Storie plurali di un territorio… per un Mediterraneo regione, non frontiera – 1/5

di Giuseppe Campione

Dai processi di interpretazione culturale, sottesi alle incidenze e alle eccedenze territoriali, con ambiguità, distanziamenti, racconti dello sviluppo storico nella crisi non risolta dei discorsi occidentali, delle antropologie, che pur egemoni per via di declamata, non sufficientemente contrastata, portata planetaria, alla globalizzazione vista dalla parte delle vittime.

Quali sono gli elementi essenziali di una cultura, i suoi confini? Come si scontrano ed entrano in rapporto l’io e l’altro? E adesso quali le possibili relazioni (e le opposizioni locali), con le attese, le compromissioni, i mutamenti, le sopravvivenze culturali, con percorsi tutto sommato autonomi, anche se su linee ancora non compiutamente definite, nel crocevia europeo-mediterraneo che si imbozzola nelle narrazioni da mattino del mondo?

Le nostre non possono che essere rappresentazioni degli effetti che si manifestano talvolta in esotismi di maniera, quando addirittura non cercano di abbellire la mattanza “poetica”, anche tragica, del viaggio a perdere, la piccola morte solo estetizzante: teorie, come borse degli attrezzi, con improbabili strumenti posti a decifrare il reale passo dopo passo, senza cadere nella presunzione delle narrazioni esclusive e dei saperi unifunzionali. Per testualizzazioni che, dice Ricoeur, è come se postulassero relazioni, appunto, tra “il testo e il mondo”. La testualizzazione genera senso, prima isolando un fatto o un evento e poi lo contestualizza nella realtà che lo ingloba. In ogni caso la capacità di produrre senso dipenderà dalla coerenza creativa e dalle ri-percorrenze consentite alla ri-creazione del lettore: l’immagine che è dopo l’oggetto.

Una proiezione mentale che trasfigura, ri-crea in quella comunicazione iconica, nella grammatica delle immagini. La geografia allora sarà scrittura, ma anche critica sovversiva: un viaggio, un modo di capire e di muoversi in un mondo eterogeneo, solo cartograficamente unificato: lo Stretto, frontiera o regione? Ma cos’è regione se non insieme di flussi e di relazioni che connotano spazi aperti ma con funzioni che si risolvono in struttura d’insieme? Nuove pratiche spaziali: tenendo conto che è sempre più difficile ignorare che le vecchie topografie sono esplose. Dice Clifford: Non è più possibile lasciare il proprio tetto fiduciosi di trovare qualcosa di radicalmente nuovo, un tempo e uno spazio altri. La differenza la si incontra nella più contigua prossimità, il familiare affiora agli estremi della terra. È il nuovo dis-orientamento, con nuove strutture interpretative, paesaggi, linguaggi. La casa del territorio, lo spazio armonicamente urbano di L.B. Alberti, e la città, come principio ideale delle storie dell’uomo, come dal Cattaneo. Come unica patria che “il vulgo”, riconosce…anche oggi, quando la geografia dei flussi del Castells, sembra decretare “la fine dei territori” (B. Badie). Cultura e identità non si radicano in terre ancestrali; vivono per impollinazione (Césaire).

Forse tradizioni lingue cosmologie valori sono più deboli: ma non passivi. Ordini di diversità che non possono diventare monocultura, ma creazione, traduzione di altro. E allora basta oscillare tra metanarrazioni tra omologazione ed emergenza, tra perdita ed invenzione: rappresentazioni ibride e sovversive che prefigurano un futuro inventivo. Morin parla di secoli di barbarie europea; conquiste, asservimento, colonizzazione, certo con alcuni effetti di civiltà, con scambi, incroci, contatti creativi, in logiche ambivalenti. E la barbarie non finisce, anche se quella europea è in regressione, in regressione relativamente ad altre, politiche, prassi che sviluppano una dialogica tra mondializzazione economica e mondializzazione umanistica. Reinventare l’“umanesimo”, allora? si domanda Morin. Pensare la barbarie è contribuire a rigenerare l’umanesimo. Dice Bauman che la finzione della “natività della nascita, la sua virtù performativa” ha sempre svolto il ruolo di protagonista tra le formule messe in campo dallo stato moderno: uno stato come compimento del destino di una nazione (con l’inevitabile ‘cuius regio-eius natio’).
Ma la velocità del mondo non ci consente più affidamento a vecchi riferimenti. E allora: le identità sono vestiti da indossare e mostrare, non da tenere chiuse in armadi. E quando persino il ‘monumento’ Renda sottolinea che la storia di Sicilia dell’otto-novecento, è la storia dei racconti: da Verga, dei Malavoglia certo, ma di mastro don Gesualdo soprattutto, di De Roberto, con la sua “maniera”, di Pirandello, con i dolorosi interrogativi dei vecchi e i giovani, di Lampedusa, compiaciuto tra mitopoiesi, malinconia e impotenza, dicevo, quando il diligente Renda scrive così la storia, perché non dobbiamo ammettere in tutta consapevolezza che sapere è soprattutto narrare?

