Stati Uniti – Qui si può sconfinare nell’utopia, motore nascosto del mondo

di Cosimo Inferrera
Presidente AEM (Associazione Europea del Mediterraneo)

Quando una società è propensa a sognare si dimostra capace di rinnovarsi: gli USA ancora lo sono, questo il segreto dei loro successi, e di altri potenziali … Però con l’ombra del rischio di un nazionalismo esasperato. Biden lo supera con l’esperienza sulla macchina e con l’antidoto forte del bisogno di unire. Unire è la parola chiave, che tiene insieme democrazia e libertà. Forse nel Presidente Biden abbiamo trovato un vecchio saggio, che soffre delle stesse manie … Unire le Regioni profondamente diverse del Mediterraneo in un sistema macroregionale di tipo europeo è il sogno di alcuni veggenti di questa parte del Mediterraneo. Qui si può sconfinare nell’utopia, motore nascosto del mondo ! L’Italia come Stato è il meno propenso alla lungimiranza, e quindi alla giusta dose di spinta utopica… L’Italia è in ingessatura perenne: vive nel mantenimento dello Status quo, non è quindi uno Stato serio. Se lo fosse avrebbe realizzato negli anni scorsi mega porti gateway ad Augusta (questo per niente), a Gioia Tauro (questo per metà), a Taranto (l’unico a buon punto). Questa mancanza di fiuto politico mediterraneo impedisce al nostro Paese di invertire la polarità dei mercati, da Sud verso Nord …Proprio qui sta il nodo del Meridione italiano e quindi dell’intero Paese.

Il quotidiano francese è uno dei giornali più autorevoli che hanno seguito le elezioni statunitensi.
Questa è la bellissima prima pagina di oggi

Odilon Redon – Il carro di Apollo

Il carro di Apollo, 1909, Musée des Beaux-Arts, Bordeaux

IL DIPINTO

Il carro di Apollo (Le char d’Apollon) è il nome di varie opere realizzate dal pittore simbolista francese Odilon Redon tra il 1905 e il 1914 circa. Nel 1878, visitando l’Esposizione universale di Parigi, Redon restò colpito dal Fetonte di Gustave Moreau, un grande acquerello preparatorio per la decorazione di un soffitto, rimanendo sedotto dalla luminosità abbagliante, dalle linee divergenti, dalla forza dei colori. In tarda età, dal 1904 al 1914 circa, Redon si confrontò con il soggetto mitologico del Carro del Sole di Apollo, realizzandone varie versioni, in cui l’eco dell’opera di Moreau si manifesta vivamente.

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Autoritratto, 1867. Museo d’Orsay, Parigi

L’ARTISTA

Bertrand-Jean Redon, meglio conosciuto come Odilon Redon (Bordeaux, 20 aprile 1840 – Parigi, 6 luglio 1916), è stato un pittore e incisore francese. È considerato il maggiore rappresentante del simbolismo in pittura. Bertrand-Jean Redon, chiamato Odilon dal nome della madre, nacque in una famiglia benestante il 20 aprile 1840 a Bordeaux, da Bertrand Redon e Marie-Odile Guérin, secondogenito di cinque figli: Ernest, Odilon, Marie, Leo e Gaston. Ernest di pochi anni più grande, musicista e bambino prodigio che Odilon sentiva suonare dalla culla, Gaston, nato nel 1853, in un primo tempo si dedicò alla pittura, poi diventò architetto del Louvre e delle Tuileries. A causa della sua costituzione gracile Odilon, ad appena due giorni di vita, venne affidato alle cure di una nutrice e del suo zio nella proprietà familiare di Peyrelebade, nella campagna del Médoc, dove trascorse la maggior parte della sua infanzia, lontano dai suoi genitori. Nel 1846, dopo più di un anno di una grave malattia che gli provocava crisi di tipo epilettico, venne portato in pellegrinaggio alla Madonna di Verdelais, dove verrà condotto altre due volte, fino ai dieci anni ed il suo caso rientra tra le 133 guarigioni miracolose avvenute in quel luogo tra il 1819 e il 1883. Questo fatto venne annotato nell’apposito registro della basilica, pertanto possiamo sapere che Odilon aveva “una malattia molto grave che provocava nel cervello del bambino numerose crisi quotidiane di tipo epilettico, che lasciavano momenti di assenza morale” e che nel 1850 fu ancora a Notre Dame di Verderais per ringraziare la Madonna ed attestare la guarigione. Redon dal 1851 iniziò a vivere con la sua famiglia. I medici, a causa della sua fragilità fisica e psicologica, sconsigliarono per Odilon qualsiasi “sforzo cerebrale”; perciò non verrà mandato a scuola ed inizierà gli studi più tardi.

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William Hogarth: Marriage à-la-mode / La toletta della signora

di Sergio Bertolami

In questa scena salta all’occhio la provenienza dei personaggi. Lady Squanderfield, come l’avvocato Silvertongue, fanno parte di una borghesia rampante che tende a scalzare, pur imitandola, una nobiltà che mostra lampanti i segni della decadenza. Mr. Fox Lane e signora si atteggiano ad intenditori del bel canto, ma non si sono ancora scrollati di dosso la loro provenienza paesana. Aleggia nella scena l’aria di un preziosismo francese ormai demodé, perché a Parigi non si pratica più dalla fine del secolo precedente, vale a dire da almeno una cinquantina d’anni. Nondimeno, incontriamo in queste immagini tanti riferimenti francesi. La seconda scena si intitolava Tête à Tête, questa Toilette. È indubbio che Hogarth l’abbia preso in prestito persino il titolo del Ciclo pittorico da Marriage à la Mode, commedia di John Dryden rappresentata per la prima volta a Londra nel 1673. In quest’opera il drammaturgo dà vita al personaggio di una donna pretenziosa di nome Melantha, che intercala nel suo discorso espressioni affettate come “mon cher, voyage, bete, honnête, homme, bien tourné, obligeant, charmant, ravissant”, cioè “mio caro, viaggio, stupido, onesto, uomo, ben tornato, cortese, affascinante, adorabile”. In breve, Melantha preferisce prestiti francesi a parole inglesi assolutamente esistenti. Gli scrittori satirici come Dryden dicevano che queste donne dell’aristocrazia inglese parlavano “à la Mode de Paris“. Al di là di questi prestiti lessicali, Hogarth deride soprattutto l’infatuazione, da parte di una cerchia elegante inglese, per tutto ciò che proviene dal continente. In primo luogo, dalla Francia, come quel dottore ciarlatano che abbiamo incontrato nella scena precedente, ma anche dall’Italia rappresentata da tutta quella profusione di copie dai dipinti rinascimentali o da tutti quei cantanti lirici applauditi nei teatri.

Scena quarta – La toletta della signora

(S.B.) La precedente scena descriveva le conseguenze della vita dissoluta del marito, la quarta scena, che s’intitola The Toilette (il nome appare sulla cornice), riguarda invece la condotta della moglie, attorniata dagli amici fin dal momento del risveglio, la levée, per usare un termine di moda alla francese. Nonostante l’affollamento di estimatori nella stanza, manca la figura del marito, costantemente assente. Solo un particolare lo richiama all’attenzione: il visconte ora ha assunto, finalmente, il titolo nobiliare di conte. Lo possiamo constatare dalla corona comitale che campeggia sulla cornice del baldacchino e sulla specchiera della toletta adorna di un drappo. Questo significa che il conte padre è passato a miglior vita, raggiungendo nell’aldilà i suoi diletti antenati. L’eroina di questa scena è, dunque, la signora che, avendo raggiunto il titolo di contessa, a tutti gli effetti può assaporare il frutto maturo della propria ambizione. La sua stravaganza spensierata fornisce precisa indicazione, da parte di Hogarth, che la rovina si avvicina con rapidità. La contessa è presentata qui subito dopo essersi alzata. Che sia una signora alla moda è percepibile dal suo letto ad alcova, ovvero incassato nel muro, del quale distinguiamo le cortine pendenti dal celino. È una trasformazione che ha apportato alla stanza dopo che il conte è deceduto e lei è divenuta a pieno titolo la padrona del palazzo. Lo testimoniano il grande arco che sormonta il letto, appartenente a un precedente accesso a una camera attigua, e le cornici a stucco delle pareti sulle quali sono stati affissi dei nuovi quadri fuori misura. Ancora una volta vediamo la giovane in deshabillé, mentre un parrucchiere procede a curarne l’acconciatura. Con nonchalance siede con le spalle agli ospiti, del tutto disinteressata a loro, e appoggia un braccio sullo schienale da cui ciondola un corallo da dentizione o un sonaglio per bambini, giacché oltre che contessa è diventata anche madre.

La sua piccola corte è costituita quasi esclusivamente da stranieri, nel mero rispetto della moda del tempo. In primo piano un cantante paffuto, vestito in modo splendido e pomposo, esageratamente ingioiellato. Con apprezzato timbro femminile, esegue qualche romanza nel ruolo di contralto, proprio dei cantanti lirici castrati. È forse Francesco Bernardi, noto col soprannome di Senesino, poiché proveniente da Siena, presente a Londra dal 1735. In alternativa, altri studiosi indicano Giovanni Carestini, in Inghilterra dal 1733. Ambedue, a lungo, hanno interpretato opere del compositore Georg Friedrich Hendel. Accompagna il melodico controtenore il tedesco Weidemann, con il suo flauto traverso. Accanto ai due, nell’atto di sorbire una tazza di cioccolata calda (bevanda anche questa alla moda), con i capelli stranamente arricciati, è il diplomatico prussiano Michel, infatuato della “poesia anacreontica”, genere letterario che caratterizzò il XVIII secolo europeo. Vicino siede un intenditore in estasi: con una faccia sciocca e rapita, tiene una tazza in una mano e nell’altra un ventaglio gli pende dal polso. Alle spalle il panciuto Mr. Fox Lane, vecchio gentiluomo di campagna, amico di famiglia, con aria trasognata (se non addirittura addormentata), agita di tanto in tanto il frustino da caccia che tiene in mano, come farebbe un maestro di musica con la sua bacchetta. Al centro della scena, con un cappello a larghe tese, la moglie di Fox Lane, futura Lady Bingley, sedotta dai gorgheggi del cantante italiano. Invano il domestico nero porge anche a lei una tazza di cioccolata.

