Non si tratta più di sensazione, ma dell’idea che ne deriva

di Sergio Bertolami

4 – Il movimento idealista in pittura.

Chi pensa che la storia dell’arte sia fatta solo di tele e pennelli oppure di mazzotte e scalpelli, sta proprio sbagliando strada. L’arte o l’architettura seguono le palpitazioni della vita sociale. Nelle opere si possono leggere indirizzi e aspirazioni profonde da collocare esattamente nel tempo in cui sono state prodotte. Lo scriveva Panofsky nel 1939, e Gerbrands nel 1956 considerava le espressioni artistiche come un sistema di “comunicazione simbolica”. Per cui immagino che ai miei lettori attenti si sia accesa una lampadina, quando hanno scorto, nel menzionato brano di André Mellerio, i nomi di Puvis de Chavannes, Fantin-Latour, Carrière, Odilon Redon, Gustave Moreau. Se si esclude Fantin-Latour – amico di Édouard Manet e che come lui rifiutò di fare parte degli impressionisti per rimanere nel solco del realismo – tutti gli altri artisti citati oggi li identifichiamo come appartenenti alla corrente simbolista. Non a caso. Mellerio è il biografo di Odilon Redon, da considerarsi, ci dice, come un artista che nell’arte contemporanea occupa un posto a sé stante. Soprattutto è il curatore di un libro pubblicato solo quattro anni prima della spettacolare Esposizione Universale di Parigi, nelle cui pagine vaglia questo gruppetto di artisti quali componenti di una corrente emergente: “Le mouvement idéaliste en peinture”.

Mellerio è chiarissimo quando annota: «Avvertiamo una volta per tutte che questo termine [Idealismo], non più di quelli di Impressionismo e Simbolismo e simili, non ha alcun significato razionale. Essendo queste etichette già fatte e attaccate ai pittori nella stampa d’arte, non volevamo cambiarle per paura di aumentare la confusione». Sorvolate, dunque, sulle etichette preconfezionate, ma soffermatevi sulla tendenza di questi artisti che cercano di sfuggire alla contingenza attraverso l’ispirazione e il modo di espressione. Ci sono, infatti, artisti realisti e artisti idealisti. «In altre parole – mentre il realista prende come obiettivo finale la riproduzione della natura nella sensazione diretta che essa dà luogo – l’idealista vuole solo vedere in essa il lontano punto di partenza del proprio lavoro». Una discussione di sicuro non recente: ha preso avvio dalla fine del Seicento, soprattutto in filosofia con George Berkeley, che riconduceva a “idea” ogni realtà oggettiva. «Non si tratta più di sensazione – specifica Mellerio –, cioè della cosa percepita indipendentemente dalla volontà, ma dell’idea che ne deriviamo, concetto puro che l’artista cercherà unicamente di esprimere, senza preoccuparsi delle oggettività esatte che erano la causa».

Una questione è certa: «L’arte ha le sue fluttuazioni» e dalle sensazioni degli impressionisti ogni nuova forma ha mosso i suoi passi. Per questo motivo l’opera d’arte moderna, ad ascoltare George-Albert Aurier, dovrebbe essere:
1° Ideista (o idealista, che dir si voglia) poiché il suo unico ideale sarà l’espressione dell’idea;
2° Simbolista, poiché esprimerà questa idea con le forme;
3° Sintetica, poiché scriverà queste forme, questi segni, secondo una modalità di comprensione generale;
4° Soggettiva, poiché l’oggetto non sarà mai considerato lì come un oggetto, ma come segno di un’idea percepita dal soggetto.
5° (è una conseguenza) Decorativa…
George-Albert Aurier, per chi non lo conoscesse, è colui che ha affermato le istanze del Simbolismo pittorico con un articolo apparso sul “Mercure de France” a marzo del 1891 intitolato “Le Symbolisme en peinture. Paul Gauguin”. L’anno successivo (quello della sua morte a soli 27 anni) pubblica il suo ultimo intervento sulla “Revue encyclopédique ou analyse raisonnée”. I contenuti seguono la via espressa su Le Figaro nel 1886, dal poeta Jean Moréas col “Manifesto del Simbolismo letterario”. Non occorre ricordare che il movimento simbolista interessò la letteratura, le arti figurative e nondimeno la musica, dove spiccarono le sonorità di Claude Debussy.

