Storie plurali di un territorio… per un Mediterraneo regione, non frontiera – 3/5

di Giuseppe Campione

3. Ed è come se scoprissimo di avere il mondo intero come orizzonte, ma che abbiamo molti, proficui e ignorati vicini, assai interessanti per la costruzione di territori retti ancora dal principio della distanza, quei territori della produzione materiale, del consumo, del trasporto, “tappeto” sottostante alla rete e ad essa necessario.

A partire dall’integrazione culturale, un massiccio lavoro di costruzione della comunicabilità da attuare accanto alla telematica delle reti ed all’alfabetizzazione tecnologica. L’integrazione mediterranea ad esempio può portare alla realizzazione di uno spazio nel quale – oltre al “muro” tra Nord e Sud del mondo – cade l’altro confine reso illusorio dalla globalizzazione: quello tra terra e mare, nel senso che il mare cessa di essere uno spazio esterno e la trama dei luoghi si snoda in uno stile che è la sintesi stessa della civiltà mediterranea.

Se il nostro fosse stato paese non solo a democrazia imbozzolata nelle pratiche opache dell’intendenza non avremmo avuto lo sfacelo del territorio, soprattutto nel mezzogiorno. Qui le elargizioni dell’intervento straordinario funzionali al ritorno prepotente di poteri motivati da antiche subculture, e allo snodo di finanze capaci di riammagliare mafie e politica, con gli ausilii di cospicue intellettualità organiche, hanno determinato regressi e desertificazioni territoriali. Il deficit di condizione civile appartiene come approdo alla rinuncia ad operazioni di nuova intelligenza degli avvenimenti.

Ora ripensare all’utopia di città per vivere (sì, a città), con le aperture urbanistiche che dovrebbero superare antiche logomachie sulle priorità degli assunti, significa non navigare verso un’isola che non c’è, ma immaginare un’antigeografia dell’esistente. Tornare cioè alla città come principio ideale e come motore di una nuova armonica, certo in quanto possibile, regionalità. Regione come spazio costruito da una storia ripensata che si è inconsapevole sedimentata in antropologie e logiche territoriali che ne hanno disatteso le grammatiche. La sensazione d’insicurezza, il difficile convivere in una società divenuta meno omogenea e prevedibile, la risposta fattuale che si vuol dare alla paura, sembrano dilagare e sono percepiti alla stregua di dati incontrovertibili.

Così, ad esempio ed in sintonia con la tragedia di un territorio, lo scoppio delle periferie, di una ribellione con supporti ideologici, soprattutto quelli indotti dalla rabbia dell’esclusione, denotano comunque un dato certo: il fallimento di un modello socio-territoriale che diventa sempre più esclusivo per pochi ed esclude sempre di più i tanti. Fa parte appunto di quel processo disgregante che ha colpito anche i paesi più ricchi del mondo e spazialmente esprime il consolidarsi delle teorie e pratiche di esclusione della storia che attraversiamo. È la punta dell’iceberg di quelle nuove povertà che sono venute ad affacciarsi con l’aumento del precariato nel lavoro, con l’avvento della delocalizzazione, l’invasione dei prodotti della competizione globale, i percorsi incontenibili delle ondate migratorie, confinate al rango di generatrici di paura e non di consapevole doverosa accettazione in una logica di multietnicità.

Parte prima
Parte seconda
Parte terza
Parte quarta
Parte quinta

Palazzo Pitti: Fragili tesori dei principi – Le vie della porcellana tra Vienna e Firenze

Fragili tesori dei principi – Le vie della porcellana tra Vienna e Firenze
Tesoro dei granduchi di Palazzo Pitti
dal 13 novembre al 10 marzo

Quando il Conte Carlo Ginori nel 1737 chiamò al suo servizio Carlo Wendelin Anreiter de Ziernfeld, pittore austriaco specializzato in porcellana,non badò certo a spese. Nei documenti è scritto che “… si obbliga questo a condurlo con la sua Moglie, e Creature a sue spese in Toscana ed ivi pagargli fiorini seicento all’anno, con più dargli con la sua famiglia quartiere, e solo ad esso Ziernfeld la tavola con vino, e di così continuare a tenerlo con tale assegnamento anni sei”.

