Edmondo de Amicis a Porta Pia: “Ho visto passare il 40º a passo di carica”

Nel 1870, appena 23enne, Edmondo de Amicis si trovava sul campo di battaglia al seguito del Regio Esercito quale cronista militare. Questo il suo resoconto pubblicato il 21 Settembre.

Roma 20 settembre 1870 – La breccia, qualche decina di metri sulla destra di porta Pia, in una foto di Lodovico Tuminello

di Edmondo de Amicis

Ieri mattina alle quattro fummo svegliati a Monterotondo, io e i miei compagni, dal lontano rimbombo del cannone. Partimmo subito. Appena fummo in vista della città, a cinque o sei miglia, argomentammo dai nuvoli del fumo che le operazioni militari erano state dirette su varii punti. Così era infatti. Il 4º corpo d’esercito operava contro la parte di cinta compresa tra porta San Lorenzo e porta Salara; la divisione Angioletti contro porta San Giovanni; la divisione Bixio contro porta San Pancrazio. Il generale Mazè de la Roche, colla 12ª divisione del 4º corpo, doveva impadronirsi di porta Pia.
A misura che ci avviciniamo (a piedi, s’intende) vediamo tutte le terrazze delle ville piene di gente che guarda. Presso la villa Casalini incontriamo i sei battaglioni bersaglieri della riserva che stanno aspettando l’ordine di avanzarsi contro porta Pia. Nessun corpo di fanteria aveva ancora assalito. L’artiglieria stava ancora bersagliando le porte e le mura per aprire le breccie. Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga breccia era stata aperta vicino a porta Pia, e che i cannoni dei pontificii appostati a quella porta erano stati smontati. Si parlava di qualcuno dei nostri artiglieri ferito. Ne interrogammo parecchi che tornavano dai siti avanzati, e tutti ci dissero che i pontificii davano saggio d’una meravigliosa imperizia nel tiro, che i varchi già erano aperti, che l’assalto della fanteria era imminente. Salimmo sulla terrazza d’una villa e vedemmo distintamente le mura sfracellate e la porta Pia malconcia. Tutti i poderi vicini alle mura brulicavano di soldati. In mezzo agli alberi dei giardini si vedevano lunghe colonne di artiglieria. Ufficiali di stato maggiore e staffette correvano di carriera in tutte le direzioni.
È impossibile ch’io vi dia notizie particolari di quello che fecero le altre divisioni. Vi dirò della divisione Mazè de la Roche, che è quella ch’io seguii.
La strada che conduce a porta Pia è fiancheggiata ai due lati dal muro di cinta dei poderi. Ci avanzammo verso la porta. La strada è dritta e la porta si vedeva benissimo a una grande lontananza; si vedevano i materassi legati al muro dai pontificii, e già per metà arsi dai nostri fuochi; si vedevano le colonne della porta, le statue, i sacchi di terra ammonticchiati sulla barricata costrutta dinanzi; tutto si vedeva distintamente. Il fuoco dei cannoni pontificii, da quella parte, era già cessato, ma i soldati si preparavano a difendersi dai muri. A 300 o 400 metri dalla barricata due grossi pezzi della nostra artiglieria traevano contro la porta e il muro. Il contegno di quegli artiglieri era ammirabile. Non si può dire con che tranquilla disinvoltura facessero le loro manovre, a così breve distanza dal nemico. Gli ufficiali erano tutti presenti. Il generale Mazè, col suo stato maggiore, stava dietro i due cannoni. Ad ogni colpo si vedeva un pezzo del muro della porta staccarsi e rovinare. Alcune granate, lanciate, parve, da un’altra porta, passarono non molto al disopra dello stato maggiore. Gli zuavi tiravano fittissimo dalle mura del Castro Pretorio, e uno dei nostri reggimenti ne pativa qualche danno.
Quando la porta Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all’assalto. Non vi posso dar particolari. Ho visto passare il 40º a passo di carica. L’ho visto, presso alla porta, gettarsi a terra per aspettare il momento opportuno ad entrare. Ho sentito un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido Savoia! poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridava: Sono entrati! — Allora giunsero a passi concitati i sei battaglioni bersaglieri della riserva; giunsero altre batterie di artiglieria; s’avanzarono altri reggimenti; vennero oltre, in mezzo alle colonne, le lettighe pei feriti. Corsi cogli altri verso la porta. I soldati erano tutti accalcati intorno alla barricata; non si sentiva più rumore di colpi; lo colonne a mano a mano entravano. Da una parte della strada si prestavano i primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti; gli altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante il 35º. Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri colle mani fasciate. Sapemmo che il generale Angelino s’era slanciato innanzi dei primi colla sciabola nel pugno come un soldato. Da tutte le parti accorrevano emigrati gridando. Tutti si arrestavano un istante, a guardare il sangue sparso qua e là, per la strada: sospiravano, e via.
La porta Pia era tutta sfracellata, la sola immagine enorme della Madonna che le sorge dietro era rimasta intatta, le statue a destra e a sinistra non avevano più testa, il suolo intorno era sparso di mucchi di terra, di materassi fumanti, di berretti di zuavi, d’armi, di travi, di sassi.
Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti.
In quel momento uscì da porta Pia tutto il corpo diplomatico in grande uniforme, e mosse verso il quartier generale.
Entrammo in città. Le prime strade erano già piene di soldati. È impossibile esprimere la commozione che provammo in quel momento; vedevamo tutto in confuso, come dietro una nebbia. Alcune case arse la mattina fumavano, parecchi zuavi prigionieri passavano in mezzo alle file dei nostri, il popolo romano ci correva incontro. Salutammo, passando, il colonnello dei bersaglieri Pinelli; il popolo gli si serrò intorno gridando. A misura che procediamo nuove carrozze, con entro ministri ed altri personaggi di Stato, sopraggiungono. Il popolo ingrossa. Giungiamo in piazza di Termini; è piena di zuavi e di soldati indigeni che aspettano l’ordine di ritirarsi. Giungiamo in piazza del Quirinale. Arrivano di corsa i nostri reggimenti, i bersaglieri, la cavalleria. Le case si coprono di bandiere. Il popolo si getta fra i soldati gridando e plaudendo. Passano drappelli di cittadini colle armi tolte agli zuavi. Giungono i prigionieri pontificii. I sei battaglioni bersaglieri della riserva, preceduti dalla folla, si dirigono rapidamente, al suono della fanfara, in piazza Colonna. Da tutte le finestre sporgono bandiere, s’agitano fazzoletti banchi, s’odono grida ed applausi. Il popolo accompagna col canto la musica delle fanfare. Sui terrazzini si vedono gli stemmi di Casa Savoia. Si entra in piazza Colonna: un grido di meraviglia s’alza dalle file. La moltitudine si versa nella piazza da tutte le parti, centinaia di bandiere sventolano, l’entusiasmo è al colmo. Non v’è parola umana che valga ad esprimerlo. I soldati sono commossi fino a piangerne. Non vedo altro, non reggo alla piena di tanta gioia, mi spingo fuori della folla, incontro operai, donne del popolo, vecchi, ragazzi: tutti hanno la coccarda tricolore, tutti accorrono gridando: — I nostri soldati! — I nostri fratelli!
È commovente; è l’affetto compresso da tanti anni che prorompe tutto in un punto ora; è il grido della libertà di Roma che si sprigiona da centomila petti; è il primo giorno d’una nuova vita; è sublime.
E altre grida da lontano: — I nostri fratelli!