La contessa, le cui naturali frivolezze e distrazioni la portano ad interessarsi di ben altro, è invece attratta dall’argomentare del seduttivo avvocato Silvertongue, sdraiato su di un divano. L’avvocato non è certo presente nella stanza da letto della signora appena alzata per ragioni professionali. A riprova (caso mai non l’avessimo ancora capito) spunta sulla poltrona una copia di “Sopha”, racconto licenzioso di Jolyot de Crébillon, pubblicato in inglese nel 1742. Vi sono descritte fantasie e sfrenatezze di una corte indiana, attraverso la quale riconoscere la nobiltà rappresentata da Hogarth. Si svela così l’esistenza di una relazione intima fra i due, intuibile già dalla prima scena. Con fare mellifluo Silvertongue porge alla sua adorata il biglietto d’invito per una festa in costume e indica la mascherata dipinta sul paravento: per l’esattezza, gli abiti burleschi da frate e da monaca dei personaggi. Altri biglietti d’invito a serate danzanti e feste trasgressive sono sparsi per terra, ai piedi degli ospiti. Offrono un’idea del contenuto di queste serate: “Il conte Basset non vuole sapere se Lady Squanderfield abbia dormito la scorsa notte”. “La compagnia di Lord Squanderfield è richiesta da Lady Townly, il prossimo lunedì”. “La compagnia di Lady Squanderfield è desiderata da Miss Hairbrain”. “La compagnia di Lady Squanderfield è ambita di Lady Heathon, domenica prossima”.

Che la “Lingua d’argento” dell’avvocato sia più che apprezzata dalla giovane contessa è evidenziata da un piccolo domestico africano che mostra le corna di un Atteone in porcellana, il mitologico cacciatore trasformato da Diana in cervo, dopo averla sorpresa nuda con le sue ninfe al bagno. Chiaro segno d’infedeltà nei confronti di Lord Squanderfield. Il valletto (dal copricapo orientale) sta osservando una serie di chincaglierie appena acquistate. Fuori della cesta in vimini è, infatti, aperto il “Catalogo dell’intera collezione del defunto Dott. Timothy Babyhouse in vendita all’asta”. Fatto salvo un piatto decorato con “Leda e il cigno” che porta la firma “Julio Romano”, sono tutti oggetti scadenti come vasi, piattini, statuette, del tutto simili a quelli che avevamo osservato sulla mensola del caminetto nel salone della seconda scena. I quadri stessi che ornano le pareti della stanza sono adatti più alla camera da letto di una donna licenziosa che a quella di una dama perbene. Giove, che seduce Io figlia del re di Argo ad imitazione di Correggio. Loth con le sue figlie, che ubriacano il padre in modo da compiere atti incestuosi, copia dell’opera all’epoca attribuita a Caravaggio. Sotto le sembianze di un’aquila osserviamo Zeus che rapisce Ganimede per farne il suo amante, opera che vorrebbe rievocare la pittura di Michelangelo. Al contrario di tutti questi dipinti, quello posto più in alto raffigura un compassato uomo di legge che guarda esterrefatto i decadenti costumi dall’epoca.

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica dell’incisione di William Hogarth dal dipinto conservato alla National Gallery di Londra

Alessandro Defilippi – Per una cipolla di Tropea

Un giallo per scaricare le tensioni

In una giornata di sole splendente, capace di illuminare anche i caruggi più angusti e bui di Genova, un cadavere viene recuperato nelle acque del porto. Sembrerebbe il corpo di un pescatore, ma la pistola e il silenziatore rinvenuti nelle sue tasche aprono scenari non previsti. Il colonnello Enrico Anglesio, chiamato sul posto a occuparsi del caso, viene catturato da un insolito indizio, che si rivelerà il suo asso nella manica: le cipolle di Tropea trovate nella barca del presunto pescatore… Se vi piace “Per una cipolla di Tropea”, in libreria e in ebook è disponibile “Giallo Panettone”, che riunisce, insieme a questo, i racconti di Angela Capobianchi, Alfredo Colitto, Valeria Corciolani, Marcello Fois, Francesco Guccini, Loriano Macchiavelli, Gianfranco Nerozzi, Marcello Simoni e Sandro Toni.

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IMMAGINE DI APERTURA: Foto di Andrea Toxiri da Pixabay

Fernand Khnopff – Le carezze

Fernand Khnopff, Le carezze, 1896, Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique, Bruxelles

IL DIPINTO

Le carezze, anche noto come La sfinge, è un dipinto del pittore belga Fernand Khnopff, realizzato nel 1896 e conservato al Museo reale delle belle arti del Belgio di Bruxelles. Nel repertorio figurativo simbolista un ruolo di primaria importanza viene giocato dalla Sfinge. Il suo volto è femminile, eppure il suo corpo è leonino: così come la fisionomia anche la sua psiche risponde a un’ambiguità di fondo, essendo al tempo stesso ingegnosa ma crudele, mitica ma demoniaca, con una lacerante ambivalenza del tutto analoga a quella che scuote l’inconscio umano.
Questa profonda riflessione filosofica viene venata di dichiarati compiacimenti simbolisti. Dipinto ermetico, irto di ellissi comunicative e di simbolismi di difficile interpretazione, Le carezze propone un’improbabile unione tra un giovinetto dai lineamenti androgini e una creatura dal volto femmineo e dal corpo di ghepardo. Si tratta ovviamente della Sfinge, quella creatura terrificante che secondo la mitologia aveva portato il terrore e la morte a Tebe. Era infatti sua abitudine divorare quanti non sapessero rispondere al suo astuto enigma («Qual è quell’animale che all’aurora cammina con quattro zampe, al pomeriggio con due, la sera con tre?»). L’unico ad aver sciolto l’enigma e ad aver soggiogato la bestia fu l’eroe greco Edipo: la città di Tebe fu così finalmente liberata dalla Sfinge che, per disperazione, si suicidò gettandosi in un baratro. Alla luce di quest’esegesi il giovane uomo ritratto alla sinistra della composizione è certamente Edipo.
L’opera di Khnopff, in effetti, risponde perfettamente al celebre mito greco, e raffigura il momento successivo alla risoluzione dell’enigma da parte di Edipo. Vi è, tuttavia, una leggera discrepanza. La Sfinge, infatti, non si è precipitata nel dirupo, così come narra il mito, bensì decide di sottomettersi all’eroe che l’ha domata e, con fare suadente e insinuante, avvicina il suo volto a quello di Edipo. La sua soddisfazione è palpabile: una delle sue zampe arriva persino a lisciare affettuosamente il ventre indifeso di quella che doveva essere un’altra sua vittima, scampata miracolosamente alla morte. La Sfinge, tuttavia, è ben lungi dal diventare schiava, e la coda all’erta tradisce un’eccitazione animalesca, quasi incontrollabile: anche le sue zampe sono pronte per scattare repentinamente in un balzo e attaccare il suo presunto amante.