Pierre Puvis de Chavannes, Fanciulle in riva al mare, 1879, Musée d’Orsay, Paris

Fra i pittori di consolidata notorietà che hanno contribuito all’evoluzione del percorso simbolista ci sono, dunque, Puvis de Chavannes, Gustave Moreau, Odilon Redon e Paul Gauguin. L’ultimo di questi è il più conosciuto dall’odierno grande pubblico. Aurier nel suo articolo tratta del Gauguin simbolista; Octave Mirbeau, esponente illustre dell’evoluzione letteraria tra Otto e Novecento, ne descrive i capolavori capaci di evidenziare nell’arte dell’epoca percorsi innovativi: «C’è in quest’opera [di Gauguin] un’inquietante e gustosa miscela di splendore barbaro, di liturgia cattolica, di fantasticheria indù, d’immagini gotiche, simbolismo oscuro e sottile; ci sono realtà dure e voli frenetici di poesia attraverso i quali Gauguin crea un’arte assolutamente personale e completamente nuova». Il nuovo, il singolare, l’inatteso, l’incorrotto, Gauguin lo cerca nel primitivismo dei mari del Sud. È più che mai distante da un Pierre-Auguste Renoir, che appreso della sua partenza esclama graffiante: «Si può dipingere bene anche a Batignolles», rimanendo cioè nella sua Parigi in trasformazione. Dopotutto è quello che fa il giovane aristocratico, Jean Floressas Des Esseintes, mirabile protagonista letterario immortalato nel romanzo “À rebours” di Joris Karl Huysmans, nel 1884. Inversamente a Gauguin che cerca il nuovo imbarcandosi per terre lontane, Des Esseintes deluso e incomunicabile sceglie l’esclusione sociale per rifugiarsi in una “realtà ideale” che proverà a costruirsi dentro e fuori di sé.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay  

Autori vari – Parola x parola

Questi brevi racconti sono stati raccolti durante i diversi incontri che si sono tenuti nelle biblioteche che hanno aderito a “Shangrila. La biblioteca ideale”. Nel corso di questi laboratori tutti “al femminile”, donne di diversa origine hanno avuto modo di raccontarsi e di raccontare, tra le tante cose, piccoli equivoci linguistici o aneddoti su nomi e parole. La parola, forse più del tema generico dell’essere donna e delle sue varie sfaccettature, è stata il fulcro al quale ci siamo appoggiate più spesso per sollevarci letteralmente in volo sull’universale, non necessariamente femminile, ma linguistico.

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Caterina Barilaro – Il Parco Letterario Horcynus Orca nell’area dello Stretto di Messina

In Sicilia, sono sorti 8 Parchi Letterari istituiti dalla Fondazione Ippolito Nievo (Stefano D’Arrigo, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Leonardo Sciascia, Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Elio Vittorini, Nino Savarese), di cui i primi 5 realizzati con il contributo della Sovvenzione Globale. I Parchi Letterari nell’Isola tracciano un itinerario storico-culturale segnato dalla vita e dalle opere di quegli scrittori che, del territorio, hanno fatto motivo delle loro narrazioni, della loro letteratura e che oggi l’iniziativa ripropone in un fertile connubio tra cultura e occasioni di sviluppo. Sono passeggiate fra reminiscenze letterarie, lettura delle pagine più intense della letteratura, che vengono riscoperte e vissute direttamente in quella natura, in quegli scorci di Sicilia che hanno emozionato e ispirato poesie e descrizioni. Un ponte letterario lanciato tra mito e tecnologia, tra storia e realtà virtuale, è il Parco Letterario dello Stretto “Stefano D’Arrigo – Horcynus Orca”.
Situato tra Scilla e Cariddi, lì «dove il mare è mare», crocevia fra la civiltà di Levante e la civiltà di Ponente, il Parco propone il recupero e la valorizzazione di un’identità culturale smarrita, intesa come tensione che combina i segni del passato con le sfide del futuro, puntando sulla valorizzazione di ecosistemi locali. Una strategia che tocca nel profondo il patrimonio identitario delle comunità locali, elevandolo a risorsa e rendendolo, perciò, plasmabile e utilizzabile.

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Guy de Maupassant – Le domeniche di un borghese parigino

A cura di Sergio Bertolami

Aldo Grasso, critico televisivo del Corriere della Sera (i cui interventi dovrebbero comparire più spesso in prima pagina) ha pubblicato nella sua rubrica un acuto commento riguardante “I talk e i dubbi sulla classe dirigente”. Qui paragona certe sconclusionate affermazioni a quelle descritte nell’Ottocento da Guy de Maupassant nel libro di racconti Le Domeniche di un borghese parigino, dove dominano stupidità e luoghi comuni. Mi è sembrato interessante, perciò, riprendere e pubblicare proprio questo simpatico brano al quale fa riferimento, ricorrendo ad una mia traduzione, per rendere comprensibile a tutti il testo originale in francese. Questi racconti sono apparsi in serie nel 1880 su Le Gaulois, giornale col quale lo scrittore aveva iniziato a collaborare inviando un pezzo a settimana. Maupassant avrebbe preferito non riunirli in volume. Fu, quindi, soltanto dopo la sua morte che apparvero in un’edizione illustrata del 1901. Les Dimanches d’un bourgeois de Paris esprime la critica al conformismo, a un modo di pensare che rasenta la stupidità, caratteristica spesso attribuita della borghesia nel XIX° secolo. Cosa fa un piccolo borghese la domenica? Stare inattivo, significa annoiarsi. Così il protagonista di questa bella serie di “avventure” – M. Patissot, cinquantadue anni, impiegato ministeriale – decide di andare a prendere un po’ d’aria fresca, tanto più che il suo medico gli ha prescritto l’esercizio fisico. In questo episodio si reca in campagna, per esempio, in un sobborgo parigino ancora relativamente sconosciuto ai lettori del tempo, ma presto dipinto anche dagli Impressionisti, tra pranzi sull’erba, balli popolari, pesca e canottaggio. Ogni domenica per il nostro piccolo borghese è una vera spedizione per incontrare personaggi che, a quanto pare, noi possiamo incrociare anche oggi, col telecomando davanti al televisore o dialogando sui social media. Buon divertimento.

LEGGI L’ARTICOLO DI ALDO GRASSO SUL CORRIERE DELLA SERA

Una cena e qualche idea

In occasione della festa nazionale, il signor Perdrix (Antoine), capo ufficio del signor Patissot, fu nominato cavaliere della Legione d’onore. Contava trent’anni di servizio sotto i regimi precedenti e dieci anni dall’istituzione dell’attuale governo. I suoi dipendenti, pur mormorando un po’ di essere così ricompensati nella persona del loro capo, considerarono opportuno offrirgli una croce arricchita di falsi diamanti; e il nuovo cavaliere, non volendo restare indietro, li invitò tutti a cena la domenica successiva, nella sua proprietà ad Asnières.

La casa, illuminata con ornamenti moreschi, aveva l’aspetto di un caffè-concerto, ma la sua posizione le dava valore, perché la linea ferroviaria, tagliando il giardino in tutta la sua larghezza, passava a 20 metri dalla scala circolare esterna che si concludeva sul terrazzo d’accesso al portone principale della casa. Al centro di una aiuola verde, una vasca di foggia romana in cemento conteneva dei pesci rossi e un getto d’acqua, del tutto simile a una siringa, a tratti lanciava in aria microscopici arcobaleni, di cui i visitatori si meravigliavano. L’alimentazione di questo irrigatore era la preoccupazione costante del signor Perdrix, che a volte si alzava alle cinque del mattino per riempire il serbatoio. In maniche di camicia, con la sua gran pancia straripante dalle mutande, pompava ostinatamente, per avere, al suo ritorno dall’ufficio, la soddisfazione di lasciare scorrere le grandi acque e immaginare che la freschezza si diffondesse nel giardino.

La sera della cena ufficiale, tutti gli ospiti, uno dopo l’altro, andarono in estasi per le condizioni ideali della tenuta, e ogni volta che sentivano, in lontananza, arrivare un treno, il signor Perdrix annunciava loro la sua destinazione: Saint-Germain, le Havre, Cherbourg o Dieppe, e, per scherzo, facevano segnali ai viaggiatori che si affacciavano dai finestrini. L’intero ufficio era lì. C’era per primo il signor Capitaine, vicecapo; il signor Patissot, l’impiegato più anziano; poi i signori De Sombreterre e Vallin, giovani impiegati eleganti, che venivano in ufficio con gran comodo; infine, il signor Rade, famoso in tutto il ministero per le folli dottrine che metteva in mostra, e lo spedizioniere, signor Boivin.

Il signor Rade passava per un tipo originale. Alcuni lo consideravano un fantasioso o un ideologo; altri un rivoluzionario; tutti però erano d’accordo che fosse uno alquanto goffo. Già anziano, magro e basso, con un occhio vivace e lunghi capelli bianchi, aveva professato per tutta la vita il più profondo disprezzo per il lavoro amministrativo. Setacciatore di libri e grande lettore, di natura sempre ribelle a tutto, ricercatore della verità e sprezzante dei pregiudizi comuni, aveva un modo diretto e paradossale di esprimere le proprie opinioni tanto da chiudere la bocca agli imbecilli soddisfatti e a quelli scontenti senza sapere perché. Di lui dicevano: «Questo vecchio pazzo di Rade», oppure: «Questo Rade senza cervello»; e la lentezza del suo avanzamento di carriera sembrava dare ragione ai mediocri “parvenu” contro di lui. L’indipendenza della sua parola faceva spesso tremare i suoi colleghi, che si chiedevano con terrore come avesse potuto ancora conservare il suo posto di lavoro.

