Fino alla metà del XIX secolo, per la pasta si prosegue con una cottura in acqua e una stufatura. Cambiando, però, gli stili, si ottengono più pareri. I francesi iniziano a criticare la cottura all’italiana, ritenuta insufficiente, mentre in Francia la pasta continua ad essere stracotta. Dall’altro lato vi è la cottura alla napoletana, più “vierd”, cioè non eccessiva. A Napoli, infatti, prevale il gusto dei “maccaronari”, cioè di quei popolani che vendevano per le strade pasta calda e fumante, per poche lire. A qualsiasi ora del giorno poteva essere chiesto un piatto di pasta. In ore particolari, affollate di molta gente, per servire tutti, la cottura doveva essere la più veloce possibile. Il maccaronaro tendeva, quindi, ad abbreviare i tempi di cottura e di servizio. Ne usciva una pasta in tutta la sua freschezza, soda e con nerbo.
Il gusto di questi maccheronari viene assunto dalle classi borghesi. A fare la differenza è la qualità del prodotto, preparato con semola di grano duro e ben lavorato ed essiccato.
Le classi nobili erano abituate alla consumazione di pasta fresca, dal gusto morbido e raffinato, fatto di minestre, creme e salse speciali. Il popolo, invece, guardava alla sostanza. La società napoletana mutuò l’uso delle cotture brevi. Difatti, se da una parte Latini non approfondisce la problematica della cottura, più tardi, al contrario nel 1839 Ippolito Cavalcanti sul suo testo de Cucina teorico-pratica, consiglierà una cottura veloce della pasta. All’unificazione italiana, la maniera napoletana si diffuse in tutto il paese, finché, in una pubblicazione divenuta la Bibbia della gastronomia, Artusi editerà il suo famoso libro di cucina, dove confermerà la maniera di cuocere la pasta in tempi brevi, lasciandola “crudetta”.