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Fotografia di Fernand Khnopff scattata agli scorci dell’Ottocento e comparsa sulla rivista La Belgique d’aujourd’hui

L’ARTISTA

Fernand Edmond Jean Marie Khnopff (Grembergen-lez-Termonde, 12 settembre 1858 – Bruxelles, 12 novembre 1921) è stato un pittore belga, appartenente al movimento del simbolismo. Fernand Khnopff è accreditato tra gli interpreti più sensibili e visionari del Simbolismo europeo. La sua esperienza pittorica, innanzitutto, si configura come un netto rifiuto al Positivismo, indirizzo di pensiero animato da innumerevoli filosofi, letterati e scienziati che, intrigati dagli impetuosi sviluppi della società industriale, nutrivano un’appassionata fiducia nei risultati e nel metodo della scienza sperimentale. Quest’esaltazione della scienza e dei suoi metodi si concretizzava anche in una netta svalutazione della metafisica, dottrina che – facendo appello a cause non rapportabili al metodo scientifico – era secondo il giudizio dei Positivisti astratta, chimerica, e pertanto portatrice di una conoscenza tutt’altro che autentica. «Niente più metafisica!» («Keine Metaphysik mehr!») era il grido che, risentendo di questa grande ripresa positivistica, risuonava nell’Europa di quegli anni.
Khnopff, ripudiando la mentalità positivista, si fa invece cantore di una nuova sensibilità, non più oppressa da una cieca e ingenua fede nella scienza: il filo conduttore dell’estetismo di Khnopff, infatti, si basa sull’esaltazione delle componenti soggettive dell’animo umano e della realtà, per niente priva di proiezioni spirituali o metafisiche (come invece sostenevano i Positivisti). Khnopff oltrepassa infatti le schematizzazioni positiviste e rivendica quelle dimensioni che sfuggivano all’indagine delle scienze sperimentali: mondi sovrannaturali, arcani, che si celano dietro la trapunta arabescata delle apparenze e che sono penetrabili solo dall’artista, il quale grazie a intuizioni misteriose e folgoranti riesce a cogliere le corrispondenze sotterranee tra i vari fenomeni sensibili, non percepibili attraverso quella razionalità tanto celebrata dai Positivisti. Fernand Khnopff, infatti, è uno dei cantori più riusciti del Simbolismo: «né religiosa, né cristiana, né mitologica, la pittura di Khnopff è piuttosto simbolica» disse in tal senso Edmond-Louis De Taeye nel 1898.

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Alessandro Barbero: Peste ed epidemie nella Storia

Una completa ricostruzione storica della peste travalica la semplice storia della medicina. Ancora oggi parole come malattia, contagio e morte spaventano, nonostante nei paesi industrializzati sia stata debellata la maggior parte delle epidemie che in passato hanno colpito l’umanità. La paura e la sofferenza di intere popolazioni annientate da pandemie sono testimoniate fin dai più antichi scritti: se ne trova traccia nei testi geroglifici egiziani e in quelli cuneiformi della Mesopotamia. Violente epidemie funestarono l’antica Cina e imperversarono durante la guerra di Troia, così come fecero la peste nera nell’Europa del 1300 e il vaiolo nel XV secolo. E la storia insegna come le grandi pestilenze si siano presentate con un andamento ciclico a lunghi intervalli di tempo, fino ancora a non molti anni fa. La pratica delle vaccinazioni e l’attenzione per l’igiene pubblica segnano una tappa fondamentale nel XX secolo nella lotta dell’Occidente contro le epidemie. Se oggi appare inscindibile il legame tra epidemia e contagio, ci sono voluti molti secoli prima che medici e studiosi ne cogliessero la relazione. Il libro di William Hardy McNeill è il testo più completo a riguardo, l’opera principale che racchiude anni e anni di ricerca, attraverso l’analisi di dati e testimonianze, del più grande studioso in materia. (Tratto dalla scheda del libro di William H. Mcneill, La peste nella storia. L’impatto delle pestilenze e delle epidemie nella storia dell’umanità.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

Maria Carla Visconti – La Grande Galleria di Carlo Emanuele I

La vicenda architettonica, letta attraverso le immagini dei secoli XVI e XVII, della stretta manica che fin dall’ultimo scorcio del ‘400 collegava il Castello degli Acaia con l’antico Palazzo del Vescovo scelto da Emanuele Filiberto quale prima sede ducale nel 1563 dopo lo spostamento della capitale da Chambéry a Torino e che il figlio, Carlo Emanuele I, trasforma in spettacolare “galleria delle meraviglie” allestendovi le raccolte ducali: una grande impresa celebrativa per una dinastia in fase di affermazione.