Appena furono a tavola, il signor Perdrix, in un breve e sentito discorso, ringraziò i suoi “collaboratori”, promettendo loro la sua protezione tanto più efficace man mano che fosse cresciuta la sua autorità, e concluse con una commossa arringa per ringraziare e glorificare il governo liberale e giusto, che sapeva ricercare il merito fra gli umili. Il signor Capitaine, vicecapo, rispose a nome dell’ufficio: si felicitò, si congratulò, si inchinò, si esaltò e decantò le lodi di tutti. E un applauso frenetico accolse questi due pezzi di eloquenza. Dopo di che si cominciò sul serio a mangiare.

Tutto andò bene fino al dessert, l’esiguità di parole non infastidì nessuno. Ma, al caffè, una questione sollevata inaspettatamente scatenò il signor Rade, che iniziò ad oltrepassare il limite. Si stava parlando d’amore, con naturalezza, e un soffio di cavalleria inebriava questa sala di burocrati: si vantava con esaltazione la bellezza superiore della donna, la sua delicatezza d’animo, la sua attitudine per le cose squisite, la certezza del suo giudizio e la delicatezza dei suoi sentimenti. Il signor Rade, iniziò a reclamare, rifiutando decisamente al sesso qualificato come “bello” tutte le qualità che gli venivano attribuite; e, di fronte all’indignazione generale, si richiamò a degli autori qualificati:
«Schopenhauer, signori, Schopenhauer, un grande filosofo che la Germania venera. Ecco cosa dice: “Era necessario che l’intelligenza dell’uomo fosse tanto oscurata dall’amore così da chiamare bello questo sesso di piccola taglia, spalle strette, fianchi larghi e gambe curve? Tutta la sua bellezza, infatti, sta nell’istinto dell’amore. Invece di definirlo bello, sarebbe stato più corretto definirlo sgradevole. Le donne non hanno né sentimento, né intelligenza per la musica, così come per la poesia o per le arti plastiche; ciò per loro non è altro che cantilena, puro pretesto, pura affettazione sfruttata dal loro desiderio di piacere”».

«L’uomo che l’ha detto è uno sciocco», dichiarò il signor de Sombreterre.
M. Rade, sorridendo, continuò:
«E Rousseau, signore? Ecco la sua opinione:
“Le donne, in generale, non amano nessuna arte, non si distinguono una dall’altra e non hanno alcuna genialità”».
Il signor de Sombreterre alzò le spalle con disprezzo:
«Rousseau è stupido come l’altro, tutto qui».
Il signor Rade continuò ancora a sorridere:
«E Lord Byron, che nondimeno amava le donne, signore? Questo è ciò che disse:
“Dovrebbero essere ben nutrite e ben vestite, ma non mescolate con la società. Dovrebbero anche essere istruite in religione, ma ignorare la poesia e la politica, leggere solo libri religiosi e di cucina”».
M. Rade continuò:
«Vedete, signori, studiano tutte pittura e musica. Non ce n’è una, tuttavia, che abbia realizzato un buon dipinto o un’opera notevole! Perché, signori? Perché sono il “sexus sequior”, il secondo sesso a tutti gli effetti, fatto per stare in disparte e in secondo piano».

Il signor Patissot si arrabbiò:
«E Mme Sand, signore?».
«Un’eccezione, signore, un’eccezione. Vorrei citare ancora un passaggio di un altro grande filosofo, questo però inglese: Herbert Spencer. Ecco: “Ogni sesso è capace, sotto l’influenza di stimolanti particolari, di manifestare facoltà normalmente riservate all’altro. Così, per prendere un caso estremo, una stimolazione speciale può far sì che il latte possa essere somministrato dal seno degli uomini. Si è visto, durante le carestie: bambini piccoli privati ​​della madre, salvati in questo modo. Non includiamo, tuttavia, questa facoltà di avere latte tra il numero di attributi del maschio. Allo stesso modo, l’intelligenza femminile che, in alcuni casi, darà prodotti superiori, dovrebbe essere trascurata nel conto della natura femminile, come fattore sociale”…».

M. Patissot, in tutto e per tutto, ferito nel carattere cavalleresco che gli era proprio, dichiarò:
«Lei non è francese, signore. La galanteria francese è una forma di patriottismo».
Il signor Rade raccolse la palla.
«Ho pochissimo patriottismo, signore, il meno possibile».
Il freddo si diffuse fra i presenti, ma lui continuò tranquillamente:
«Siete d’accordo con me che la guerra sia una cosa mostruosa; che questa consuetudine di massacrare i popoli costituisca uno stato permanente di barbarie; che è odioso, dal momento che l’unico vero bene è la “vita”, vedere i governi, il cui dovere è di proteggere l’esistenza dei loro sudditi, cercare costantemente mezzi di distruzione? Sì, non è vero?
Ebbene, se la guerra è una cosa orribile, non sarebbe il patriottismo l’idea madre che lo sostiene? Quando un assassino uccide, ha un solo pensiero, ed è quello di rubare. Quando un brav’uomo, con colpi di baionetta, uccide un altro uomo onesto, padre di famiglia o forse un grande artista, a quale pensiero obbedisce?».

Tutti si sentirono profondamente feriti.
«Quando si pensano delle cose del genere, non si dicono in società».
Il signor Patissot continuò:
«Tuttavia, signore, ci sono principi che tutte le persone oneste riconoscono».
Il signor Rade chiese:
«Quali?».
Allorché, solennemente, M. Patissot pronunciò:
«Moralità, signore».
Il signor Rade, raggiante, esclamò:
«Solo un esempio, signori, un esempio molto piccolo. Cosa ne pensate dei signori con berretti di seta che sui boulevards esterni fanno il bel lavoro che conoscete e che si guadagnano da vivere?».
Un broncio di disgusto attraversò il tavolo:
«Bene! Signori, solo un secolo fa, quando un gentiluomo elegante, molto permaloso sul punto dell’onore, aveva per… amica … una “signora molto bella e onesta di alto lignaggio”, stava benissimo a vivere a sue spese, signori, e persino di rovinarla del tutto. Si trovava questo gioco affascinante. Quindi i principi della moralità non sono fissi… e poi …».

Il signor Perdrix, visibilmente imbarazzato, lo fermò:
«Sta minando le fondamenta della società, signor Rade, occorre sempre avere dei principi. Quindi, in politica, ecco il signor de Sombreterre che è un legittimista, il signor Vallin orleanista, il signor Patissot e io repubblicani, abbiamo principi molto diversi, non è vero? Eppure, noi ci intendiamo molto bene, andiamo d’accordo proprio perché li abbiamo, questi principi».
Ma il signor Rade esclamò:
«Anche io ho dei principi, signori, e ne ho di molto solidi».
Il signor Patissot alzò la testa e, freddamente:
«Sarei felice di conoscerli, signore».
M. Rade non si fece pregare:
«Eccoli, signore:
1° principio. – Il governo di uno solo è una mostruosità.
2° principio. – Il suffragio ristretto [limitato cioè soltanto ad una parte dei cittadini] è un’ingiustizia.
3° principio. – Il suffragio universale è stupidità.

1° – Infatti, consegnare milioni di uomini, intelligenze d’élite, scienziati, persino geni, al capriccio, al volere di un essere che, in un momento di allegria, di follia, di ubriachezza o di eccitazione amorosa, non esiterà a sacrificare tutto per la sua fantasia esaltata, dilapiderà le ricchezze del paese dolorosamente accumulate da ciascuno, farà ammassare migliaia di uomini da fare a pezzi sui campi di battaglia, ecc., ecc., a me sembra – a me, che sono un semplice ragionatore – un’aberrazione mostruosa.
2° – Ma pur ammettendo che il paese debba governarsi da sé stesso, escludendo con un pretesto sempre discutibile una parte dei cittadini dell’amministrazione degli affari pubblici, è un’ingiustizia così evidente, che mi sembra inutile discuterne ulteriormente.
3° – Rimane il suffragio universale. Voi siete d’accordo con me sul fatto che gli uomini di ingegno sono rari, vero? Per essere larghi, ammettiamo che al momento in Francia ce ne siano cinque. Aggiungiamo ancora, per essere più larghi, duecento uomini di grande talento, mille altri possessori di talenti vari, e diecimila uomini superiori, in un modo qualunque. Ecco uno stato maggiore di undicimiladuecentocinque dotati di spirito. Dopo di che voi avete di fronte l’esercito dei mediocri, ai quali segue la moltitudine degli imbecilli. Dato che il mediocre e lo sciocco costituiscono sempre l’immensa maggioranza, è inaccettabile che possano eleggere un governo intelligente.