IMMAGINE DI APERTURA –  “Carica dei Bersaglieri a Porta Pia”, Michele Cammarano, 1871, conservato al Museo di Capodimonte, Napoli. (Fonte: Culturaitalia.it)

Jacques Le Goff – L’ uomo medievale

“L’uomo e gli uomini, gli uomini nella società dell’Occidente cristiano, nelle loro principali funzioni (ossia nei tratti essenziali, ma anche nella concretezza del loro status sociale, del loro mestiere, della loro professione), al tempo di un dittico medievale che nella prima faccia mostra il prodigioso sviluppo della Cristianità fra l’anno Mille e il secolo XIII, mentre la seconda rappresenta quel tempo sconvolto, chiamato Basso Medioevo, dove girano vorticosamente insieme un mondo del passato in crisi e il mondo di un nuovo Medioevo, il Rinascimento; infine degli uomini viventi (nelle loro condizioni di vita, con le loro credenze, le loro pratiche): ecco l’oggetto di questo libro.” Jacques Le Goff

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IMMAGINE DI APERTURA: Disegno di Jo-B da Pixabay 

Lecco: La Scapigliatura. Una generazione contro

LECCO – PALAZZO DELLE PAURE
DAL 19 SETTEMBRE 2020 AL 10 GENNAIO 2021
LA SCAPIGLIATURA Una generazione contro
A cura di Simona Bartolena

La mostra ripercorre la storia e le istanze del movimento scapigliato, sviluppatosi nella seconda metà dell’Ottocento, attraverso 80 opere, tra pitture e sculture provenienti da musei pubblici e collezioni private, dei suoi maggiori esponenti, quali Tranquillo Cremona, Daniele Ranzoni, Giuseppe Grandi.

Daniele Ranzoni La giovinetta inglese, 1886, olio su tela, 50 x 36, 5 cm, coll. Priv

Dal 19 settembre 2020 al 10 gennaio 2021, Palazzo delle Paure a Lecco prosegue la sua indagine sull’arte dell’Ottocento italiano, con una mostra che ripercorre la storia e le istanze della Scapigliatura, movimento culturale nato e sviluppato in Italia nella seconda metà del XIX secolo.

