WhatsApp? Facebook? Credetemi: è come incontrarsi nei vecchi bistrot di provincia

di Sergio Bertolami

Quando rifletto su quel che resta del giorno, mi sovviene il mio amico Camillo Marino che a Pier Paolo Pasolini confessava la «febbre che ti assale quando ti accorgi che la provincia rischia di strozzarti, di uccidere le tue migliori speranze». So cosa i due hanno fatto insieme (alla faccia dei piagnoni di provincia), ma ormai da tempo non posso più chiedere a Camillo cosa rispose Pasolini alla sua esternazione. Forse quello che rispose a Manlio Cancogni: «Quando un treno va a cento all’ora, tutti quelli che ci sono sopra vanno alla stessa velocità, anche se sono degli zoppi; se il treno come in Italia va a trenta, i passeggeri, per quanto facciano, non possono correre di più». A pensarci bene si potrebbe sempre cambiare treno, però. Si potrebbe raggiungere una stazione in cui passano le Freccerosse o le Freccebianche e provare a respirare aria nuova. Si potrebbe persino andare a vivere vicino a un aeroporto, anziché a una stazione, per stare con un piede a Parigi e con un altro a New York.

La realtà è però un’altra: molti lasciano la provincia, conservando il sogno di tornarci e finire qui il resto della vita. Quest’aria piccolo borghese della provincia, chiusa, condizionante sotto mille aspetti, che ti dà modo di lamentarti senza fare nient’altro di utile, pare calzare a pennello quando all’imbrunire vengono meno le inquietudini della gioventù e sembra appagante pure l’ambiente riparato di una stanza. È una fluttuazione tra claustrofobia e claustrofilia, tra l’oppressione dei luoghi angusti e il desiderio di stare appartati. Per alcuni, l’unica soluzione è isolarsi, come per Ireneo Funes in Borges, che può contare solo su di una prodigiosa memoria da quando la paralisi lo tiene chiuso nella sua camera. Oppure come Antoine Roquentin in Sartre, che perde goccia a goccia il suo passato di viaggiatore e rintanato in provincia continua a cenare al Ritrovo dei Ferrovieri e ad ascoltare sempre lo stesso disco: Some of These Days.

Accade così anche per molti personaggi nei romans-romans di George Simenon, quando descrive la sonnacchiosa provincia francese. Si ritrovano nei bistrot. Per la maggior parte quel rito segna la fine della giornata. Verso le cinque del pomeriggio il piccolo sarto Kachoudas va a bere uno o due bicchieri di bianco. Ci vanno anche il cappellaio Labbé e tanti altri. «La sala era gremita, c’era addirittura gente in piedi. I contadini più modesti si riunivano nei piccoli caffè attorno al mercato; lì invece venivano i più ricchi, o i più intraprendenti… Vicino alla Grosse Horloge, c’erano due caffè, dello stesso tipo del Café des Colonnes, con i soliti clienti che si facevano vedere a ore fisse e giocavano a carte, a tric trac o agli scacchi. Solo che non erano gli stessi gruppi: o si apparteneva all’uno o all’altro, e lui faceva parte di quello del Café des Colonnes».

A me, questi bistrot, ricordano molto i Social Network. I gruppi WhatsApp di oggi, con quel parlottio confuso e petulante. C’è uno che mi dà appuntamento su Instagram dove ogni sera terrà una diretta alle 23,30. Mi ricordano i gruppi che hanno scoperto i meeting con Skype, Zoom, Cisco. Quanti gruppi frequentate alla sera, smettendo col lavoro? Lo chiedo perché almeno, una volta, il signor Labbé s’infilava il pesante cappotto nero e uscendo ripeteva al commesso: «Chiuderà lei il negozio. Buonasera, Valentin». Ora, senza neppure muoversi dalla scrivania c’è chi colloquia in video con Massimo Cacciari. Come si fa a sottrarsi a tutto questo, mostrandosi sempre cortesi? Ho scritto a una amica, su Facebook (dove sennò?): «Cara Pina, grazie per la tua considerazione. Il fatto è che il mio impegno culturale non è più rivolto a Messina, se non marginalmente. È una città che non reagisce e mi piange il cuore, perché meriterebbe davvero quanto le persone dicono di amarla. Studio e scrivo in continuazione. Conto di pubblicare, ma molto rimarrà nel cassetto, perché mi pare che ben pochi siano affascinati da ciò che interessa me. Cosa? Leggere le fonti, spacchettarle, analizzarle. Sto diventando come Jean Floressas Des Esseintes, il protagonista di À rebours, il romanzo di Joris-Karl Huysmans. Io tuttavia non mi ritiro dalla società come fa Des Esseintes. Al contrario, vi partecipo col sorriso sulle labbra: annuisco alle buone intenzioni, incito a tradurle in realtà, ma oramai non credo che tutto ciò possa realizzarsi. Almeno in tempi brevi».

Questo vorrei rispondere a tutti. A tutti! A ben guardare la data, l’ho postato prima della pandemia ed ora lo confermo. A proposito di À rebours, Huysmans pensava di scrivere un libro ermetico che avrebbe stimolato solo una decina di persone, ma al contrario scoppiò come una granata. Non interessò affatto ad alcuni dei suoi illustri amici. Huysmans perse Zolà, ma conquistò Mallarmé e Valéry. Morto un papa se ne fa un altro.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Annalise Batista da Pixabay 

Roma: Campo de’ Fiori

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Campo de’ Fiori è una piazza di Roma, tra via dei Giubbonari e piazza della Cancelleria, ai confini dei rioni Parione e Regola. Fino al Quattrocento la piazza non esisteva in quanto tale, e al suo posto vi era un prato fiorito con alcuni orti coltivati, da cui il nome. Secondo una tradizione inattendibile, la piazza dovrebbe invece il suo nome a Flora (donna amata da Pompeo, il quale aveva costruito nei pressi il suo teatro). La piazza dette il nome al lungo asse viario noto nel secolo XV come Via Florea che collegava Sant’Angelo in Pescheria con il ponte S. Angelo, passando per le attuali via Portico di Ottavia, via dei Giubbonari (già Via Pelamantelli), Via del Pellegrino e via dei Banchi Vecchi. Lo stesso tragitto da via dei Giubbonari a via del Pellegrino assunse dal secolo XV anche il nome di via Mercatoria.

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IMMAGINE DI APERTURA – La statua di Giordano Bruno fulcro di Campo de’ Fiori (Fonte: Wikipedia)