Insomma, quello stipendio favoloso, cui si aggiungevano vitto (con vino) e alloggio per lui, la moglie e i 10 figli, più gli altri 3 che nacquero durante la sua permanenza in Italia, servivano ad assicurarsi il più valente artista del genere sulla piazza europea: è evidente la volontà di Carlo Ginori di puntare senza indugio, per la manifattura di Sesto Fiorentino, a una qualità altissima, garantendosi inoltre relazioni strettissime con l’opificio viennese fondato nel 1718 da Claudius Innocentius Du Paquier. L’effetto fu che entrambe le produzioni ebbero un ruolo decisivo nella trasmissione di motivi decorativi, forme e tecniche artistiche che di fatto influirono nella definizione del gusto dell’epoca.

Di tutto questo, e di molto altro racconta la mostra Fragili tesori dei Principi. Le vie della porcellana tra Vienna e Firenze, curata da Rita Balleri, Andreina d’Agliano, Claudia Lehner-Jobst e realizzata in collaborazione con la collezione del Principe di Liechtenstein (Vaduz–Vienna).

Le opere esposte – porcellane, ma anche dipinti, sculture, commessi in pietra dura, cere, avori, cristalli, arazzi, arredi e incisioni – offrono un fertile dialogo tra le arti, per celebrare la magnificenza della porcellana durante il Granducato di Toscana sotto la dinastia lorenese. Ai prestiti hanno contribuito istituzioni nazionali e internazionali e i più importanti musei europei e statunitensi, oltre a diverse collezioni private.

L’energia imprenditoriale del Marchese Ginori, senatore fiorentino, spaziava su ampi orizzonti, e le porcellane prodotte riflettevano un gusto internazionale, che poteva sì tener conto della tradizione fiorentina, ma anche degli influssi del lontano Oriente e in particolare cinesi, e che cercava di soddisfare committenti esigenti in Italia e all’estero. Per prosperare, la manifattura doveva aprirsi anche alle novità provenienti da fuori, e l’atmosfera e la produzione artistica – a Doccia, ma in generale nella Firenze dei Lorena erano dunque improntate a un criterio di eccellenza cosmopolita. La porcellana non fa eccezione, e diventa non solo lo specchio di quanto veniva sperimentato nelle altre forme d’arte, ma riflette altresì tutta una serie di abitudini e mode sociali, in un’epoca di grandi cambiamenti, anche alimentari. Nel 1663 i Medici si procacciarono per primi, importandola dalla Spagna, la cioccolata, e fu subito amore. Come sottolinea in catalogo il Direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt,  la cioccolata e il caffè “resero necessaria la creazione di nuovi oggetti e di vasellame, che possiamo immaginarci tintinnare e splendere nel Kaffeehaus fatto erigere apposta a Boboli su progetto di Zanobi del Rosso, terminato nel 1785 circa (e che riaprirà a breve, dopo una campagna di restauri). Un altro gioiello architettonico voluto da Pietro Leopoldo, rotondo e bombato, ispirato al barocchetto viennese: è una costruzione di mattoni e calce, ma da lontano sembra una fantasia in porcellana di Doccia, quasi una chicchera gigante, con una cupoletta per coperchio”.

“La collaborazione europea e un pensiero che travalica i confini nazionali – dichiara Johann Kräftner, direttore del LIECHTENSTEIN. The Princely Collections, Vaduz–Vienna – si manifestano nelle vicende delle due Manifatture, appartenenti a una storia comune di governo e collezionismo confluite in questa stessa rassegna espositiva che si deve all’attuale cooperazione tra le due istituzioni e i loro collaboratori e collaboratrici. Una mostra che ripercorre questa lunga storia non a Vienna, dove venne già esaminata nella esposizione Barocker Luxus Porzellan del 2005, bensì a Firenze, dove le idee hanno trovato un comune terreno fertile”.