L’esposizione, curata da Simona Bartolena, prodotta e realizzata da ViDi – Visit Different, in collaborazione con il Comune di Lecco e il Sistema Museale Lecchese, presenta 80 opere, tra pitture e sculture provenienti da musei pubblici e collezioni private, dei suoi maggiori esponenti, quali Tranquillo Cremona, Daniele Ranzoni, Giuseppe Grandi e dei loro seguaci, per approfondire i molti aspetti di una nuova tendenza che nasce letteraria per esprimersi anche nelle altre discipline.

Il percorso che si sviluppa all’interno delle sale del palazzo sul lungolago lecchese, suddiviso in sezioni che indagano i diversi momenti e le differenti personalità che hanno caratterizzato la Scapigliatura, offre un momento di riflessione sulle origini del movimento pittorico, con opere di Giovanni Carnovali detto il Piccio, di Federico Faruffini e degli altri “padri” del nuovo stile, e una chiosa dedicata all’importante eredità dell’esperienza scapigliata, che aprì la strada alla ricerca dei futuri divisionisti, come ad esempio Giuseppe Pellizza da Volpedo e Giovanni Segantini.

La rassegna propone un racconto a tutto tondo della Scapigliatura che parte dalle arti visive per approdare alle altre forme espressive, in un complesso e suggestivo gioco di rimandi, in un dialogo serrato, in cui i temi macabri e scuri della letteratura accompagnano, talvolta in sensibile contrasto, i toni lievi e fioriti della pittura e il realismo tematico della scultura, conducendo i visitatori nel clima tormentato e instabile di un movimento, nato e cresciuto tra Milano e Torino ma dalle attitudini internazionali.

La mostra propone dei focus sul ruolo che la Scapigliatura ebbe nello sviluppo culturale del territorio lariano, sia in quello lecchese intorno alle figure di Antonio Ghislanzoni e Amilcare Ponchielli, che in quello comasco dove sorge villa Pisani-Dossi, di proprietà dello scrittore Carlo Dossi (1849-1910), protagonista della Scapigliatura letteraria, e progettata dal pittore, incisore e architetto Luigi Conconi (1852-1917), presente in mostra anche con numerose opere.

La Scapigliatura si è sviluppata tra Lombardia e Piemonte, in un’Italia appena unificata e già in profondo cambiamento, letterati, artisti e musicisti, uniti dalla comune volontà di aprirsi ai modelli europei e di condurre un’esistenza anticonformista, portano la loro battaglia antiborghese e bohémien, venata da forti contraddizioni.

Osservata oggi, la Scapigliatura rivela una straordinaria modernità, assumendo una valenza profondamente attuale: oltre a porsi, negli atteggiamenti sovversivi, come antefatto delle Avanguardie novecentesche, essa anticipa ampiamente le attitudini esistenziali e le scelte espressive dell’età contemporanea.

Catalogo Edizioni La Grafica/Ponte43.

Dal sito www.vidicultural.it è possibile scaricare l’audioguida (costo: €1,00), a cura di Simona Bartolena, propedeutica e di supporto alla visita, con approfondimenti sui vari aspetti che l’esposizione propone, e con tracce audio di brani di romanzi e poesie scapigliate, recitate dall’attore Alessandro Pazzi.

ViDi, in accordo col Comune di Lecco, ha deciso di proporre il biglietto d’ingresso a un prezzo speciale (€8,00 intero; €6,00 ridotto), certa che l’arte possa trasmettere un messaggio di positività dopo il difficile periodo che si è attraversato.

IMMAGINE DI APERTURA – Luigi Conconi, Marina, Sinestesia evocativa del mare, 1886, tempera e acquarello su cartone, 53,5×47 cm, coll. Priv

Paul Cézanne – Le grandi bagnanti

Les grandes baigneuses, 1894-1905 circa, National Gallery, Londra

IL DIPINTO

Le grandi bagnanti (Les grandes baigneuses) un dipinto a olio su tela (127,2×196,1 cm) di Paul Cézanne, databile al 1894-1905 circa e conservato nella National Gallery. Assiduo frequentatore del Louvre, Cézanne aveva avuto modo di familiarizzare col tema classico delle bagnanti, rappresentato da numerosi artisti del passato, come Tiziano e Poussin. Si trattava di un soggetto amato da artisti e mecenati, che esprimeva l’idea di armonia tra uomo e natura nell’idilliaca Arcadia. L’artista, a differenza dei suoi predecessori, tralasciò tutte le componenti letterarie e mitologiche, concentrandosi sulle sole questioni compositive, di colore e di forma. Ne fece diverse composizioni dal 1870 in poi, utilizzando figure maschili e femminili, in gruppi o da sole. In tutta la sua carriera però creò solo tre versioni “grandi” del soggetto: una è quella di Londra, una è alla Barnes Foundation di Merion (Pennsylvania) e una è al Philadelphia Museum of Art. Sembra che prima di morire stesse lavorando a tutte e tre queste opere contemporaneamente.