LEGGI IL SAGGIO DI MARIA CARLA VISCONTI SU ACADEMIA.EDU (OPPURE SCARICALO):
La Grande Galleria di Carlo Emanuele I: l’architettura attraverso le immagini dei secoli XVI e XVII

IMMAGINE DI APERTURA – La copertina del libro

Brescia: Emilio Isgrò – Incancellabile Vittoria, 2020

Dal 27 ottobre 2020
Brescia, Fermata “Stazione FS”, Metropolitana di Brescia

INSTALLAZIONE MONUMENTALE DI EMILIO ISGRÒ ALLA FERMATA “STAZIONE FS” DELLA METROPOLITANA DI BRESCIA

In occasione del ritorno a Brescia della Vittoria Alata, una delle più straordinarie statue in bronzo di epoca romana, dopo due anni di restauro, l’artista siciliano ha realizzato un’opera site specific che ridisegna la sagoma del capolavoro antico usando le cancellature, tipiche del suo linguaggio espressivo.

Emilio Isgrò credits Fondazione Brescia Musei

Brescia propone una operazione artistica dal grande valore culturale, in occasione del ritorno di una delle più straordinarie statue in bronzo di epoca romana, dopo due anni di restauro.

Si tratta dell’opera che Emilio Isgrò (Barcellona Pozzo di Gotto, ME, 1937) ha pensato per la parete nord della fermata ‘Stazione FS’ della Metropolitana di Brescia, che si pone come nuova porta d’ingresso alla città, simbolo dell’accoglienza, e che sarà inaugurata martedì 27 ottobre 2020.

L’artista siciliano ha realizzato Incancellabile Vittoria, una monumentale installazione di circa 200 mq, composta da 205 pannelli di fibrocemento fresati, il cui soggetto presenta la sagoma della Vittoria Alata che si eleva dalle cancellature tipiche della sua cifra espressiva più caratteristica, che hanno dato origine a uno dei più originali linguaggi dell’arte contemporanea del secondo dopoguerra.

A Brescia, le due Vittorie diventeranno punti di attrazione e faranno da trait-d’union tra due templi della città: quello classico del Capitolium, all’interno del rinnovato sito museale archeologico di Brescia, e quello della stazione ferroviaria dell’alta velocità e della metropolitana, emblema della modernità.

Incancellabile Vittoria sarà donata da Emilio Isgrò alla città, andando così ad arricchire il patrimonio artistico di Brescia, in linea con lo sviluppo dei progetti di arte contemporanea gestiti dalla Fondazione Brescia Musei per conto del Comune di Brescia, che hanno visto negli anni una collaborazione importante da parte del Gruppo Brescia Mobilità e della metropolitana, dove già sono presenti le installazioni di Marcello Maloberti e Patrick Tuttofuoco.

L’iniziativa, curata da Marco Bazzini, è promossa e sostenuta dalla Fondazione Brescia Musei, presieduta da Francesca Bazoli e diretta da Stefano Karadjov, e dal Comune di Brescia, con il contributo di Brescia Mobilità e Metro Brescia, il coordinamento artistico dell’Archivio Emilio Isgrò, il supporto di The FabLab Milano e il sostegno del Fondo Romeda per l’arte contemporanea.

“L’opera di Emilio Isgrò rappresenta un omaggio alla nostra città e a uno dei suoi simboli più preziosi: la Vittoria Alata – dichiara il Sindaco Emilio del Bono – La grandiosa statua del I secolo, tornata a Brescia da pochi giorni, è infatti celebrata da questo lavoro che reinterpreta un soggetto dell’arte antica attraverso la sensibilità e le tecnologie dell’arte contemporanea. L’installazione accoglierà i passeggeri della metropolitana e rappresenterà un emblema della resilienza e della volontà di rinascere di tutti i bresciani. Non posso quindi che ringraziare di cuore il maestro Isgrò per aver raccolto il nostro invito e per averci fatto questo splendido dono”.

“Il potere suggestivo del grande bronzo romano – spiega Francesca Bazoli, Presidente di Fondazione Brescia Musei – è stato magistralmente colto da Emilio Isgrò nella grandiosa opera ad esso ispirata, in cui utilizza le parole del primo canto dell’Eneide per farne emergere la silhouette inconfondibile della statua, e nelle bellissime parole della lettera con cui l’artista ha accompagnato il suo generoso dono alla città dell’opera stessa, da lui intitolata, con sapiente utilizzo di parole evocative insieme della sua cifra artistica e dell’immagine fuori del tempo della statua, Incancellabile Vittoria. La Vittoria Alata è un’icona capace di riconnettere metaforicamente al presente la profondità storica di radici affondate nella grande civiltà antica e di indicare una prospettiva, nel segno di un costante richiamo a credere nella forza vincente di quei valori di bellezza, armonia, grazia e creatività che la Vittoria incarna e che io ritrovo anche oggi nel dna della mia città se penso in particolare alla sua grande capacità di accoglienza ed integrazione e alla sua creatività, che si traduce anche in spirito imprenditoriale. La comunità cittadina accoglie con gratitudine l’operazione, interpretando il dono quale segno di incoraggiamento nella direzione del lavoro sul patrimonio artistico che la Fondazione sta compiendo”.

“ll luogo di inserimento dell’opera – prosegue Francesca Bazoli – è una soglia di transito e dialogo con il resto del mondo, essendo la stessa collocata nell’asse di connessione con l’alta velocità ferroviaria, in un luogo iconico dell’architettura funzionale e dell’infrastruttura moderna che si pone in un rapporto di suggestivo parallelismo con il tempio romano”.