La virtù della percezione poetica, dell’intuizione lirica, dà più spazio al bisogno di ontologia che scavalca la ripetitività dello storicismo che ci ha formati, de-formati, e che ci dà chiavi di lettura di spazi e vissuto? Anche Bacon dice che la trasformazione-violazione immaginaria dell’oggetto ricrea tutto un mondo di significati e di percezioni possibili.

Certo una lettura-proposta da approfondire. Quella di una geografia sdoganata dall’accademia, che si ri-proietta nello spazio del nostro vissuto e lo squaderna, utilizzando tutti i percorsi di un sapere importante, quello letterario ad esempio. Sarebbe follia pensare ad una geografia che voglia riappropriarsi di ambiti di conoscenza spaziale in termini esclusivi, ma pensare ad una funzione utile per intrecciare, far dialogare soggetti della rete, forse dovrebbe essere in qualche modo possibile. Era questo che dicevo anni fa, quando, vivendo ancora Gambi, parlavamo di qualcosa che avremmo potuto fare, e che poteva sembrare ad esempio “la geografia e il paese”. E allora penso potremmo, in questa linea, ri-inquadrare la geografia in un diverso rapporto con le letterature comparate, per un più significativo scandagliare su luoghi, percezione, racconto: una geografia dei luoghi letterari?

Le letture partiranno da Asor Rosa, con l’attenzione da lui prestata a ‘geografia e letteratura’ nella storia della letteratura di Einaudi, al “Romanzo e ai luoghi” dei volumi sul Romanzo, sempre di Einaudi. Anche con Dionisotti, senza perdere di vista letture da Barthes alla filosofia di Wunenburger, ai vecchi lavori di Bachtin. Poi ritrovare tanto Gambi, a parte lo Stretto, quello delle isole Eolie, della Calabria della Romagna etc. e il Farinelli, di 30 anni fa, il testo sul Paesaggio per Casabella, che poi è andato su “i segni del tempo” e soprattutto della “Geografia” di Einaudi.
Ma atterriamo da tanto volare: I Meridiani, dopo i giornalisti, ritrovano i viaggiatori siciliani del Grand Tour, per l’intreccio dei “discorsi” su cos’è l’Italia. Avranno pure un senso queste e altre operazioni editoriali? C’è bisogno di Narrazioni in questo nostro complicarsi del mondo, di nuova zona di costruzione dei personaggi e dei luoghi, nell’associarsi di nuovi possibili legami semantici?

C’é una riflessione quasi all’incipit, ed era questo poi che ti costringeva ad andare avanti della Fenomenologia, di Hegel, che parla del bocciolo che si dischiude nel fiore e si dilegua, come se il fiore confutasse il bocciolo…poi, la comparsa del frutto che mette in chiaro che il fiore “è un falso modo di esistere della pianta”: è il frutto, invece, la verità della pianta. Ma la fluidità dei questi momenti non li rende, incompatibili, fluidità “che si rimuovono”, ma momenti di un’unità organica, “in cui non soltanto non sono in contrasto”, ma ”l’una non è meno indispensabile all’altra”, è “solamente questa pari necessità a costituire la vita del tutto”.

Un altro vivere la geografia, un raccordare utilmente saperi, nel crocevia di un’Italia lunga e breve : come possedere una storia e allo stesso tempo avvertire insufficienza di ricognizioni sui suoi perché. Ed è forse in questo ossimoro che tutto si tiene. Ma torniamo al senso complessivo della riflessione, nella doverosa necessità di interrogarci sulle geografie. Olsson, un geografo svedese ha scritto: “con l’importanza tradizionalmente attribuita allo spazio, alla misurabilità e al paesaggio visivo, la geografia si è consegnata ai lineamenti superficiali dell’esterno. Dato che l’esterno è nelle cose e non nei rapporti, abbiamo prodotto studi sulla reificazione in cui un uomo, donna, bambino vengono inevitabilmente trattati come cose e non come quegli esseri umani sensibili, in continua evoluzione, che siamo… Ecco perché si sente tanto dolorosamente il bisogno di una prospettiva più umanistica, non solo nella geografia ma nelle scienze sociali in genere”. Geografie del vissuto, allora: anche del dolore degli uomini. Se le lacrime di un bambino rimettono in discussione l’onnipotenza di dio, se dopo Auschwitz addirittura si può decretare la fine di questa onnipotenza, com’è possibile pensare che questo dolore non cambi la terra…e noi raccontiamo la terra, abitiamo le distanze. Non una terra senza uomini: come nella Dissipatio H.G. di Morselli? È possibile andare avanti solo con magnifiche procedure definitorie o con elaborate descrizioni di descrizioni? L’etica del sapere geografico è l’etica della vita, della libertà, della pace. E soprattutto dei perché e degli effetti. Delle tragedie diverse e sempre uguali, con pulizie etniche, genocidi, fame, malattie, mutilazioni, morte, disumanizzazione: una paura che mangia l’anima. Da un lato il male assoluto, metafisico e noi occidente, storicamente, ontologicamente, il bene? Senza accorgersi della persistente asimmetria delle sofferenze? Certo, l’occidente vincerà la guerra, una guerra quasi un videogioco, ma la rabbia accecante dei quasi cinque miliardi di uomini dell’accumularsi dei processi di disumanizzazione, continuerà ad urlare più forte delle sirene. Più forte degli uomini della guerra che parlano con la bocca piena di sole e di sassi. Non è sufficiente perciò esercitarsi solo a profetizzare lo scenario peggiore: la libertà o sarà di tutti o non sarà duratura. Una geografia dell’utopia, allora? Dematteis dice che l’utopia non è sempre il nessun luogo, ma, anche rappresentazione di un mondo possibile: non geo-grafia dell’inesistente, ma anti-geografia dell’esistente.

1. “Abitare le distanze” diventa l’ossimoro che meglio descrive la non resistibile contraddizione “tra il rinnovato bisogno di radicamento nello spazio e la crescente appartenenza al fuori, tra localismo e deterritorializzazione, tra l’esperienza dello stare e quella del transitare, materialmente ed immaterialmente”. Così andremo avanti, a fatica, senza immaginare però di poter imbozzolare, iconografare lo spazio-movimento e senza soprattutto pensare di dover ridurre la complessità. Forse sarebbe possibile un percorso: quello di suggerire i significati, i valori, gli ordini latenti e/o inespressi, con forme di comunicazione persuasiva e scoprire significati nascosti in significanti noti.

E, anche se sembrano superate la mitologia dell’antiurbanesimo e la visione apocalittica del destino della città, non bisogna cedere alla tentazione intellettuale di allargare i problemi. Il fatto è che “la città non ci garantisce più quello che ci ha promesso”: dalla libertà alla cittadinanza, all’attenuazione della diseguale distribuzione della ricchezza, al pluralismo culturale, alla promozione di stili di vita più aperti etc. Ma vivere la città come un incubo non ci porterebbe lontano. Ma allora cos’è la città? Anche se delle città e della loro storia sappiamo molto, dobbiamo rispondere “che nessuna disciplina è riuscita a fornirci una teoria esaustiva in merito.
Le geo-grafie, quelle del senso comune, comunque si sono aperte sempre di più all’ascolto dei luoghi e alla ricerca di significanti non banali, (all’ascolto del grano che cresce, come avrebbe potuto dire Lévi Strauss). Proprio perché la complessità dell’urbano si è rivelata irriducibile, né più né meno della complessità della società.

Di periferie, del loro modo di produzione, della paura che nasce dall’abbandono, di una insicurezza in un certo senso voluta (un nodo scorsoio, come dura replica alle storie del modo di produzione urbano), dobbiamo parlare molto, per esorcizzare la disgregazione sociale e ristabilire i canoni della cittadinanza. Solo lo squadernarsi della città recupererà marginalità e insufficiente qualità di vita: soprattutto può attenuare l’insorgere, su porzioni di territorio a perdere, dei pericolosi effetti di una sorta di cittadinanza parallela, alternativa, generatrice di disvalori che aggregano e danno senso, senso comunque, anche welfare parallelo. È come riandare all’istituzione alternativa e/o parallela di Santi Romano o al sovrapporsi di storie (le storie plurali?) come in Zagrebelsky (La virtù del dubbio, Laterza 2007).