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Autoritratto, 1883-1887, Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen

L’ARTISTA

Paul Cézanne (Aix-en-Provence, 19 gennaio 1839 – Aix-en-Provence, 22 ottobre 1906) è stato un pittore francese. Paul Cézanne nacque a Aix-en-Provence, cittadina nel meridione della Provenza, in Francia, il 19 gennaio 1839 in seno a una famiglia dalle origini italiane. Secondo una recente scoperta storicamente ben documentata le vere origini del pittore Cézanne sarebbero a Cesena, in Romagna. In un libro di memorie scoperto a Milano nel 1995 dallo studioso Romano Pieri c’è una autocertificazione che recita testualmente: “Il padre di Paul Cézanne era originario di Cesena, in Romagna.” Nell’archivio del museo Cézanne venne trovata una vecchia richiesta del gallerista Vollard che chiedeva precisi dati biografici della famiglia da riportare sul dépliant della grande mostra di Cézanne a Parigi. Da quella scoperta nel Castello Sforzesco di Milano, Romano Pieri iniziò a ricostruire la storia di una famiglia: il padre del pittore si chiamava originariamente Luigi Augusto Cesena (della popolosa comunità ebraica di Cesena) che da giovane forse apprende il mestiere di cappellaio nella città romagnola e si trasferisce in Francia, a Aix en Provence, continuando la sua attività presso un laboratorio che gli offre piena ospitalità di residenza, favorendo anche una relazione amorosa con un’operaia dalla quale nascerà il figlio Paul. Luigi Augusto era così intraprendente da avere poi successo nel gestire una banca locale che gli consente di mantenere il figlio a Parigi, presso l’Accademia delle Belle Arti (notizie ed riportate nel libro “Cézanne Genio cesenate” scritto da Romano Pieri ed edito dalla casa editrice Ponte Vecchio nel 2005).

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Andrea Pane: Diradamento e risanamento delle “vecchie città”

Andrea Pane, Professore associato di Restauro all’Università Federico II di Napoli, dedica questo saggio all’opera di Luigi Piccinato tra continuità e rottura con Gustavo Giovannoni: «La questione della tutela delle “vecchie città” (poi centri storici) costituisceun capitolo fondamentale dell’opera di Piccinato, nel quale non si può non rintracciare un debito nei confronti di Gustavo Giovannoni, uno dei suoi principali maestri alla Scuola di Architettura di Roma. Ciò emerge anche sol-tanto scorrendo i titoli della produzione bibliografica di Piccinato, che mostra come il tema segni, come un filo rosso, quasi tutta la sua attività scientifica e professionale. Si tratta di un percorso che lo conduce verso posizioni progressivamente più conservative, attraverso il quale egli seleziona e sviluppa gli esiti migliori delle teorie dei suoi maestri: Giovannoni, appunto, ma anche Piacentini, con il quale aveva condiviso per alcuni anni le prime esperienze professionali giovanili, formandosi nel suo studio tra il 1924 e il 1927, per poi prenderne progressivamente le distanze».

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IMMAGINE DI APERTURA – Particolare della copertina del libro della collana editoriale “Esempi di Architettura” edito da Aracne.

Visite virtuali: la Cappella Sistina

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La Cappella Sistina (Latino: Sacellum Sixtinum), dedicata a Maria Assunta in Cielo, è la principale cappella del palazzo apostolico, nonché uno dei più famosi tesori culturali e artistici della Città del Vaticano, inserita nel percorso dei Musei Vaticani. Fu costruita tra il 1475 e il 1481 circa, all’epoca di papa Sisto IV della Rovere, da cui prese il nome. È conosciuta in tutto il mondo sia per essere il luogo nel quale si tengono il conclave e altre cerimonie ufficiali del papa (in passato anche alcune incoronazioni papali), sia per essere decorata da opere d’arte tra più le più conosciute e celebrate della civiltà artistica occidentale, tra le quali spiccano i celeberrimi affreschi di Michelangelo, che ricoprono la volta (1508-1512 circa) e la parete di fondo (del Giudizio universale) sopra l’altare (1535-1541 circa). È considerata forse la più completa e importante di quella «teologia visiva, che è stata chiamata Biblia pauperum». Le pareti sono decorate da una serie di affreschi di alcuni dei più grandi artisti italiani della seconda metà del Quattrocento (Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Pinturicchio, Domenico Ghirlandaio, Luca Signorelli, Piero di Cosimo e altri).