“Il nostro Gruppo – commenta Carlo Scarpa, Presidente di Brescia Mobilità – è molto soddisfatto di questa originalissima operazione che ha visto importanti istituzioni del nostro territorio collaborare per addivenire a un risultato di grande valore: nei giorni del ritorno a Brescia di una splendida e fondamentale opera del passato, una delle stazioni simbolo della nostra metro, esempio di modernità e innovazione, accoglie un’opera di arte contemporanea di enorme pregio. Questo conferma la nostra vocazione per l’arte contemporanea che abbiamo voluto rafforzare in un momento difficile e complesso come quello che stiamo vivendo. Questo intervento offre un messaggio di fiducia verso il futuro, di voglia di fare e di speranza, tutti aspetti nei quali le aziende del nostro Gruppo credono e si riconoscono profondamente”.

“Le nostre stazioni – sottolinea Flavio Pasotti, Presidente di Metro Brescia – per ricchezza architettonica e tecnologica non sono semplici luoghi di passaggio e di attesa per andare altrove ma spazi vivi e vitali che accolgono, parlano e comunicano con i milioni di passeggeri che ogni anno le attraversano. L’arte contemporanea offre una chiave di lettura per questi luoghi, arricchisce il significato di un viaggio. L’opera che il maestro Isgrò ha donato ai bresciani, magnifica e maestosa, si sposa perfettamente con l’architettura della stazione metro FS rendendo evidente ciò che essa rappresenta: la nuova, contemporanea Porta di Ingresso alla città. Per questo siamo profondamente grati al Maestro Isgrò, per essere stato in questa “invenzione” un artista e ancor più persona ricca di generosa umanità”.

La silhouette della dea romana, tratteggiata di colore rosso e riconoscibile dalle ali e dalla posizione alzata delle braccia, emerge da una più ampia griglia composta da cancellature nere su un brano tratto dall’Eneide di Publio Virgilio Marone, poeta classico che queste zone ha certamente frequentato per essere nato in ambito mantovano, non molto distante da Brescia, e autore del capolavoro letterario che racconta la fondazione di Roma, la sua grandezza e quella del suo impero di cui Brixia (l’antica Brescia) fu una delle città più importanti.

Le cancellature sono state operate in profondità, oltre che con livelli differenti rispetto alle lettere del testo. In questo modo è stato ottenuto un effetto di chiaroscuro tipico del bassorilievo scultoreo.

Emilio Isgrò, Incancellabile Vittoria, 2020, Stazione FS della Metropolitana di Brescia. Photo: Alessandra-Chemollo

“Cancellare parole e immagini per Isgrò – afferma Marco Bazzini – non ha mai voluto dire compiere né un atto nichilista né un gesto provocatorio, al contrario, vuol dire riportarle tutte a nuova vita. Nel tempo e in diverse forme la cancellatura ha acquisito oltre a una valenza concettuale anche un carattere pittorico, carattere che in questi ultimi anni si è manifestato con il ritrarre figure, quasi fossero dei pittogrammi, proprio come avviene in quest’occasione bresciana. Ma l’Incancellabile Vittoria è soprattutto un grande inno alla vita e all’unità sociale, perché l’arte di Isgrò da sempre unisce la grande estetica alla grande etica”.

Così come nel 1826 il ritrovamento della statua bronzea, ben presto diventata il simbolo della città, aveva avuto il merito di compattare e rafforzare lo spirito di unità nazionale che si esplicitò durante i moti anti-austriaci del 1848, allo stesso modo, l’inaugurazione di questa opera vuole instillare un messaggio di forza per una coraggiosa ripartenza dopo il periodo complicato che si sta attraversando.

L’opera è stata realizzata utilizzando una tecnologia avanzata a controllo numerico (digitale) progettata da The FabLab, presso il Talent Garden di Milano; Incancellabile Vittoria diventa così immagine della modernità, tanto quanto lo è la metropolitana di Brescia, costruita seguendo modalità che la pongono all’avanguardia dei trasporti in Europa.

“Ho accolto con slancio – dichiara Emilio Isgrò – l’invito che mi viene da una meravigliosa città risorgimentale che sento mia non meno che di tutti gli italiani e, oserei aggiungere, di tutti gli europei di buona volontà. Una città che prima ha dovuto schivare le bombe venute dal buio, e recentemente l’insidia del coronavirus, pagando un tributo rilevante di vite e di sangue”.

“Come già nel dopoguerra – prosegue Emilio Isgrò –, è su queste rovine che bisogna ricostruire, nel segno di una Vittoria alata che viene da lontano e va lontano. Soprattutto con una consapevolezza: che il mondo è cambiato e cambia di continuo, e a noi tocca il compito di accompagnarlo con le nostre competenze e con quella cultura che è sempre stata e rimane il fondamento di ogni sviluppo economico e sociale. Non credo che io, come artista, possa essere indifferente a un discorso del genere, e appunto per questo ho deciso di donare alla città l’opera che realizzerò per la Metropolitana e che intitolerò Incancellabile Vittoria. Come segno di speranza e di fiducia, e soprattutto come tributo d’amore di un italiano ad altri italiani che lottano perché nessuno viva più inutilmente, e ancor più inutilmente muoia”.

