Napoli è nata sull’acqua ferrata di Megaris, il primo insediamento

di Paolo Pantani (Presidente emerito di ABC Acli Beni Culturali)

Quasi tutte le città, sono nate a ridosso di fiumi, risorse strategiche per ogni insediamento umano, Londinium (Londra) sul Tamigi, Lutetia Parisiorum (Parigi) sulla Senna, Burdigala (Bordeaux) sulla Garonna, Italica (Siviglia) sul Guadalquivir, Roma su Tiber, eccetera. Napoli invece a differenza di queste, è nata sull’acqua ferrata. Il primo insediamento risale al Settimo Secolo avanti Cristo fu fatto dai Rodhesi su un’isola, che chiamarono Megaris, (“grande isola” in Greco), questa in realtà era solo un piccolo isolotto, l’attuale Borgo Marinari, ma aveva due cose, fondamentali e strategiche: un approdo naturale e difendibile, risorse idriche, autonome. Tali risorse erano caratterizzate dalle acque minerali ferrate, le acque del Clanio e del Sebeto erano lontane dall’insediamento. Esse sono la fonte battesimale di una città. Anche il villaggio di Parthenope, di epoca successiva, sorgeva in prossimità di tali fonti. L’acqua è il bene comune primario, non si sopravvive senza. Pertanto è sacra, fonte di vita, in tutte le religioni, anche per i laici è bene assoluto, primario, strategico. Fino al 1973 tutti i Napoletani hanno bevuto l’acqua ferrata abitualmente che veniva raccolta in orci di creta, le cosiddette “mummare”, presso le varie mescite pubbliche; l’acqua”suffregna” era considerata digestiva e curativa. Dopo l’epidemia di colera erroneamente ne fu vietato l’uso, ma non era essa la causa; si era bevuta per migliaia di anni in precedenza, senza alcun danno alla popolazione che ne usufruiva.
Adesso si ripropone con forza e necessità il tema dell’ acqua, bene comune. Tutte le istituzioni napoletane devono e vogliono sottolineare la necessità di un recupero di tale bene primario. E’ necessario portare un contributo al riarmo della Pubblica Amministrazione per la tutela e la salvaguardia dei Beni Comuni.
Esistono analisi chimico-fisiche e batteriologiche che attestano che questa è pura, potabile e dalle proprietà organolettiche molto positive, soprattutto per le patologie gastro-intestinali, epatiche e per l’anemia Mediterranea, essendo ricche di ferro. Pertanto occorre verificare scientificamente la portata al fine di un recupero totale di questa preziosa risorsa idrica dimenticata da tempo per incuria e soprattutto per “malagestio”, nonché per la assenza di governo del territorio da parte delle Istituzioni Pubbliche. Le ABC, Acli Beni Culturali, promuovono con le Istituzioni, quali il Comune di Napoli, la città Metropolitana, la Regione Campania, il tema della sacralità dell’acqua e del suo recupero socio-economico, anche nelle forme e nei modi della micro-economia sussidiaria.

IMMAGINE DI APERTURA – Acqua di Nadine Doerlé

Aceto Balsamico di Modena: cultura e storia di una città

A Modena sono sempre esistiti diversi tipi di aceto ottenuti col mosto di uva, in relazione allo sviluppo nella storia di diverse ricette, di diversi metodi di preparazione e di invecchiamento. L’origine di questi prodotti risale alla tradizione degli antichi Romani.
Il termine balsamico invece è relativamente giovane, usato per la prima volta nei registri degli inventari ducali della Reggia Estense di Modena nel 1747 e probabilmente il nome stesso nasceva dall’uso terapeutico che allora se ne faceva.
Con la nascita dello Stato Italiano, i mercati destarono sempre più interesse riguardo al balsamico, sviluppando anche notevoli ricerche storiche e bibliografiche attorno a questo prodotto che, uscendo timidamente dalla segretezza e dalla ritualità delle acetaie, riscuoteva tanto successo.
Nel 1839 il conte Giorgio Gallesio fermatosi in visita presso la residenza dell’amico Conte Salimbeni di Nonantola per studiare le varietà delle uve e dei vini nel modenese, rimase così colpito e incuriosito dall’acetaia famigliare dell’amico, che dedicò vari giorni allo studio delle tecniche di produzione.

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ACETO BALSAMICO DI MODENA