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IMMAGINE DI APERTURA – Cappella SistinaL’interno con il Giudizio universale sullo sfondo (Fonte Wikipedia)

Georges Seurat – Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte

Georges Seurat – Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte, 1883-1885, The Art Institute, Chicago

IL DIPINTO

Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte (Un dimanche après-midi à l’Île de la Grande Jatte) è un dipinto del pittore francese Georges Seurat, realizzato nel 1883-85 e conservato all’Art Institute di Chicago (Chicago). Desideroso di dimostrare nella pratica le nuove teorie divisioniste, già nel 1884 Seurat pose mano al progetto di una nuova grande tela, che non si allontana, quanto a metodologia di preparazione e scelta del soggetto, da quella dei Bagnanti ad Asnières. Testimonianza del nuovo progetto è la lettera che spedì sei anni dopo aver concluso l’opera, all’amico critico Fénéon il 20 giugno 1890: «1884, giorno dell’Ascensione: Grande-Jatte, gli studi e il quadro». Sembrerebbe quasi che Seurat abbia voluto prendere a pretesto quella festività religiosa per significare l’inizio della sua «ascensione» artistica. Comunque sia, Seurat scelse l’isolotto della Grande-Jatte, sulla Senna, presso Neuilly sur Seine, come luogo ove ambientare il nuovo dipinto. Secondo quanto scrisse Signac il principio-guida era quello di fissare preventivamente la composizione: «Guidato dalla tradizione e dalla scienza, armonizzerà la composizione alle sue concezioni, cioè adatterà le linee (direzione e angoli), il chiaroscuro (toni), i colori (tinte), all’elemento che vorrà far prevalere». La mattina, con la luce migliore, Seurat si recava alla Grande-Jatte per abbozzare scene dipinte a olio con tecnica impressionista – si contano più di trenta tavolette di studi – mentre il resto della giornata veniva passato nell’atelier, disegnando a matita singoli particolari grazie al sostegno di una scala (la dimensione del dipinto, come quella dei Bagnanti ad Asnières, è infatti di 2 metri per 3), a ritoccare la tela, sulla quale aveva steso uno strato di colore base, con i piccoli punti di diverso colore, secondo il principio della mescolanza ottica.

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Georges Seurat in un ritratto fotografico di Lucie Cousturier (1888)

L’ARTISTA

Georges Seurat (Parigi, 2 dicembre 1859 – Gravelines, 29 marzo 1891) è stato un pittore francese, pioniere del movimento puntinista. Insieme con l’amico Edmond Aman-Jean nel 1878 Seurat si iscrisse all’École des beaux-arts, seguendo i corsi di un allievo di Ingres, il pittore Henri Lehmann che, ammiratore della pittura del Rinascimento italiano, aveva a lungo soggiornato in Italia, in particolare a Firenze. Nella biblioteca della scuola Seurat scovò la Loi du contraste simultané des couleurs [Legge del contrasto simultaneo dei colori], un saggio del chimico Michel Eugène Chevreul pubblicato nel 1839: la legge formulata da Chevreul afferma che «il contrasto simultaneo dei colori racchiude i fenomeni di modificazione che gli oggetti diversamente colorati sembrerebbero subire nella composizione fisica, e la scala dei loro rispettivi colori quando si vedano simultaneamente». Fu un libro che gli aprì un intero orizzonte di studio sulla funzione del colore nella pittura cui dedicherà il resto della vita: Chevreul sosteneva che «mettere il colore sulla tela non significa soltanto colorare con quel colore una determinata parte di tela, ma significa anche colorare con il suo colore complementare la parte circostante».

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Le Passeggiate del Direttore: Le mummie animali e il visir Gemenefherbak

Cosa c’è di meglio di una web serie per tenervi compagnia? A grande richiesta, vi presentiamo LE PASSEGGIATE DEL DIRETTORE, la prima stagione di una serie firmata dal Museo Egizio, un viaggio nella storia suddiviso in brevi episodi. 

Il Museo Egizio di Torino è il più antico museo, a livello mondiale, interamente dedicato alla civiltà nilotica ed è considerato, per valore e quantità dei reperti, il più importante al mondo dopo quello del Cairo. Nel 2004 il ministero dei beni culturali l’ha affidato in gestione alla “Fondazione Museo Egizio di Torino”. Nel 2019 il museo ha fatto registrare 853 320 visitatori, risultando il sesto museo italiano più visitato. Nel 2017 i Premi Travellers’ Choice di TripAdvisor classificano l’Egizio al primo posto tra i musei più apprezzati in Italia, al nono in Europa e al quattordicesimo nel mondo.
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Le Passeggiate del Direttore: Le mummie animali e il visir Gemenefherbak 

IMMAGINE DI APERTURA – Ingresso del museo egizio, Torino (Fonte Wikipedia)

Francesco Botturi, Roberto Zoboli: Attraverso il convivio. Cibo e alimentazione tra bisogni e culture