Per periferia si intende in prima istanza l’orlo, il bordo, il limite ultimo di uno spazio, da cui, per estensione, si arriva al concetto di periferia come la porzione più estrema e marginale di uno spazio fisico, in contrapposizione alla sua parte centrale. Parlare di periferia, infatti, non ha senso se non in relazione al concetto complementare di centro. La contrapposizione tra centro e periferia, che vede quest’ultima in una relazione di subordinazione, può condurre tuttavia a una modalità di rappresentazione delle periferie (non a caso usiamo qui il plurale) inadeguata e fuorviante. Si suole contrapporre infatti le periferie, intese come spazi anonimi e privi di identità, ai centri delle città quali luoghi privilegiati dell’espressione della cultura e della storia di una data società. Da un lato si avrebbero, quindi, tanti centri storici con una identità precisa e distinta, e dall’altro altrettante periferie indifferenziate tra loro. La prerogativa della periferia sarebbe così quella di rappresentare le zone di margine di una città che urta continuamente contro i propri confini fisici e normativi e si definirebbe per l’assenza di stratificazioni storiche e funzionali che, invece, individuano e caratterizzano il centro storico. Peraltro la periferia urbana ha assunto col tempo una connotazione sempre più negativa, diventando sinonimo di squallore, degrado, uno spazio di alienazione che segna la fine della città.
Renè Clozier definisce “proteiforme” la periferia, per la possibilità che essa assuma caratteristiche molto diverse tra loro. Lungi dall’esserne una negazione, inoltre, la periferia appartiene a pieno titolo alla città, costituendone un elemento di raccordo e dialogo con le diverse realtà circostanti. Oggi la semplice localizzazione geografica non spiega più tutti i significati attribuiti alla parola periferia ma, a partire dalla sua originale ed anacronistica definizione, “la parte esterna più lontana dal centro della città”, è possibile cogliere tutte le fasi di crescita della città determinate dalla sua dispersione sul territorio. Le considerazioni sulla localizzazione geografica della periferia devono tenere conto di tutte quelle trasformazioni del territorio che sono alla base della nuova condizione urbana. In particolare, il problema della dispersione nel territorio ci spinge a inquadrare il tema della periferia in una dimensione più ampia, nella quale risulta veramente arduo distinguere tra i diversi tessuti insediativi che si sovrappongono, si intersecano, si sommano e si giustappongono indipendentemente da qualsiasi volontà progettuale, e immaginare un dispiegarsi di nuova centralità.

Per parlare di periferia si dovrebbe del resto poter rintracciare un margine, un orlo ultimo che delimita la città compatta da una porzione di territorio abitato privo di qualsiasi forma di urbanizzazione, ipotesi assai lontana dalla realtà. Ogni nuova definizione di confini viene messa in crisi, però, non solo da un movimento centrale di propagazione ma anche, se non soprattutto, da una serie di onde che si diffondono da tanti piccoli fulcri disseminati sul territorio senza alcuna apparente relazione con il nucleo centrale. Per una città compiuta.

E allora, il narrare, che è sempre stato il luogo della trasmissione dei costumi, dei codici e delle leggi, le prime narrazioni epiche non devono essere considerate soltanto opere poetiche ma vere e proprie enciclopedie che contengono ciò che è opportuno mantenere in memoria per affrontare i casi della vita, per consolidare il fare in tutti i suoi elementi necessari a produrre un’azione esperta, per mantenere ordine in una società attraverso il ricordo dei valori e delle regole che è giusto e necessario rispettare, il narrare risponde al doppio registro delle storie plurali: la via attraverso cui si producono nuovi discorsi e la modalità per reiterare e istituzionalizzare un esistente, facendolo diventare costume e regola sociale.
La narrazione è stata lo strumento principe della costruzione e della trasmissione del sapere. La condizione postmoderna parla della preminenza del pensiero e della forma narrativa nella costruzione del sapere, nelle civiltà più evolute, rispetto al sapere scientifico, assegnandole quindi la funzione di trasmissione e di elaborazione delle conoscenze. Avremmo potuto fare i medesimi esempi ascoltando le storie ed i frammenti di storie che vengono narrate e prodotte all’interno di un bar: la narrazione infatti fa parte, in modo integrale ed estremamente interessante ed attivo, della nostra vita quotidiana. Non diversamente, seppure possa essere profondamente diverso il registro, quelle narrazioni quotidiane collaborano alla costruzione di significato, veicolano concezioni del mondo, cooperano all’attribuzione di senso, rispetto ad eventi, accadimenti, situazioni.