Per essere onesti, aggiungerei che, logicamente, il suffragio universale mi sembra l’unico principio ammissibile, ma che è inapplicabile, ecco perché.
Far concorrere al governo tutta la linfa vitale di un Paese, rappresentarne tutti gli interessi, tenendo conto di tutti i diritti, è un sogno ideale, ma poco pratico, perché l’unica forza che si può misurare è proprio quella che dovrebbe essere la più trascurata, la forza insignificante, il numero.
Secondo il vostro metodo, il numero costituito da chi non è intelligente ha la prevalenza sull’ingegno, sul sapere, su tutte le conoscenze acquisite, sulla ricchezza, sull’industria, ecc. Quando potrete dare a un membro dell’Istituzione diecimila voti contro uno allo straccivendolo, cento voti al grande proprietario terriero contro dieci voti al suo contadino, avrete grosso modo bilanciato le forze e ottenuto una rappresentanza nazionale che riprodurrà veramente tutte le potenzialità della nazione. Ma io vi sfido bene a farlo.
Ecco le mie conclusioni: in passato, quando non si poteva esercitare nessuna professione, si faceva il fotografo; oggigiorno si diventa membri del Parlamento. Un potere così composto sarà sempre deplorevolmente incapace; ma incapace di nuocere quanto incapace di fare il bene. Un tiranno, al contrario, se è stupido, può fare molto male e, se è intelligente (cosa infinitamente rara), molto bene.
Su queste forme di governo non parlo; e mi dichiaro anarchico, vale a dire sostenitore del potere più cancellato, più insensibile, più liberale nel senso ampio del termine, e allo stesso tempo rivoluzionario, cioè l’eterno nemico di questo stesso potere, che comunque non può essere che assolutamente difettoso. Ecco.

Grida di indignazione si levarono intorno al tavolo e tutti, legittimisti, orleanisti, repubblicani per necessità, si infuocarono di rabbia. Il signor Patissot, in particolare, stava soffocando e, rivolgendosi al signor Rade:
«Allora, signore, lei non crede a niente».
L’altro gli rispose semplicemente:
«No signore».
La collera che suscitò fra tutti gli invitati impedì al signor Rade di continuare, e il signor Perdrix, ridiventando capo, chiuse la discussione.
«Basta, Signori, per favore. Ognuno di noi ha la propria opinione, non è vero? E non siamo disposti a cambiarla».
Ognuno approvò quello che considerarono un giusto intervento. Ma il signor Rade, ancora in rivolta, volle avere l’ultima parola.
«Eppure, io ho una morale», disse, «È molto semplice e sempre applicabile; una frase la enuncia, eccola: “Non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi”. Io vi sfido a metterla in dubbio, mentre con tre ragionamenti io mi impegno a demolire il più sacro dei vostri principi».

Questa volta non risposero affatto. Ma mentre tornavamo la sera a due a due, ciascuno disse al suo compagno:
«No, davvero il signor Rade sta andando troppo oltre. Ha sicuramente un colpo di martello. Dovremmo nominarlo sottocapo a Charenton».

[Ndt: Come dire dobbiamo promuoverlo questo vecchio pazzo di Rade e liberarcene, spedendolo a Charenton, piccolo paese vicino Parigi, dove la Marna si getta nella Senna. Anche questo è un modo come un altro per fare carriera. Di “urlatori” che hanno acquistato visibilità nelle risse televisive e nei social media ne conosciamo a uffa. Prima meravigliavano, ma ormai hanno cominciato a seccare].

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Franz Marc – The Foxes, 1913

Dopo l’incontro con il futurismo italiano, il cubismo francese e le opere ispirate alla nozione di orfismo promulgate da Robert Delaunay, che aveva visitato con il suo caro amico August Macke nel 1912 a Parigi, le opere di Marc sono caratterizzate da una scomposizione della rappresentazione in forme astratte, prismatiche con colori ritmicamente armonizzati. E la dimensione spirituale era di grande importanza: nello spirito della sensazione religioso-panteista, gli animali divennero un tema chiave, presentato in armonia con la natura come rappresentanti del cosmo eterno.

