di Sergio Bertolami
3 – L’Exposition de 1900 et L’Impressionnisme.
Si chiamava André Mellerio il raffinato critico d’arte deluso, e non poco, della mostra sugli impressionisti allestita al Grand Palais in occasione della grande Esposizione Universale del 1900 a Parigi. La giudicava una manifestazione incompleta, rispetto a ciò che si sarebbe atteso. Evidenziava la sua disapprovazione in un libricino di appena sessanta pagine che s’intitola L’Exposition de 1900 et L’Impressionnisme. Un omaggio a una corrente artistica alla quale finalmente era stato riconosciuto il suo giusto valore. André Mellerio chiariva, infatti, che fino a pochi anni prima – come si poteva leggere nelle Notes sur l’Art Moderne di Andrè Michel – alcune persone, pronunciando la parola impressionista con “santo orrore” includevano, nello stesso anatema, tutti coloro che ne erano convinti o semplicemente sospettati. Fra il grande pubblico c’era l’abitudine, condivisa, di trattare come impressionista l’autore di qualsiasi dipinto dove ci fosse del viola in un’ombra; dove si notassero macchie più o meno informi di colore o una totale assenza di disegno. In breve, era impressionista qualsiasi tela che sembrasse pazza e priva di valore d’arte. Negli ultimi anni dell’Ottocento, invece, l’impressionismo aveva cessato di essere negato. La sua azione era riconosciuta, il suo successo tendeva sempre più al culmine. All’alba del Novecento, finalmente l’impressionismo, «qualunque sia il grado più alto o più basso che gli verrà assegnato un giorno in modo definitivo, occupa un posto determinato nella storia dell’Arte». Scriveva così Mellerio.
Il problema, tuttavia, secondo il critico d’arte era capire che posto occupasse l’impressionismo nella grande Esposizione del 1900, cioè nell’immaginario di chi gli aveva riservato un posto così marginale nella mostra aperta per fare il bilancio del secolo che si chiudeva e determinare il futuro dell’arte nel secolo che entrava. Nonostante l’evolversi dei tempi, qual era il risultato rappresentato in mostra? Presto detto, rispondeva: «Alcuni vecchi paesaggi di Monet, Pissarro e Sisley. Alcune figure di Renoir, due dipinti e tre o quattro pastelli di Degas; qualche raro Cézanne, pochissimi Berthe Morizot, un Guillaumin, qualche Boudin sparso qua e là, e basta. Alla vista di questa stanzetta luminosa e allegra, piena di talenti, si prova una gran gioia, ahimè! sminuita, quando si pensa, di fronte alla manifestazione troncata, a ciò che si sarebbe sognato, infinitamente più vasto e completo». Mellerio non era il solo a esprimere un giudizio così riduttivo. A leggerlo, sembra fargli eco anche Arsène Alexandre, il critico d’arte del quotidiano Le Figaro che martedì 1° maggio 1900 pubblicava due pagine fitte-fitte riguardanti “Le Belle arti all’Esposizione Universale del 1900”. Dopo avere esaminato l’Exposition retrospective al Petit Palais, passava alla Centennale de l’art Français e qui sorgeva anche a lui qualche dubbio, subito da fugare: «Quando si sono fornite, organizzando una simile mostra, tali prove di imparzialità e alta critica, non si può sospettare di aver voluto fare polemica artistica. Se poi la Centennale ci offre una sfolgorante sala impressionista, è perché questo gruppo di artisti, direttamente collegato a Corot, a Courbet, a Manet, ha conquistato il suo posto, e non ultimo, nell’arte di questo secolo, e ha rinnovato le nostre gioie dell’arte, ha chiarito la nostra visione, ampliato la nostra comprensione della natura».
Affermare, in altre parole, di non sospettare che i curatori della mostra avessero voluto “fare polemica artistica” era comunque sollevare la questione fra i competenti. Per capirci, basta riprendere le parole di Mellerio: «Pur tenendo conto degli sforzi di artisti isolati (come Puvis de Chavannes, Fantin-Latour, Carrière, Odilon Redon, Gustave Moreau, etc), nonché del recente contributo del giovane movimento idealista – significativo come tendenza, ma costituito da opere non del tutto mature – va riconosciuto che l’impressionismo rappresenta la maggior parte degli sforzi della pittura francese, durante l’ultimo quarto del XIX secolo». Allora perché dedicargli soltanto “… una sfolgorante sala” e non più? La risposta, in qualche modo, la forniva su Le bilan d’un siècle (1801-1900) Alfred Picard, commissario generale dell’Esposizione. Evidenziava lo start, il fotogramma di avvio del nuovo film chiamato Novecento, esaminando i cambiamenti intervenuti nelle esposizioni artistiche e nell’emancipazione dell’arte contemporanea. I Salon – affermava Picard – occupavano un grande spazio nella vita degli artisti: è là che i giovani andavano a cercare la strada verso la gloria, che i maestri sostenevano e argomentavano la loro celebrità, che il pubblico degli estimatori esprimeva le proprie scelte (e, per sottinteso, acquistava opere, investiva sull’arte). Dopo il 1880, però, le Esposizioni annuali divennero libere, organizzate dagli artisti stessi riuniti in associazioni. Lo Stato non interveniva che per la concessione dei locali, per le acquisizioni in base agli stanziamenti di bilancio, per le attribuzioni di alcuni premi e borse di viaggio.
All’inizio – continua Picard – non c’era che è una sola associazione a gestire il Salon: la Société des Artistes Français. Successivamente, con la scissione, nel 1891 si diede vita alla Société Nationale des Beaux-Arts. Picard, con pochi tratti, delineava un momento particolare della storia artistica francese, legato alla proposta di William-Adolphe Bouguereau che il Salon diventasse una semplice esposizione senza premi, ma capace di dare visibilità alle giovani generazioni. L’opposizione fu netta. Un gruppo di artisti – sotto la presidenza di Meissonier alla guida di un comitato formato in particolare da Pierre Puvis de Chavannes, Carolus-Duran, Félix Bracquemond, Jules Dalou, Auguste Rodin e molti altri ancora – rigettò l’idea e creò una scissione, esponendo in quello che rimarrà come il Salon du Champs de Mars. All’inaugurazione dell’Esposizione del 1900, gli artisti erano divenuti ormai legioni, gioivano per una indipendenza assoluta, non conoscevano più la sferza dei grandi maestri, ubbidivano liberamente al proprio gusto e al proprio temperamento. Gli orientamenti che seguivano, anziché essere poco numerosi e nettamente definiti, si erano moltiplicati ogni giorno di più. L’Esposizione aveva, dunque, il dovere di mettere in mostra questo panorama variopinto di correnti artistiche diverse. «Dovremmo deplorare o applaudire? – concludeva Picard – Le opinioni sono discordi; ma i liberali [come noi] non possono fare a meno di rimanere fedeli alla loro fede, e considerare, nel campo artistico come in altri, la libertà individuale come la più pura fonte di progresso».
IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay