandi dimensioni, sistemate in modo da servire da ornamento d’effetto ad imitazione di forme architettoniche, tipo le torte su più piani montate per il taglio nuziale. Careme, prende ad escogitare nuovi usi e costumi, sia in cucina che in tavola. Decora i piatti da portata. Adotta nuove regole igieniche per chi è ai fornelli, come l’utilizzo dei grembiuli bianchi e della “toque blanche”: come esiste il tocco del magistrato, anche i cuochi da allora porteranno il tipico cappello a fungo. Serve ad evitare il sudore della fronte con un’adeguata areazione del capo: simile al tiraggio delle stufe, ma rinfrescante.

Antonin Carême, però, non rivoluzionò soltanto le cucine, ma persino la sala da pranzo allestita per i grandi banchetti di gala. Propose un diverso servizio a tavola, che mutò del tutto la struttura di un pasto, dalla disposizione in tavola dei piatti, alla maniera e all’ordine di servire le portate. Era uso che gli ospiti entrassero in sala soltanto dopo che il tavolo era stato imbandito. Fra il Seicento e il Settecento si impose nelle corti europee il “servizio alla francese”, che consisteva nel mettere in tavola o su opulenti buffet tutti i piatti freddi (del cosiddetto servizio di credenza), mentre i piatti caldi (del cosiddetto servizio di cucina) erano mantenuti a temperatura in appositi scaldavivande. I commensali si servivano scegliendo secondo il proprio gusto personale senza un ordine preciso. «Tutto cambia nel 1810», spiega Giancarlo Gonizzi,direttore dell’Accademia Barilla, nell’articolo che segue, «quando il principe Alexandre Kourakin, ambasciatore dello zar a Parigi, organizza un pranzo nella sua casa di Clichy. Gli ospiti entrano nella sala da pranzo e rimangono sbalorditi: i piatti ci sono, ma in tavola non c’è altro, all’apparenza non c’è nulla da mangiare». L’idea di Carême fu di predisporre solo i coperti e pochi piatti freddi come antipasti. Tutto il resto giunse a mano a mano direttamente dalle cucine. I piatti erano poggiati sui gueridon di servizio da dove lo chef de rang si occupava della mise en place, preparava eventuali piatti flambè, eseguiva il trancio direttamente in sala. I commis de rang servivano i piatti al tavolo, mentre i sommelier versavano acqua e vino. Era nato il “servizio alla russa”.

Come tutte le innovazioni occorsero anni perché fosse accettato, non solo dai commensali, ma persino dai cuochi. Vincenzo Agnoletti, chef di Maria Luigia d’Austria, commentava negativamente: «Il servire le tavole alla russa, con un piatto di cucina alla volta, trinciandolo fuori di tavola, è una cosa molto inconveniente, poco decorosa, ed il cuoco non figura nulla con il suo lavoro; onde io non solo non l’approvo, ma in Francia e Germania ancora non è sistema che piace, onde è inutile a parlarne». I vantaggi, per la verità erano e sono ancora oggi evidenti: gli ospiti non devono affannarsi intorno ai vassoi del buffet, i piatti non si raffreddano poiché giungono caldi appena cucinati, non c’è spreco di vivande e il servizio è ordinato. Un difetto, però, fu subito lampante: cosa sarebbe giunto in tavola? Come proporzionare quanto mangiare, così da gustare una portata dopo l’altra, dai piatti d’ingresso alla frutta? Carême risolse da par suo la nascente esigenza, introducendo l’uso del menù, con il quale gustare il pranzo prima leggendolo e poi assaporandolo. Si apriva però ancora un quesito: con quale ordine servire le portate? Ogni nazione scelse il proprio ordine.

ASCOLTA ANCHE L’INTERVISTA  A EDGARDA FERRI, autrice del libro “Il cuoco e i suoi re” (Skira)

 