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Arsenio Lupin – L’arresto di Arsène Lupin

Dopo la prima fortunata raccolta, Tre avventure di Arsène Lupin, si trovano riuniti in questo volume altri tre dei migliori racconti con protagonista il celebre ladro gentiluomo scaturiti dalla fantasia di Maurice Leblanc: L’arresto di Arsène Lupin, Arsène Lupin in prigione e L’evasione di Arsène Lupin. La successione dei tre racconti compone una sorta di breve romanzo che terrà i lettori con il fiato sospeso, dalla prima pagina fino all’inaspettato colpo di scena finale. (Acquista)

Le avventura su You Tube

L’arresto di Arsène Lupin

Arsenio Lupin

Arsenio Lupin è il geniale ladro inventato dalla penna di Maurice Leblanc nel 1905. In questi giorni il personaggio letterario è tornato alla ribalta su Netflix, nella cui serie è stato riadattato in chiave contemporanea: non più Lupin, ma un suo emulo. Il protagonista odierno è il simpatico attore francese Omar Sy, (lo ricorderete nel film Quasi Amici). La prima parte di cinque episodi, intitolata “Nell’ombra di Arsenio” è disponibile dall’8 gennaio 2021. Noi di Experiences, tuttavia, vi proponiamo l’Arsenio Lupin delle serie trasmesse fra il 1971 e il 1974. L’interprete principale fu Georges Descrières.

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Isabella Conti intervista Umberto Galimberti – Il mondo che cambia

L’uso della mascherina e il rispetto del distanziamento sociale hanno inevitabilmente cambiato le abitudini di tutti noi. Non vedere i sorrisi, le espressioni di un volto, privarsi degli abbracci, della vicinanza, del contatto, comporta cambiamenti, anche nell’umanità delle persone .Per capire come affrontare questi mutamenti antropologici, analizzando la situazione nel suo profondo, la sindaca Isabella Conti intervisterà il filosofo, psicoanalista e accademico italiano Umberto Galimberti.

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All’Esposizione Centennale solo una sala per gli impressionisti

di Sergio Bertolami

3 – L’Exposition de 1900 et L’Impressionnisme.

Si chiamava André Mellerio il raffinato critico d’arte deluso, e non poco, della mostra sugli impressionisti allestita al Grand Palais in occasione della grande Esposizione Universale del 1900 a Parigi. La giudicava una manifestazione incompleta, rispetto a ciò che si sarebbe atteso. Evidenziava la sua disapprovazione in un libricino di appena sessanta pagine che s’intitola L’Exposition de 1900 et L’Impressionnisme. Un omaggio a una corrente artistica alla quale finalmente era stato riconosciuto il suo giusto valore. André Mellerio chiariva, infatti, che fino a pochi anni prima – come si poteva leggere nelle Notes sur l’Art Moderne di Andrè Michel – alcune persone, pronunciando la parola impressionista con “santo orrore” includevano, nello stesso anatema, tutti coloro che ne erano convinti o semplicemente sospettati. Fra il grande pubblico c’era l’abitudine, condivisa, di trattare come impressionista l’autore di qualsiasi dipinto dove ci fosse del viola in un’ombra; dove si notassero macchie più o meno informi di colore o una totale assenza di disegno. In breve, era impressionista qualsiasi tela che sembrasse pazza e priva di valore d’arte. Negli ultimi anni dell’Ottocento, invece, l’impressionismo aveva cessato di essere negato. La sua azione era riconosciuta, il suo successo tendeva sempre più al culmine. All’alba del Novecento, finalmente l’impressionismo, «qualunque sia il grado più alto o più basso che gli verrà assegnato un giorno in modo definitivo, occupa un posto determinato nella storia dell’Arte». Scriveva così Mellerio.

Il critico André Mellerio è la persona che indossa il cappello a cilindro nel dipinto di Maurice Denis, Omaggio a Cézanne, 1900, Parigi, museo d’Orsay.