IMMAGINE DI APERTURA – Emilio Isgrò, Incancellabile Vittoria, 2020, Stazione FS della Metropolitana di Brescia. Photo: Alessandra-Chemollo

James Ensor – L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889

L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, 1888, Getty Museum, Los Angeles

IL DIPINTO

L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889 (conosciuto anche semplicemente come L’entrata di Cristo a Bruxelles, in francese L’Entrée du Christ à Bruxelles) è un quadro dipinto nel 1888 James Ensor, considerato il miglior lavoro dell’artista belga nonché un precursore dell’espressionismo. Per la sua natura, considerata blasfema, il dipinto fu rifiutato dai Les XX ed Ensor fu costretto nel corso della sua vita ad esporlo nel proprio studio. Fu esibito dal Koninklijk Museum voor Schone Kunsten dal 1947 al 1983 e dal Kunsthaus di Zurigo dal 1983 al 1987; nel 1976 venne spostato temporaneamente all’Art Institute of Chicago e al Museo Guggenheim di New York per una retrospettiva.
Il dipinto si trova attualmente in mostra permanente presso il Getty Center di Los Angeles. L’opera è una delle tre realizzazioni artistiche scelte da Stefan Jonsson per spiegare la storia della democrazia e del socialismo nel periodo a cavallo tra i secoli XIX e XX e come “le masse” erano percepite in questa fase storica.

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James Ensor ritratto da Henry De Groux nel 1907

L’ARTISTA

James Sidney Edouard, Barone di Ensor (Ostenda, 13 aprile 1860 – Ostenda, 19 novembre 1949) è stato un pittore e incisore belga. Introverso e misantropo, trascorse gran parte della sua vita nella sua città natale, dedicandosi ad una pittura che fu una delle manifestazioni più significative del periodo e che si pose al centro della cultura del tempo. Nel 1877 s’iscrisse all’Accademia di belle arti di Bruxelles, dove rimase fino al 1880, entrando in contatto con gli ambienti anarchici e intellettuali della città e dove, nel 1881, tenne la prima mostra personale.
Le opere di questo periodo, che arrivò fino al 1885 circa, formano il cosiddetto periodo scuro, in cui i colori sono profondi e cupi, con una luce attenuata ma vibrante; in questo si vede l’influenza del naturalismo tipico della tradizione fiamminga e dei realisti francesi, in particolare di Gustave Courbet. I temi preferiti si rifanno alla tradizione fiamminga: nature morte, ritratti, interni borghesi intimi e malinconici, paesaggi dall’orizzonte piatto e basso, con una luce suggestiva che ricorda William Turner. Queste opere si avvicinano parzialmente all’impressionismo di Édouard Manet, di Edgar Degas e di Claude Monet, senza tuttavia arrivare all’ariosa immediatezza, all’abbandono alla natura, alla luminosità che sfalda la forma.

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William Hogarth: Marriage à-la-mode / Dal Ciarlatano

di Sergio Bertolami

Nella terza scena di Marriage à-la-mode, denominata The Inspection (il nome è riportato sulla cornice), ma generalmente ricordata come The visit to the quack doctor (La visita al dottore ciarlatano), William Hogarth tocca il tema della sifilide, la terribile malattia venerea, che fra Sette e Ottocento sarà al centro di molte narrazioni. In verità, si era già diffusa in Europa, probabilmente a partire dalla scoperta dell’America. All’epoca, un autore riportava nel suo trattato scientifico: «Al momento in cui pubblico la mia opera, tramite contatto venereo è giunta a noi dall’Occidente una malattia nuova, o quantomeno sconosciuta ai medici che ci hanno preceduto, il mal francese. Tutto il corpo acquista un aspetto così ripugnante, e le sofferenze sono così atroci, soprattutto la notte, che questa malattia sorpassa in orrore la lebbra, generalmente incurabile, o l’elefantiasi, e la vita è in pericolo» (Alexandri Benedicti Veronensis, Physici Historiae Corporis Humani, 1497). La sifilide si trasmette soprattutto durante il contatto sessuale, ma è possibile che interessi anche la gravidanza, passando dalla madre al feto. I gravosi effetti sociali potevano essere limitati da accorgimenti come l’uso di preservativi durante il rapporto sessuale, che comunque non garantivano la piena efficacia. In casi particolari anche un bacio profondo o una stimolazione orale potevano creare rischi d’infezione.

Non era la prima volta che Hogarth toccava l’argomento, basti pensare alla serie di dipinti ed incisioni riguardanti la Carriera di una prostituta del 1732.  Tuttavia, nella scena con il ciarlatano, la sifilide è la protagonista assoluta. Sul tavolo del finto medico campeggiano un teschio, intaccato dagli effetti della malattia e un trattato di medicina. Il problema, come ben si comprende, non era essenzialmente, medico, ma sociale perché legato alla trasmissione del contagio. Le autorità sanitarie chiaramente ponevano il massimo di attenzione alle case di piacere e alle prostitute considerate le maggiori responsabili della diffusione. Nella scena Hogarth capovolge il pensare comune, dal momento che è il giovane visconte ad avere infettato “troppo presto” la ragazzina offerta dalla maîtresse, che ora è adirata per aver perso una buona occasione di guadagno. Quale sia il destino ineludibile della sventurata Hogarth lo aveva già narrato nel 1732. Ma tornerà sulla malattia nell’ultima scena di questo stesso ciclo pittorico, e stavolta l’infezione avrà colpito una bambina del tutto innocente.