MARIE ANTOINE CARÊME ARFÄNĚ (Parigi, 8 giugno 1784 – Parigi, 12 gennaio 1833) è stato un cuoco e scrittore francese. A Carême si deve una grande attività di semplificazione e codifica dello stile di cucina noto come haute cuisine, la componente più elaborata della cucina internazionale. Nacque a Parigi nel 1784, poco prima quindi della Rivoluzione francese, fu abbandonato in tenera età dai suoi indigenti genitori, da giovanissimo iniziò a lavorare come garzone di cucina in una griglieria parigina in cambio di vitto e alloggio. Nel 1798 divenne apprendista di Sylvain Bailly, un celebre pâtissier il cui negozio era nei pressi del Palais-Royal. Bailly ne riconobbe il talento e l’ambizione. Carême divenne famoso per i suoi croquembouche e altre pièce montée, elaborate preparazioni di pasticceria, spesso alte oltre un metro, utilizzate come centrotavola e fatte interamente di zucchero, marzapane e prodotti di pasticceria che Bailly esponeva nella vetrina del negozio. Tra di esse vi furono ricostruzioni di templi, piramidi, antiche rovine e altre strutture architettoniche per le quali Carême traeva ispirazione consultando i testi di storia dell’architettura nella vicina Bibliothéque Nationale. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL GIORNALE

Il cibo che fa la storia

«Ho visto a tavola i re, tutti a mangiare con delizia la minestra»

 

Oggi proponiamo l’intervista a cura di Dante Cerati rilasciata a Radio Laghi inBlu di Mantova da parte di Edgarda Ferri, autrice del libro “Il cuoco e i suoi re (Skira)”. È la biografia del famoso chef Antonin Carême (1784-1833), nato in piena rivoluzione francese da famiglia numerosa e poverissima, abbandonato dal padre sulla strada, Carême impara a tagliare le carni e a leggere e scrivere. Dopo aver osservato le vetrine delle pasticcerie di Parigi ricopia dalle antiche stampe i più celebri monumenti del mondo che ricrea con pasta frolla, cioccolata e glassa. Scoperto da Talleyrand, ne diventa lo chef e viene “prestato” a Napoleone per i banchetti ufficiali. Alla caduta dell’imperatore si trasferisce a Londra, dove lavora per il Reggente (futuro Giorgio IV). Da Londra si sposta a San Pietroburgo alla corte dello Zar. Tornato in patria diventa lo chef preferito dei Rothschild e dell’alta società parigina. Imposta un nuovo modo di fare cucina, di imbandire la tavola, organizzare le portate, decorare i piatti e stare ai fornelli (igiene, grembiuli bianchi, il berretto da cuoco a forma di fungo). Scrive le sue memorie con una monumentale raccolta di ricette.

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Antoni Gaudí – Il giorno che finì sotto un tram e nessuno lo riconobbe

 

 

Ogni giorno è accaduto qualcosa e non c’è nulla da meravigliarsi; ma ci sono avvenimenti che rimangono sui libri di storia ed altri che si perdono nel nulla. Il 7 giugno 1926 l’architetto Antoni Gaudì, tra i massimi esponenti del Modernismo catalano, fu investito da un tram e tre giorni dopo morì. Chiunque abbia avuto modo di visitare Barcellona ha potuto vedere capolavori come Parc Güell, Casa Batllò, Casa Milà, inseriti nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. Chiunque, senza neppure avere visitato Barcellona, conosce però le torri svettanti della Sagrada Familia, la cattedrale che Gaudì iniziò nel 1882, con richiami stilistici neogotici. Di quelle torri ne sono state erette, fino ad oggi, solo 8 delle 18 torri progettate: dodici dedicate agli apostoli, quattro agli evangelisti, una a Maria e la più alta a suo figlio Gesù. Il pomeriggio del 7 giugno nessuno avrebbe mai immaginato che il progetto sarebbe rimasto incompiuto. Solo una città riconoscente per la fama che quell’architetto visionario le avrebbe dato si è imposta il dovere (ambizioso) di portare a compimento i disegni e i modelli che restavano in studio, poi dispersi durante la Guerra Civile del 1936-39. Di questo parla Jordi Faulí direttore della fabbriceria della Sagrada Familia. Noi di FLIP vorremmo solo ricordare l’evento di quel triste giorno.