Il libro raccoglie venti saggi dedicati al cibo e all’alimentazione come ‘convivio’. Il convivio rappresenta una mediazione tra la materialità del cibo e i suoi significati immateriali, tra bisogno fisiologico di alimentarsi e condivisione di comunità, tra scelte individuali e fraternità. È quindi la chiave di lettura che il gruppo di lavoro dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ExpoLAB ha ritenuto più appropriata per offrire un contributo sui temi di Expo 2015, Nutrire il pianeta, energia per la vita. Il libro è organizzato intorno a quattro prospettive sul convivio: la prima è antropologica e storico-culturale e riguarda il senso del convivio; la seconda riguarda la rappresentazione del convivio nell’arte e nella comunicazione; la terza riguarda i valori e i comportamenti, e quindi l’educazione, per un convivio sostenibile in senso principalmente sociale, pedagogico e culturale; la quarta riguarda infine l’accesso al convivio e l’esclusione da esso, e quindi il convivio negato per una parte ancora consistente dell’umanità. I saggi contemplano quindi diverse prospettive disciplinari: quella filosofica, teologica e storico-culturale; quella della comunicazione, della psicologia comportamentale e delle scienze dell’educazione; e infine quella delle scienze sociali ed economiche.

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IMMAGINE DI APERTURA: Pieter Bruegel il Vecchio, Banchetto nuziale, 1568, Kunsthistorisches Museum, Vienna (Fonte Wiukipedia)

Mandanici 2020: Sergio Bertolami – I colori del colera

di Sergio Bertolami

«Ne abbiamo viste di tutti i colori». Quante volte abbiamo utilizzato questa espressione? Anche col covid-19 ne stiamo vedendo di tutti i colori. Ma quali sono i colori di una pandemia? Sono quelli dei mille fatti vissuti direttamente o indirettamente. Quelli descritti dai mezzi d’informazione o dagli instant book, oppure quelli che ritroviamo sui libri di una biblioteca, se concernono la storia. Allora comprendiamo, più che mai, che esiste una continuità tra passato e presente, che non c’è bisogno di inventare ogni giorno l’ombrello, ma semmai di migliorarne l’efficacia. Il “distanziamento sociale”, ad esempio, non è invenzione dei nostri giorni. Agli inizi dell’Ottocento il dibattito sulla natura parassitaria delle malattie epidemiche si sviluppò col sopraggiungere in Europa della prima grande ondata epidemica di colera (1817-1823) dopo la conquista dell’India da parte delle truppe coloniali inglesi. Rispetto all’India, però, il “distanziamento” fra le città europee era minore, così come tra i centri rurali e le rispettive città. Anche la seconda pandemia di colera (1826-1837) ebbe origine ancora una volta in India. A differenza, tuttavia, delle pandemie di peste, febbre gialla o malaria, la propagazione del colera non dipende dai roditori o dagli insetti, ma dagli spostamenti delle popolazioni umane. In tutta Europa il treno a vapore era diventato un simbolo di progresso, un veloce ed efficiente mezzo di trasporto. La ferrovia Napoli-Portici è stata la prima linea ferroviaria italiana, realizzata sotto Ferdinando II delle Due Sicilie. Fu inaugurata il 3 ottobre 1839.

A quelle già citate dobbiamo aggiungere altre tre pandemie prima di arrivare alla fine del secolo. Napoli, su cui vorrei soffermarmi, è passata dalle pesti secentesche ai colera più moderni. Solo da metà Ottocento ha subito il colera del 1855, del 1866, del 1873 e ancora quello del settembre 1884 che con estrema violenza divampò nei quartieri bassi, quelli di Mercato, Vicaria, Pendino e Porto.  Era giunto il momento di risolvere veramente i problemi sociali. La rivoluzione di Pasteur e l’isolamento dell’agente patogeno da parte di Koch (proprio nel 1884) permettevano la giusta diagnosi batteriologica, quindi efficaci controlli sanitari, una altrettanto efficace opera di prevenzione supportata dall’adozione della quarantena. Ma a Napoli non poteva bastare. I quartieri degradati versavano in pessime condizioni igienico-sanitarie. Questa tragedia di risonanza nazionale fu denunciata da Matilde Serao (scrittrice, giornalista, fondatrice e direttrice del quotidiano Il Mattino). Il libro di Matilde Serao si intitola Il ventre di Napoli nel quale descrisse una realtà umana, materiale, spirituale, ormai infetta e insostenibile. Questo l’incipit: «Efficace la frase, Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto».

Continuiamo a leggere: «Il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s’impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere?».

Il problema era che i Governi succedutesi nel tempo avevano trascurato il risanamento urbano particolarmente in quelle città (come Genova, Palermo, Napoli) dove la pressione demografica era più alta e i quartieri si erano trasformati in ghetti malsani. Con l’epidemia del 1884 le province italiane colpite furono 44, ma solo Napoli contò 7994 morti. Ecco dunque che, dopo il clamore suscitato dalle condizioni di vita aberranti, Agostino Depretis, presidente del Consiglio, dichiarò la necessità di “sventrare Napoli”, utilizzando il neologismo “sventramento” ripreso dal libro della Serao.