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Parte seconda
Parte terza
Parte quarta
Parte quinta

Trieste, Civico Museo Revoltella e Civico Museo Teatrale: Metlicovitz – L’arte del desiderio

Metlicovitz – L’arte del desiderio. Manifesti di un pioniere della pubblicità
Trieste, Civico Museo Revoltella e Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”
16 Dicembre 2018 – 17 Marzo 2019

150 anni fa nasceva a Trieste Leopoldo Metlicovitz, uno dei maestri assoluti del cartellonismo italiano. È lui l’autore di decine di manifesti memorabili, dedicati a prodotti commerciali e industriali, ma anche a grandi eventi come l’Esposizione internazionale di Milano del 1906, a famose opere liriche (Madama Butterfly, Manon Lescaut, Turandot) e a film dell’epoca del muto (primo fra tutti Cabiria, storico precursore del kolossal).
Assieme ad artisti quali Hohenstein, Laskoff, Terzi e al più giovane concittadino Marcello Dudovich, Metlicovitz (che di quest’ultimo fu il “maestro”) operò per decenni alle Officine Grafiche Ricordi di Milano, dopo un avvio come pittore paesaggista nella città natale e un apprendistato come litografo (professione ereditata dal padre) in uno stabilimento grafico di Udine.

Fu proprio grazie all’intuito di Giulio Ricordi, che Metlicovitz poté esplicare, dagli ultimi anni dell’Ottocento, tutte le proprie potenzialità espressive, non solo come grande esperto dell’arte cromolitografica, ma pure come disegnatore e inventore di quegli “avvisi figurati” (così chiamati allora) che, affissi a muri e palizzate, mutarono il volto delle città con il loro vivace cromatismo, segnando anche in Italia la nascita di quell’arte della pubblicità sintonizzata su quanto il “modernismo” internazionale andava proponendo nelle arti applicate sotto i vari nomi di Jugendstil, Modern Style, Art Nouveau, Liberty.

A lui la città di Trieste dedica, nel 150° anniversario della nascita, la prima grande retrospettiva monografica. Con il titolo “Metlicovitz. L’arte del desiderio. Manifesti di un pioniere della pubblicità”, resterà allestita al Civico Museo Revoltella e al Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” dal I6 dicembre 2018 al I7 marzo 2019, per poi passare al Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso dal 6 aprile al 18 agosto 2019.
La mostra è promossa e realizzata dal Comune di Trieste – Assessorato alla Cultura, Sport e Giovani – Area Scuola, Educazione, Cultura e Sport – Servizio Musei e Biblioteche in collaborazione con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali – Polo Museale del Veneto – Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso e con il contributo della Regione Friuli Venezia Giulia.

La rassegna è curata dallo storico dell’arte e scrittore Roberto Curci e diretta da Laura Carlini Fanfogna, direttrice del Servizio Musei e Biblioteche, e da Marta Mazza, direttrice del Museo Nazionale Collezione Salce. Nella grande monografica rivive l’intero arco della produzione dell’artista. Le opere esposte, 73 manifesti (alcuni di dimensioni “giganti”), tre dipinti e una ricca selezione di “grafica minore” (cartoline, copertine di riviste, spartiti musicali ecc.), saranno organizzate in otto sezioni espositive, sette delle quali ospitate presso il Civico Museo Revoltella e una – la sezione dedicata ai manifesti teatrali per opere e operette – nella Sala Attilio Selva al pianterreno di Palazzo Gopcevich, sede del Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”. Le opere provengono per la gran parte dal Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso (68 manifesti), oltre che dalle collezioni civiche (Civico Museo Revoltella e Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”) e da raccolte private.

“La produzione cartellonistica di Metlicovitz, così come quella dell’amico Dudovich, fu – sottolinea Roberto Curci – particolarmente intensa negli anni precedenti la Grande Guerra, con la creazione di autentici capolavori rimasti a lungo nella memoria visiva degli italiani e a tutt’oggi largamente citati e riprodotti in ogni studio sull’evoluzione del messaggio pubblicitario del Novecento. A questo eccellente artista, caratterialmente schivo ed estraneo ad ogni mondanità, alle prove – affascinanti per verve ed eleganza stilistica – da lui devolute sia a realtà commerciali come i popolari Grandi Magazzini napoletani dei Fratelli Mele sia all’universo musicale e teatrale, spiritualmente a lui congeniale (conoscente di Verdi, fu amico soprattutto di Puccini), è dedicata questa mostra che si propone di rappresentare il “tutto Metlicovitz”, straordinario cartellonista, certo, ma anche eccellente pittore ed efficace grafico e illustratore”.

La mostra è corredata da un raffinato catalogo, a cura di Roberto Curci e Marta Mazza (Lineadacqua Edizioni).