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Scena terza – Dal Ciarlatano

(S.B.) Nelle due stampe precedenti, gli sposi promessi hanno stretto il loro contratto matrimoniale e sono convolati a nozze, pur continuando a mostrare insensibilità l’uno verso l’altro. Questo non avveniva comunemente in tutti i matrimoni combinati dell’epoca, dal momento che spesso si instaurava fra coniugi un minimo rispetto. Nella terza scena, per esemplificare la probabile conseguenza dell’amore licenzioso, lo sguardo di Hogarth si sposta ora nello studio di un ciarlatano, richiamandosi ad un tal dottor Misaubin, personaggio di dubbia fama nella Londra del tempo, spacciatore di farmaci antivenerei e di pillole miracolose, che gli valsero il soprannome di Mr. Pilule. Qui il medico è rappresentato come un losco figuro, piccolo e tozzo, all’interno di un ambiente che raccoglie svariati oggetti che dovrebbero essere inerenti alla sua professione. Sebbene sia solo un cerusico ed eserciti operazioni di bassa chirurgia (come salassi e interventi di scarso impegno) tiene a presentarsi al pubblico come uno specialista, un farmacista, un naturalista, un chimico. Per accrescere il ridicolo, la sua parrucca e il vestire ci dicono che è un francese, perché è un male francese che è chiamato a curare e del quale dovrebbe essere specialista. Sul suo tavolo, infatti, c’è un teschio, aggredito dalla malattia.

Hogarth, per rifinire il suo personaggio, lo presenta anche come inventore di macchine estremamente complicate per svolgere le operazioni più semplici. Su di un marchingegno è esposto un libro in cui è scritto: “Spiegazioni su due macchine superbe, l’una per rimettere in sesto un arto lussato, e l’altra per servire come cavatappi, inventate da Monsieur de la Pillule, viste e approvate dall’Accademia Reale delle Scienze di Parigi”. L’intera stanza risulta stracolma di allusioni: un armadio, con piccoli cassetti di cui i cartigli riportano il contenuto, è sormontato da scaffali con vasi da farmacista, culminanti con una testa imbalsamata di un canide mostruoso. Accanto, due sarcofagi egizi e, a parete, le raffigurazioni di rarissime malformazioni congenite: un essere con le braccia congiunte al capo e un uomo con due teste. Sulla parete di fondo, un grande armadio semi aperto conserva uno scheletro nell’atto di baciare una figura anatomica, forse per ammonire i viventi della realtà della morte (quindi, un messaggio di Hogarth a non fidarsi mai di un ciarlatano). Nell’armadio c’è anche una testa imbalsamata con una parrucca francese. Appesi al soffitto, un coccodrillo impagliato, animale esotico, e un uovo di struzzo, simbolo della superiorità della Fede rispetto alla Ragione. Una fede evidentemente mal riposta. Infissi a muro una congerie di strani reperti. Un corno di narvalo, montato a pennone come una insegna di barbiere. Probabilmente sta a ricordare che il celebrato e prospero professionista in passato svolgeva il mestiere di cerusico. Sembrerebbe, infatti, che proprio quel mestiere di cava sangue gli abbia permesso di raggiungere gli onori in piena regola di cui sta ora sta godendo.

Gli esemplari di storia naturale appesi ostentano espressamente la sua pretesa di essere considerato un naturalista. Come se fossero le pregresse esperienze del suo esercizio, esibite alle menti fiduciose dei suoi ingenui pazienti. Osserviamo un alambicco, un femore enorme forse appartenente a un gigante la cui testa fa mostra di sé, un tripode, un cappello a campana da medico virtuoso e delle vecchie scarpe. Ma anche speroni da cavaliere, una lancia e uno scudo, allusivi probabilmente alle imprese letterarie di Hudibras, colonnello dell’esercito di Cromwell, e del suo scudiero Ralpho, protagonisti di svariate disavventure comiche in conseguenza della loro stupidità e disonestà. Attraverso una porta scorgiamo una stanza ingombra di storte e alambicchi.

La descrizione minuziosa mette in risalto il contrasto con la realtà espressa dai personaggi al centro della scena. Chiedono conto e ragione al ciarlatano sul perché ora si trovino in una condizione del tutto indesiderata, nonostante la sua millantata competenza medica. Il visconte, levando minaccioso la canna, mostra la scatola delle pillole salvifiche, che non lo hanno preservato affatto dalla malattia. Quella malattia che avevamo osservato denunciata, nelle due stampe precedenti, attraverso quella strana macchia nera sul collo. Le pillole di mercurio che il ciarlatano gli aveva prescritto non hanno curato la sifilide del giovane visconte, e neppure gli hanno evitato di trasmettere quel conosciuto e temuto “mal francese” alla minorenne (quasi una bambina) che sta al suo fianco. Con aria timida e frastornata esibisce anche lei la scatola delle pillole e nasconde in parte il viso con il fazzoletto. Porta in capo una cuffietta, che ricorda quella che, adornata di un nastro, pendeva dalla tasca del nobiluomo quando era rientrato a casa dopo avere passato una notte in allegra compagnia. La ragazza è in pratica una giovanissima prostituta che probabilmente è stata concessa per la prima volta al visconte, frequentatore della casa di tolleranza condotta dalla tenutaria, che alle spalle del nobile signore agita un coltello. Il nobile adirato (ma neanche troppo) chiede spiegazioni. Forse per quietare l’ira della maîtresse, che ascolta le parole del gentiluomo, mentre minaccia di farsi giustizia da sola. È malata anche lei di sifilide come vediamo dalle macchie sul volto. La ragazzina si asciuga la ferita, comparsa su di un angolo delle labbra. È il primo sintomo della terribile malattia venerea. Il ciarlatano non può che rispondere col suo ghigno impudente, espressione che bene si addice alla sua vile occupazione.

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica dell’incisione di William Hogarth dal dipinto conservato alla National Gallery di Londra