La terribile epidemia di colera evidenziava l’urgenza di un intervento decisivo sul tessuto urbano. Nell’area dei cosiddetti quartieri bassi gran parte della popolazione napoletana versava in misere condizioni abitative: sporcizia, sovraffollamento, immobili inadatti a ospitare una popolazione di 200.000 abitanti, senza servizi igienici e con sistema fognario inadeguato per la raccolta di acque nere e acque meteoriche. Pasquale Villari, in un Discorso al Senato del 10 gennaio 1885 denunciava che in quei fondaci “non si può entrare per il puzzo delle immondizie ammassate da tempi immemorabili, si vede spesso solamente un mucchio di paglia, destinata a far dormire un’intera famiglia, maschi e femmine tutti insieme. Di cessi non se ne parla, perché a ciò bastano le strade vicine ed i cortili”.

Matilde Serao scriveva: «[Onorevole Depretis…] Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti, l’avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio. Da questa via partono tante altre viottole…».

Luigi Settembrini proponeva di «bonificare i quartieri popolari gradatamente e diradando man mano quelle affollate abitazioni». Proponeva, in altri termini, una azione mirata con sottinteso riferimento ad un preciso modello urbanistico. Tale modello è il grande piano per la modernizzazione di Parigi (1852-1869), realizzato dal barone Haussmann, prefetto del dipartimento della Senna sotto il regno di Napoleone III.

Urgeva dunque un ripensamento totale, non una operazione di maquillage urbano: costruzione di nuove infrastrutture, alloggi popolari, pianificazione di nuovi quartieri d’espansione. La risposta del Governo in materia apparve estremamente sollecita: il 15 gennaio 1885 è emanata la Legge pel risanamento della città di Napoli, nel 1888 è adottato il Codice di igiene e salute pubblica e costituita la Società pel Risanamento di Napoli. Questa legge per Napoli segnò un punto di svolta urbanistico: ne usufruirono oltre una sessantina di comuni in Italia: a Sud come Caltanissetta, Trapani, Catania ma anche a Nord come Genova, La Spezia, Torino, Milano.

Cercherò di sintetizzare ciò che avvenne. A pochi anni dall’unificazione d’Italia, è promulgata la prima Legge urbanistica (25 giugno 1865 n. 2359) che porta il titolo Disciplina sull’espropriazione forzata per pubblica utilità. L’esproprio avveniva a prezzi di mercato per la realizzazione di opere pubbliche (quali strade, ferrovie, canali). Con tale legge si prevedeva, inoltre, che i Comuni con una popolazione riunita di 10.000 abitanti potessero dotarsi di un Piano Regolatore, grazie al quale tracciare precisi allineamenti nella costruzione di nuove abitazioni, con il duplice scopo di rimediare alla “viziosa disposizione degli edifici” e per “provvedere alla salubrità degli abitati”.

Anche con la Legge pel risanamento della città di Napoli (15 gennaio 1885 n. 2892) si prevedeva la possibilità di risanamento dell’abitato. Ma a differenza della legge del 1865 il sistema espropriativo aumentò fortemente i valori di indennizzo, ciò con lo scopo di non penalizzare i proprietari espropriati. Infatti, gli immobili oggetto di esproprio nei quartieri vecchi della città avevano un basso valore venale (a causa del loro degrado), ma erano invece capaci di produrre dei redditi derivanti dai fitti. Motivo per cui il legislatore ritenne di non calcolare l’indennità soltanto sul valore venale dell’immobile, ma facendo una media tra questo e il coacervo dei fitti (cioè la somma). Con tali provvedimenti legislativi furono, però, facilitati gli investimenti finanziari di molte società appaltatrici (banche, imprese immobiliari e di costruzione), in gran parte provenienti dal Nord Italia. Quelle stesse imprese che nel dicembre 1888 avevano istituito il consorzio della Società pel Risanamento di Napoli. Si scatenò di conseguenza una vera e propria speculazione edilizia che portò a edificare, nelle aree del piano di risanamento urbano, come nelle zone libere e di espansione della città.

Corso Umberto I (detto ‘Rettifilo’) in una vista dall’alto della città di Napoli

Cambiò il volto di Napoli, ma a quale prezzo?  Scriveva Matilde Serao: «L’impressione che si aveva, entrando in Napoli, dalla stazione ferroviaria, venti anni or sono, era di giungere in una città angusta, male odorante, sporca, affogata di case di tutte le altezze, di tutti i colori, portanti, tutte, il marchio del decadimento e del sudiciume».

Il principale obiettivo del piano – affidato nell’ottobre 1884 agli ingegneri Gaetano Bruno e Adolfo Giambarba – fu in effetti quello di avviare la bonifica igienico-sanitaria dell’area racchiusa tra il litorale e i quartieri meridionali del centro storico, l’attuazione di un moderno sistema fognario e di una rete idrica potabile, la realizzazione di infrastrutture e servizi collettivi, soprattutto il ridisegno della rete viaria incentrato su di un asse portante soprannominato dai napoletani “Rettifilo” e che noi conosciamo col nome di corso Umberto I. Un vero boulevard hausmanniano.

Ascoltiamo ancora Matilde Serao: «Il Rettifilo ha tagliato in due il ventre di Napoli, attraversando i quattro quartieri popolari e popolosi di Mercato, Vicaria, Pendino e Porto; questo Rettifilo non è stato fatto solo per arrivare più presto e meglio alla stazione ferroviaria; non è stato fatto solo per i grandi industriali che vendono tessuti di lana e di cotone; non è stato fatto solo per avere una larghissima via; ma è stato fatto in nome di un criterio assoluto d’igiene e quindi di civiltà… Il Rettifilo era, doveva essere, dovrebbe essere l’apportatore dell’aria, della salute, della pulizia di migliaia e migliaia di popolani napoletani».

Parigi, a differenza di Napoli, si era rinnovata attraverso un processo di funzionalizzazione e di qualificazione del territorio cittadino, dotandosi di nuovi grandi viali, piazze, spazi collettivi, giardini pubblici, vasti polmoni verdi, luogo di svago. Parigi era diventata un autentico modello di città borghese europea, uniformando l’edilizia privata alle nuove tipologie residenziali disegnate per il ceto medio. A Napoli avvenne il contrario, si verificò l’insuccesso dell’ambizioso programma del “Risanamento”.

«Sapete che è accaduto? – spiegava Matilde Serao – Che il popolo, non potendo abitare il Rettifilo, di cui le pigioni sono molto care, non avendo le traverse a sua disposizione, non avendo delle vere case del popolo, è stato respinto, respinto, dietro il paravento! Così si è accalcato molto più di prima; così il Censimento potrebbe dirvi che tutta la facciata del Rettifilo, è poco abitata, e tutto ciò che è dietro, disgraziatamente, è abitato più di prima; che dove erano otto persone, ora sono dodici; che lo spazio è diminuito e le persone sono cresciute; che il Rettifilo, infine, ha fatto al popolo napoletano più male che bene! In quell’intrico che va da Porto a Mercato, a Vicaria, si aggroviglia una folla spaventosa; non vi sono che poche fontanelle di acqua e le case, che debbono essere demolite (?), ne mancano; non vi sono fognature regolari, non vi sono lampioni, poiché il piano stradale è assolutamente dissestato: tutto ciò che serve alla vita, vi manca. Se una epidemia, lontana sia, dovesse capitarci, impossibile circoscriverla, impossibile dominarla: in quei quartieri farebbe novellamente strage, come venti anni or sono; e i nostri edili nulla ne sanno; e nessuno vuol saperne niente».

Tirando le somme, anziché abbatterli, i focolai di infezione aumentarono. È una tipica storia italiana, fatta di luci e ombre. Le luci, in campo medico, dove attraverso una ricerca continua si è passato dal concetto di “salute” a quello attuale di “sicurezza”. La salute è la resistenza alla malattia, mentre la sicurezza è l’esigenza di non dovere sperimentare la malattia. La luce, in campo urbanistico, è l’introduzione di un nuovo strumento quale il Piano Regolatore. A tutto questo fanno riscontro le ombre. In campo urbanistico l’assalto della speculazione edilizia e l’impossibilità di applicare un «piano di ingrandimento e di livellazione, o di nuovi allineamenti» per le amministrazioni Comunali con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti, che in verità costituiscono l’oggettività del Paese. Occorrerà attendere, perciò, la legge urbanistica del 1942 (n. 1150).

Per tornare a Napoli dobbiamo ricordare che nel 1893 la città fu ancora una volta colpita dal colera, che interessò pochissimo gli altri centri urbani italiani. Volendo, però, concludere questa relazione guardando alle luci, si potrebbe sottolineare che il 3 ottobre 1888 il municipio di Napoli si impegnò a «realizzare case di tipo esclusivamente economico per metri quadri 45.000 di suolo, e tutto ciò nel primo biennio dal 6 giugno 1889 al 6 giugno 1991». Il complesso fu progettato dall’architetto Piero Quaglia (noto già per aver realizzato il palazzo dell’Università) il quale nei tempi stabiliti dette a Napoli uno dei primi esempi di case economiche popolari in condominio.

Come avrete compreso, con responsabilità e competenza, dedizione e senso del dovere, si possono affrontare epidemie e pandemie, ma non solo, si potranno sempre curare anche IL CORPO, LA MENTE E L’ANIMA – delle persone come delle città – giacché (e chiudo citando ancora una volta Matilde Serao): «Tutto sarà trasformato, miracolosamente, fra lo stupore di tutti, solo perché, chi doveva si è scosso dalla mancanza, dalla trascuranza, dall’inerzia, dall’ignavia e ha fatto quel che doveva».

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