A conclusione della giornata di lavoro, Gaudí si era incamminato a piedi lungo la Gran Via de les Corts Catalanes verso la chiesa di San Filippo Neri, per ritirarsi in raccoglimento. Mentre attraversava distrattamente la strada, fu travolto dal tram n. 30, che lo lasciò svenuto sul selciato. Fu prontamente soccorso dal tranviere e da alcuni passanti; ma nessuno lo riconobbe. Nonostante la sua celebrità pochissimi conoscevano il suo aspetto fisico. Celibe, conduceva una vita solitaria e riservata, chiuso nel suo studio di architettura come un asceta, dal quale usciva per recarsi preferibilmente in chiesa. Professava l’umiltà dei costumi, in ottemperanza della sua devozione. Pertanto, non curava l’abbigliamento, che poteva apparire malandato. Quando lo estrassero da sotto il tram e gli frugarono nelle tasche bucate della giacca troppo grande, nei pantaloni logori, alla ricerca dei documenti, trovarono soltanto delle noci e dell’uva. Un uomo magro e pallido di 74 anni, il viso imbiancato dalla barba, le gambe strette da bende per contrastare il freddo. Chi era costui: un vagabondo? un ubriaco? Sprovvisto di documenti, fu impossibile identificarlo. Un medico, che da una finestra aveva avuto sentore della disgrazia, prestò i primi soccorsi e consigliò di portare d’urgenza quel poveruomo all’ospedale. Un tassista si rifiutò di condurlo con la propria vettura, perché nessuno gli avrebbe pagato la corsa. In un modo o nell’altro, fu accompagnato all’ospedale di Santa Creu (Santa Croce) il ricovero degli indigenti. Trascorse un giorno prima che fosse riconosciuto. Il cappellano della Sagrada Familia, in visita all’ospedale, dichiarò incredulo che quel relitto d’uomo, in coma, era il grande Antoni Gaudí, «il più catalano dei catalani». Era troppo tardi: si spense il 10 giugno, dopo tre giorni di agonia. Gli innumerevoli articoli che annunciavano la notizia in tutta Europa e riportavano i tragici fatti concludevano immancabilmente: «L’architetto Gaudì è morto in un letto dell’ospedale di Canta Cruz, nella casa santa, come la nominava sempre, vittima di un incidente di tramway. La gravità del suo stato non ha permesso più di trasportarlo in altro luogo. Era uno degli uomini più dotati fra i suoi contemporanei».

 

ANTONI GAUDÍ I CORNET (Reus, 25 giugno 1852 – Barcellona, 10 giugno 1926) è stato un architetto spagnolo. Fu il massimo esponente del modernismo catalano, pur essendo la personalità meno organica a tale movimento artistico di cui comunque condivideva i presupposti ideologici e tematici, completandoli però con una ispirazione personale basata principalmente su forme naturali, che giunse a degli esiti anticipatori dell’espressionismo e di altre avanguardie, compreso il surrealismo. Definito da Le Corbusier come il «plasmatore della pietra, del laterizio e del ferro», Gaudí è stato un architetto estremamente fecondo: sette delle sue opere, situate a Barcellona, sono state inserite nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO nel 1984. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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AVVENIRE

Il direttore della fabbriceria.
«Sagrada Familia, ecco il cantiere di Gaudí»

L’attività di progetto di Ernesto e Giovan Battista Filippo Basile

 

Il catalogo si riferisce alla Mostra documentaria degli archivi delle Collezioni Basile e Ducrot, a cura Eliana Mauro e Ettore Sessa. Come scrive il prof. Sessa nell’introduzione al testo, la Dotazione Basile-Ducrot (denominazione oggi mutata in Collezioni Basile e Ducrot) è costituita dal Fondo Basile, formato da materiali dell’Archivio e della Biblioteca degli architetti Giovan Battista Filippo Basile (Palermo 1825 – 1891) ed Ernesto Basile (Palermo 1857 – 1932), padre e figlio, e dal Fondo Ducrot, formato da materiali dell’Archivio e della Biblioteca dell’industria palermitana di mobili Ducrot. La Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Palermo negli anni Cinquanta del XX secolo (nella prima sede di via Caltanissetta) ha ricevuto il materiale documentario degli architetti Basile direttamente dalla famiglia (per volontà di Roberto Basile, figlio di Ernesto). Al Fondo Basile successivamente sono stati aggregati altri due fondi: nel 1971 quello dei materiali documentari provenienti dall’Archivio e dalla Biblioteca della ditta Ducrot (acquistati in seguito all’Asta Fallimentare bandita dal Tribunale di Palermo nel 1970) consistenti prevalentemente nella documentazione (fotografica e grafica) dell’attività produttiva e degli stabilimenti del celebre mobilificio palermitano, oltre che dei cataloghi di vendita e dei fascicoli di periodici conservati nella relativa biblioteca aziendale; nel 1992 il Fondo delle Tavole Didattiche realizzate negli anni Ottanta del XIX secolo, sotto la direzione di G.B.F. Basile (e in parte su suoi studi e schizzi), da Michelangelo Giarrizzo su supporti di tela di juta (trattata con gesso dolce, colla di coniglio e bianco di titanio) di m. 2,37 x 1,92 e collocate, originariamente, nell’Aula Magna della ex Regia Scuola per Ingegneri e Architetti di Palermo, sita in via Maqueda nel complesso detto del Convento della Martorana. In questo plesso i fondi della Dotazione Basile-Ducrot sono stati conservati fino al 2011 e quindi trasferiti nella sede definitiva dell’Edificio n. 14 (nuova sede della Facoltà di Architettura) della Città Universitaria in Viale delle Scienze (via Ernesto Basile, Palermo).

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Walter Chrysler – Nel lavoro manuale aveva la gioia creativa di un poeta

 

Giorno 6 giugno 1925: è fondata la Chrysler Corporation. Ottantaquattro anni dopo, cioè nel 2009, Chrysler Group entra a far parte di Fiat Group e nel 2014 la partecipazione azionaria è conferita alla nuova società FCA (Fiat Chrysler Automobiles). Ecco perché qualche giorno fa il Sole 24 ore poteva titolare a proposito della presentazione del piano FCA: «Il giorno più lungo di Marchionne, senza Fiat e senza Chrysler». Cosa significa? Alla presentazione del nuovo piano industriale di Fca i nomi ufficiali che hanno contraddistinto le due aziende storiche come Fiat e Chrysler non compaiono. Spiega il quotidiano di Confindustria: «La Fiat non compare perché di fatto è scomparsa l’Italia del Novecento. È scomparsa l’Italia delle auto di massa e, oggi, l’Italia vale per un decimo sugli equilibri finanziari e industriali di Fca… La Chrysler non compare perché il mondo dell’auto è ormai, nel Nord America e anche nei mercati emergenti, segnato dai Suv e perché Fca ha come unico marchio veramente globale Jeep». I tempi si evolvono, cambiano gli acquisti. Oggi il famoso detto di Henry Ford riportato nella sua biografia “My Life and Work“ (1922) non ha più senso e se l’imprenditore statunitense vi prestasse fede farebbe un bel buco nell’acqua: «Ogni cliente può ottenere una Ford T colorata di qualunque colore desideri, purché sia nero». Oggi non mutano soltanto le scelte cromatiche delle auto in ragione dei nuovi modelli legati a cultura, moda e trend dei mercati mondiali, sono del tutto abbandonati modelli storici ed interi segmenti come le auto compatte ad esempio. Ma non basta ancora, perché sono sottoposti a trasformazione gli stessi brand. La Chrysler è nata nel 1925 dalla volontà di Walter Percy Chrysler, genio dell’ingegneria e dell’imprenditoria. Era solito dire, riferendosi agli inizi della sua impresa: «Nel lavoro manuale c’è una gioia creativa che solo i poeti credono di provare. Un giorno mi piacerebbe mostrare a un poeta come ci si sente a progettare e costruire una locomotiva». Oggi il brand, dopo una grave crisi commerciale, è divento parte di una nuova filosofia di vendita. Grazie a Fiat, il brand “yankee” ristrutturato è pronto al suo nuovo ruolo. Per meglio comprendere l’evoluzione della sua storia, abbiamo selezionato un sintetico e puntuale articolo di Panorama Auto. Buona lettura.

LEGGI SU PANORAMA-AUTO.IT: Chrysler, la storia della Casa statunitense

 

CHRYSLER è una casa automobilistica statunitense fondata nel 1925, parte di Fiat Chrysler Automobiles tramite FCA US. La Chrysler fu fondata il 6 giugno 1925 da Walter Chrysler. Già nel 1924 l’imprenditore aveva lanciato sul mercato una prima auto col proprio nome, la Chrysler B-70. Uno dei principali meriti della Chrysler fu quello di aver introdotto per la prima volta all’interno del processo di progettazione delle vetture la prima galleria del vento, per ottimizzare le linee della vettura in funzione della penetrazione aerodinamica. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL SOLE 24 ORE

Sergio Marchionne 14 anni dopo: le sfide vinte e quelle che lascia in eredità

Riso, sorriso e malinconia nel Novecento letterario italiano

 

La prosa di alcuni autori studiati in questo libro – di Pirandello, Palazzeschi, Sbarbaro, Vittorini, oltre che degli stessi De Roberto e Ungaretti – disvela una figura che attraversa emblematicamente il nostro Novecento letterario: dell’«uomo solo» che, partecipe tenacemente della vita e a un tempo distante da essa, incontra le emozioni del mondo ora con un volto a ciglio asciutto, ora con un volto gaio.

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