Il problema, tuttavia, secondo il critico d’arte era capire che posto occupasse l’impressionismo nella grande Esposizione del 1900, cioè nell’immaginario di chi gli aveva riservato un posto così marginale nella mostra aperta per fare il bilancio del secolo che si chiudeva e determinare il futuro dell’arte nel secolo che entrava. Nonostante l’evolversi dei tempi, qual era il risultato rappresentato in mostra? Presto detto, rispondeva: «Alcuni vecchi paesaggi di Monet, Pissarro e Sisley. Alcune figure di Renoir, due dipinti e tre o quattro pastelli di Degas; qualche raro Cézanne, pochissimi Berthe Morizot, un Guillaumin, qualche Boudin sparso qua e là, e basta. Alla vista di questa stanzetta luminosa e allegra, piena di talenti, si prova una gran gioia, ahimè! sminuita, quando si pensa, di fronte alla manifestazione troncata, a ciò che si sarebbe sognato, infinitamente più vasto e completo». Mellerio non era il solo a esprimere un giudizio così riduttivo. A leggerlo, sembra fargli eco anche Arsène Alexandre, il critico d’arte del quotidiano Le Figaro che martedì 1° maggio 1900 pubblicava due pagine fitte-fitte riguardanti “Le Belle arti all’Esposizione Universale del 1900”. Dopo avere esaminato l’Exposition retrospective al Petit Palais, passava alla Centennale de l’art Français e qui sorgeva anche a lui qualche dubbio, subito da fugare: «Quando si sono fornite, organizzando una simile mostra, tali prove di imparzialità e alta critica, non si può sospettare di aver voluto fare polemica artistica. Se poi la Centennale ci offre una sfolgorante sala impressionista, è perché questo gruppo di artisti, direttamente collegato a Corot, a Courbet, a Manet, ha conquistato il suo posto, e non ultimo, nell’arte di questo secolo, e ha rinnovato le nostre gioie dell’arte, ha chiarito la nostra visione, ampliato la nostra comprensione della natura».

Le Figaro di martedì 1° maggio 1900

Affermare, in altre parole, di non sospettare che i curatori della mostra avessero voluto “fare polemica artistica” era comunque sollevare la questione fra i competenti. Per capirci, basta riprendere le parole di Mellerio: «Pur tenendo conto degli sforzi di artisti isolati (come Puvis de Chavannes, Fantin-Latour, Carrière, Odilon Redon, Gustave Moreau, etc), nonché del recente contributo del giovane movimento idealista – significativo come tendenza, ma costituito da opere non del tutto mature – va riconosciuto che l’impressionismo rappresenta la maggior parte degli sforzi della pittura francese, durante l’ultimo quarto del XIX secolo». Allora perché dedicargli soltanto “… una sfolgorante sala” e non più? La risposta, in qualche modo, la forniva su Le bilan d’un siècle (1801-1900) Alfred Picard, commissario generale dell’Esposizione. Evidenziava lo start, il fotogramma di avvio del nuovo film chiamato Novecento, esaminando i cambiamenti intervenuti nelle esposizioni artistiche e nell’emancipazione dell’arte contemporanea. I Salon – affermava Picard – occupavano un grande spazio nella vita degli artisti: è là che i giovani andavano a cercare la strada verso la gloria, che i maestri sostenevano e argomentavano la loro celebrità, che il pubblico degli estimatori esprimeva le proprie scelte (e, per sottinteso, acquistava opere, investiva sull’arte). Dopo il 1880, però, le Esposizioni annuali divennero libere, organizzate dagli artisti stessi riuniti in associazioni. Lo Stato non interveniva che per la concessione dei locali, per le acquisizioni in base agli stanziamenti di bilancio, per le attribuzioni di alcuni premi e borse di viaggio.

All’inizio – continua Picard – non c’era che è una sola associazione a gestire il Salon: la Société des Artistes Français. Successivamente, con la scissione, nel 1891 si diede vita alla Société Nationale des Beaux-Arts. Picard, con pochi tratti, delineava un momento particolare della storia artistica francese, legato alla proposta di William-Adolphe Bouguereau che il Salon diventasse una semplice esposizione senza premi, ma capace di dare visibilità alle giovani generazioni. L’opposizione fu netta. Un gruppo di artisti – sotto la presidenza di Meissonier alla guida di un comitato formato in particolare da Pierre Puvis de Chavannes, Carolus-Duran, Félix Bracquemond, Jules Dalou, Auguste Rodin e molti altri ancora – rigettò l’idea e creò una scissione, esponendo in quello che rimarrà come il Salon du Champs de Mars. All’inaugurazione dell’Esposizione del 1900, gli artisti erano divenuti ormai legioni, gioivano per una indipendenza assoluta, non conoscevano più la sferza dei grandi maestri, ubbidivano liberamente al proprio gusto e al proprio temperamento. Gli orientamenti che seguivano, anziché essere poco numerosi e nettamente definiti, si erano moltiplicati ogni giorno di più. L’Esposizione aveva, dunque, il dovere di mettere in mostra questo panorama variopinto di correnti artistiche diverse. «Dovremmo deplorare o applaudire? – concludeva Picard – Le opinioni sono discordi; ma i liberali [come noi] non possono fare a meno di rimanere fedeli alla loro fede, e considerare, nel campo artistico come in altri, la libertà individuale come la più pura fonte di progresso».

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay