Tour virtuale della mostra “Paolo Ventura. Carousel”

VIRTUAL TOUR

Nonostante l’altalenarsi di aperture e chiusure della mostra Paolo Ventura. Carousel – che ha aperto a metà settembre 2020 per chiudere a novembre, riaprire a febbraio 2021 e infine chiudere nuovamente – sono stati oltre 10.000 visitatori ad oltrepassare la soglia di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia per scoprire la poesia dei mondi immaginari di Ventura! Per ringraziare chi è venuto in mostra e chi avrebbe voluto ma non ha potuto farlo, anche a causa degli impedimenti che noi tutti abbiamo sperimentato in questi mesi, eccovi il tour virtuale di Carousel, fruibile da computer e da cellulare!

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IMMAGINE DI APERTURA – Intestazione della mostra virtuale

Parma, La nuova Pilotta – L’Ottocento e il mito di Correggio

Fino al 30 Maggio 2021 – Parma, La nuova Pilotta
L’OTTOCENTO E IL MITO DI CORREGGIO
Mostra a cura di Simone Verde

Avviso. La situazione sanitaria è in continua evoluzione. Consigliamo di verificare le informazioni su giorni, orari e modalità di visita sul sito web della Mostra.

Francesco Scaramuzza, Il Correggio appare a Paolo Toschi, s.d.

“L’Ottocento e il mito di Correggio” è innanzitutto un omaggio a due figure per molti versi fondamentali della storia parmense: Maria Luigia d’Asburgo, Duchessa di Parma, e l’incisore Paolo Toschi. Vuole anche essere una soluzione virtuosa di un problema allestitivo di lunghissima data con cui si sono confrontati tutti i direttori dell’ex Galleria Nazionale. La Rocchetta, teatro di questa “mostra permanente”, infatti è uno spazio cruciale dal punto di vista storico ma di difficile musealizzazione. Vi si trovano le pale del Correggio in un allestimento ottocentesco storicizzato e quindi inamovibile. Esse sono alla fine del percorso, però, cronologicamente decontestualizzate dalla produzione coeva e vengono dopo le opere del Settecento, esposte negli antichi saloni dell’Accademia.

Esiste da sempre un problema sul come giustificare tale collocazione che questo allestimento finalmente ha risolto: il Correggio di questi spazi, in effetti, non è un Correggio pienamente rinascimentale, ma reinventato dal XIX secolo, a uso dei copisti dell’Accademia. Tirato giù dagli altari delle chiese in cui si trovava, è un maestro ormai borghese che il visitatore trova allestito ad altezza d’occhio per un dialogo a tu per tu. Per spiegare il senso di questo stravolgimento culturale, è stato perciò creato un percorso ricomprensivo, tipico di un museo contemporaneo cui è al contempo richiesta la narrazione della storia dell’arte e di quella delle collezioni. Con “L’Ottocento e il mito di Correggio”, quindi, il visitatore troverà chiarito il senso della rimozione delle opere dagli edifici sacri da cui provengono e – grazie alla esposizione per la prima volta al pubblico della pittura ottocentesca della Pilotta – il contesto artistico di questa reinvenzione.

Intorno ai quattro capolavori del Correggio – La Madonna con la scodella e la Madonna di San Gerolamo più le due tele provenienti dalla Cappella del Bono – che con il Secondo Trattato di Parigi nel 1815 vennero restituiti a Parma dal Louvre dove erano confluiti per effetto delle requisizioni napoleoniche del 1796, la mostra presenta anche il meglio della produzione ottocentesca del Ducato, nell’epoca in cui questo Correggio “secolarizzato” diventa l’eroe della pittura nazionale parmigiana. Andando alle date, nel 1816 il Palazzo della Pilotta rappresentò un rifugio adatto per accogliere il patrimonio d’arte che doveva essere ricomposto e valorizzato; con il progetto di Pietro De Lama le opere del Correggio trovarono un primo allestimento negli spazi adiacenti al Teatro Farnese, dove era ospitata in passato la biblioteca farnesiana. Tra il 1821 e il 1829, sulla base di un progetto curato da Paolo Toschi, direttore dell’Accademia di Belle Arti e dall’architetto Nicolò Bettoli, furono realizzati i tre saloni conclusi oggi dalla statua del Canova dedicata a Maria Luigia, con un allestimento di derivazione neoclassica. Del marzo 1835, negli spazi della Rocchetta adiacenti ai saloni, è il progetto di un ulteriore allestimento ideato da Nicolò Bettoli e Paolo Toschi che, con l’esposizione nelle salette intime e raccolte della Rocchetta delle opere del Correggio le affidano il ruolo di sancta sanctorum della quadreria luigina, valorizzandole in misura maggiore. Dai Saloni alla Rocchetta, l’allestimento illuminista divenne d’un tratto romantico, documento unico di un passaggio così nodale nella storia della museologia italiana.

I lavori di ampliamento e rifacimento delle stanze terminano circa venti anni dopo, nel 1855, subendo diverse interruzioni; l’esito di tale intervento purtroppo non fu mai visto dai suoi progettisti, che morirono nel 1854. Ad unire il grande maestro rinascimentale e i capolavori ottocenteschi è Paolo Toschi, incisore raffinato, architetto e direttore dell’Accademia delle Belle Arti, fondata nel 1757 dal duca Filippo di Borbone, poi fortemente sostenuta dalla Duchessa. Toschi volle che le due pale e le due tele diventassero strumento di esercizio per gli allievi della sua Accademia. Alcune di esse vennero quindi poste su strutture che le rendessero orientabili per favorirne l’illuminazione, ovvero la visione con ogni luce. Toschi, poi, con il suo ambizioso progetto di riprodurre ad acquerello, e poi di divulgare attraverso incisioni, i Freschi del Correggio, contribuì alla fama del maestro e della città, con la diffusione dell’opera dell’artista in tutta Europa. Lo studio e l’esecuzione degli acquarelli richiese cinque anni di lavoro, dal 1839 al 1843. Suoi sono gli acquerelli che riproducono gli affreschi del Duomo e di San Giovanni che si ammirano in mostra tra le due pale, alcuni inviati alla Grande Esposizione di Londra del 1855 a rappresentare l’arte del Ducato. Molte delle sue opere e dei suoi allievi sono perciò esposte in queste sale in contrappunto con gli originali rinascimentali, restituendo al visitatore il senso di una reinvenzione culturale e artistica di primaria importanza non solo per la museologia, ma anche per la storiografia dell’arte italiana.

La visione dell’arte del Toschi, forte della sua formazione parigina rafforzata da rapporti artistici intrecciati in tutta Europa, si dimostrò da subito aperta al nascente gusto romantico per i soggetti storici e per la natura, riuscendo ad ampliare l’orizzonte artistico oltre le stanche riproposizioni di un’arte ufficiale che risentivano di un gusto neoclassico di ascendenza ancora imperiale. In mostra, appartiene al primo filone l’opera di Francesco Scaramuzza rappresentata da una monumentale Silvia e Aminta, inviata nel 1862 ad illustrare Parma all’Esposizione Universale di Londra. Più accondiscendenti al gusto romantico sono i due magnifici Rebel acquistati direttamente da Maria Luigia, le due monumentali tele di Giuseppe Molteni, altro pittore “ufficiale” del ducato luigino mentre la piccola opera di Ferdinando Storelli rappresenta l’estetica di quella che la duchessa volle una longeva e significativa scuola parmense di pittura di paesaggio.

Uno degli ambiti in cui si espresse maggiormente la committenza luigina fu senz’altro quello della pittura religiosa, improntata a una concezione paternalista dello Stato. Le iconografie misericordiose, infatti, o celebranti le attività di elemosina o le elargizioni sovrane si moltiplicarono a dismisura e videro attivi gli artisti ufficiali della corte. Valgano per tutti il San Giovanni Battista di Francesco Scaramuzza e il David con la testa di Golia di Enrico Barbieri. In diverse opere il riferimento ai maestri della pittura emiliana appare declinato in chiave “nazionalistica” di esaltazione del genio parmigiano. Che è anche genio e celebrazione dell’artista, come esprime la fioritura del genere dell’autoritratto.

Nel corso della storia la riproducibilità tecnica delle opere d’arte è stata sperimentata nelle metodologie della fusione del bronzo, del conio delle monete, della xilografia e della litografia come riproduzione della grafica e della stampa come riproducibilità tecnica della scrittura. Con l’invenzione della fotografia, le cui prime sperimentazioni iniziarono a diffondersi in Italia dal 1839, proprio quando Toschi dava inizio alla mirabile impresa dei “Freschi” di Correggio, la riproducibilità del visibile si liberò dal condizionamento della manualità. Questo nuovo paradigma irruppe, così, nell’antico Ducato costringendo la cultura accademica parmigiana ad emanciparsi. Ecco che la pittura di paesaggio risulta ora focalizzata sulle forze – naturali e quindi scientifiche – che caratterizzano la universale vastità del reale e le spettacolari tele di Alberto Pasini, come i diaporama del tempo, riproducono in chiave immersiva i paesaggi esotici in cui si svolgeva la vita dei popoli più remoti. Cecrope Barilli intanto ricerca l’esotico nascosto nel primitivo di classi popolari dedite a forme di esistenza analoghe a quelle delle terre colonizzate. Ed è già un entrare nel nuovo secolo nei drammi di una globalizzazione che perdura ancora ai nostri giorni.

Per precisa scelta strategica del Direttore Simone Verde, questa mostra, dopo il periodo espositivo si trasformerà in sezione definitiva della grande pinacoteca della Nuova Pilotta. Alle pareti resteranno le opere con i relativi pannelli espositivi, mentre l’ampio corredo documentario di approfondimento e confronto proposto dalla mostra temporanea resterà documentato dal catalogo dell’esposizione.

IMMAGINE DI APERTURAAntonio Allegri detto il Correggio, Compianto sul Cristo morto, 1524 circa.

Alessandro Barbero – Dante e gli amici

“Avere tanti amici, per Dante, come per chiunque a quell’epoca, ha voluto dire anche sperimentare il dolore della morte delle persone care. Perché si moriva spesso, si moriva facilmente, si moriva giovani. Quando Dante scrive la Commedia, tanti dei suoi amici di giovinezza sono già morti. E lui fa di tutto per incontrarli nell’altro mondo.”

Il più noto storico italiano disegna un ritratto di Dante a tutto tondo, avvicinando il lettore alle consuetudini, ai costumi e alla politica di una delle più affascinanti epoche della storia: in questo video, primo di una serie realizzata dalla casa editrice, Alessandro Barbero ci racconta il rapporto tra Dante e i suoi antenati. Un video ideato e prodotto dagli Editori Laterza e realizzato da Mu Produzioni.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Rhodan59 da Pixabay 

Alessandro Barbero racconta Dante

Edvard Munch: il Fregio della vita con le sue gioie e i suoi dolori

di Sergio Bertolami

8 – Dal “Caso Munch” alla Secessione di Berlino.

Sul tracciato belga di Les XX (il gruppo dei Venti), nasce a Berlino il 5 febbraio 1892 il Vereinigung der XI (l’associazione degli Undici), da un’idea di Max Liebermann e Walter Leistikow. La chiamarono “Libera Associazione per l’Organizzazione di Mostre d’Arte”, perché se il modello imposto dalla pittura accademica doveva essere quello di un Anton von Werner o di un Wilhelm Bleibtreu – rappresentanti di primo piano del guglielminismo artistico, dal nome del Kaiser Guglielmo II – a chi differentemente orientato non rimaneva che istituire spazi alternativi e indipendenti. Non era facile, e la riprova si ebbe al Verein Bildender Künstler, l’associazione degli artisti berlinesi, con la personale di Edvard Munch inaugurata il 5 novembre del 1892 e chiusa in anticipo, per protesta della maggioranza dei soci, il 12 novembre. Una settimana di contrasti per quelle opere definite da artisti, pubblico e stampa “brutte e non finite”; critiche che da un giorno all’altro resero famoso il pittore norvegese. Sulla scia delle polemiche, il mercante d’arte Eduard Schulte propose la medesima mostra a Düsseldorf e a Colonia. A dicembre, poi, fu Munch stesso sempre a Berlino a organizzare una nuova esposizione, questa volta allʼEquitable-Palast, aggiungendo alle opere già esposte il Ritratto di August Strindberg, appena ultimato.

Il Fregio della vita esposto a Berlino

Edvard Munch, è nome conosciuto fra il grande pubblico, e, benché abbia lasciato oltre 1.000 quadri e più di 4.000 disegni, tutti lo ricordano per L’urlo del 1893. Pochissimi sanno, però, che questo dipinto è parte di una serie articolata di opere presentata in prima battuta nella capitale tedesca e intitolata Fregio della vita. Sarà questa sua iniziale mostra a innescare un dibattito talmente acceso da produrre uno scossone inaudito e avviare quella rimasta nella storia come la Secessione di Berlino. Il vento di un’arte libera e originale, distaccata dalle istituzioni accademiche e dai centri espositivi ufficiali, si diffonderà prima a Monaco nel 1892, poi a Vienna nel 1896, e infine a Berlino nel 1898. Una scissione che espanderà i suoi effetti in molteplici campi della cultura. Sarà, infatti, appoggiata dagli intellettuali più avanzati della Mitteleuropa e del Nord: dallo storico dell’arte Meier-Graefe (tedesco), dal poeta Przybyszewski (polacco), da drammaturghi come Strindberg (svedese) o Ibsen (norvegese), filosofi come Kierkegaard (danese), Schopenhauer e Nietzsche (tedeschi).
«Non mi sono mai divertito così tanto, è incredibile quanto una cosa innocente come un dipinto possa creare un simile trambusto». È il commento sarcastico di Edvard Munch, che guardava al Fregio della vita, come a una serie pittorica nella quale aveva espresso la personale visione del mondo e non certo come a una deflagrazione del conformismo. È lui stesso a spiegare, con modestia e semplicità: «Il Fregio è inteso come una sequenza di dipinti decorativi che, insieme, rappresentano un’immagine di vita. La sinuosa linea della costa li attraversa tutti, aldilà di essa vi è l’oceano, in perenne movimento, e sotto le cime degli alberi si snoda la vita multiforme, con le sue gioie e i suoi dolori». Questa sequenza di dipinti fu esposta, a partire dal 1902, in una dozzina di occasioni, suddivisa in quattro temi (uno per parete) intitolati dallo stesso Munch:

Seme dell’amore;

Notte stellata, Rosso e bianco, Occhi negli occhi, Danza sulla spiaggia, Il bacio, Madonna

Sviluppo e dissoluzione dell’amore;

Ceneri, Vampiro, La danza della vita, Gelosia, La donna, Malinconia

Angoscia;

Angoscia, Sera sul viale Karl Johan, Edera rossa, Golgota, L’urlo

Morte.

Il letto di morte, La morte nella stanza della malata, Odore di morte, Metabolismo. La vita e la morte, La madre morta e la bambina

A Berlino nel 1893 Munch ripresentò l’opera come “Studio per una serie” e per la prima volta ne espose i principi pittorici. In rapporto a questa mostra, a giugno del 1894, l’editore Fischer pubblicò la prima monografia sull’artista, con contributi, fra gli altri, di Stanisław Przybyszewski e Julius Meier-Graefe. La definizione “Studio per una serie” chiarisce che i dipinti non erano a sé stanti, ma consequenziali. Comparivano sulle pareti della sala come una successione di storie. Storie, da rintracciarsi nel percorso narrativo delle differenti mostre in cui i quadri furono esposti. Volta per volta, anche il numero dei dipinti fu differente, da un minimo di sei a un massimo di ventidue. Precisa Mai Britt Guleng sul catalogo della mostra del 2013, ospitata nella doppia sede del Museo Nazionale e del Museo Munch di Oslo, in occasione del 150° anniversario della nascita del celebre pittore (220 dipinti e 50 opere su carta): «Non un singolo quadro fece parte di tutte le dieci o dodici serie esposte tra il 1893 e il 1918. Forse ancora più sorprendente è il fatto che solo una limitata gamma di motivi vi fosse rappresentata – Il bacio, Madonna, Vampiro, Malinconia e L’Urlo – ma con dipinti eseguiti in periodi diversi, con grandi disparità nello stile e nei tempi di composizione. Anche gli allestimenti erano diversi tra loro: i dipinti potevano essere collocati separatamente a un’altezza normale o appesi in alto appena sotto il livello del soffitto, incorniciati da un passepartout bianco a formare una sequenza continua. In altre parole, il “Fregio della vita”, al singolare, non è mai esistito. Si tratta piuttosto di una serie di immagini multiple, che individualmente creano una loro narrazione visiva».

Il volume, edito nel 2013 offre il catalogo illustrato di tutte le opere comprese nella mostra “Munch 150” alla National Gallery e al Munch Museum di Oslo, insieme a una ricca bibliografia completa e alla cronologia degli eventi più importanti della vita dell’artista

L’Aftenposen di Oslo, il maggiore quotidiano norvegese per diffusione, definì Munch «un artista allucinato e allo stesso tempo uno spirito cattivo che si prende gioco del pubblico e si burla della pittura come della vita umana». Nell’agosto 1908, la crisi psicofisica, di cui negli anni il pittore aveva avvertito i sintomi, tocca il culmine. Abuso di alcol, allucinazioni, mania di persecuzione e un principio di paralisi alle gambe lo spingono a farsi ricoverare. È il 3 ottobre 1908, quando entra nella clinica psichiatrica del neurologo Daniel Jacobson, da cui uscirà nel maggio 1909, ristabilitosi psichicamente e fisicamente. Così si dice. È certo però che lui stesso sia persuaso che “la malattia, la follia e la morte” presenti nella sua famiglia (e per riflesso nei suoi lavori) si trasmettano di generazione in generazione. Lo esprime pittoricamente con Lʼeredità. Tuttavia lo scrive anche di proprio pugno. Dove? Sul suo quadro più famoso, L’urlo. Questa sembra che sia la scoperta degli ultimi giorni. Sul cielo rosso una piccola nota, scritta a matita nell’angolo in alto a sinistra, critica aspramente: «Può essere stato dipinto solo da un pazzo». La prima volta che l’iscrizione è stata menzionata fu in occasione di una mostra a Copenaghen nel 1904, undici anni dopo che Munch dipinse l’opera. Sembrava lo sfregio di un visitatore. Oggi, con l’ausilio della tecnologia ad infrarossi utilizzata per analizzare la calligrafia e paragonarla a quella di lettere e diari, il Museo Nazionale della Norvegia conferma, al contrario di ogni immaginazione, l’autenticità autografa dell’artista.

L’urlo, 1893/1910, Galleria Nazionale, Oslo

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Marco Santagata – 20 finestre sulla vita di Dante

Quello che possiamo dire sulla vita di Dante è lui stesso a raccontarlo. Ed è proprio a partire dalle tracce disseminate nelle opere, oltre che attraverso documenti e testi dell’epoca, che Marco Santagata, il massimo esperto in Italia, ricostruisce la vita del sommo poeta offrendola al lettore con stile brillante e narrativo in venti brevi capitoli.

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di din0uz da Pixabay

Georges Braque – Natura morta con bottiglie e bicchieri, 1912

Questa natura morta incarna le caratteristiche essenziali del cubismo analitico, il rivoluzionario modo di dipingere sviluppato da Georges Braque e Pablo Picasso tra il 1908 e il 1912. Gli artisti hanno analizzato visivamente i loro soggetti, smontando le loro superfici esterne e interne e riproponendole da punti diversi di vista in un unico piano. In modo specifico in questo dipinto, sebbene ogni elemento  sia ridotto a una geometria semplificata e quindi compresso all’estremo, si possono ancora distinguere una bottiglia di liquore, un bicchiere di vino, un’altra bottiglia e una carta da gioco, tutti oggetti tipici delle opere cubiste. Con il suo aspetto denso, quasi piatto, e la tavolozza quasi monocromatica, il dipinto precede di pochi mesi il passaggio di Braque al collage di cartapesta. L’opera un tempo apparteneva al commerciante Daniel Kahnweiler, uno dei primi campioni di Picasso e Braque.

Estratto da: Bonnie Pitman, ed., “Still Life with Bottles and Glasses”, Dallas Museum of Art: A Guide to the Collection (New Haven, CT: Yale University Press, 2012), 238.

 

Come si divertivano i nostri bis-nonni?

Come si rideva all’inizio del secolo scorso? Siamo andati a spulciare nelle pagine de “Il libro allegro” di Ugo Vivarelli (1901) e ci siamo divertiti anche noi, coinvolti da quel pizzico di sana ingenuità, tanto da proporvi una selezione di battute di spirito che abbiamo rielaborato appena-appena per esporle con un linguaggio leggermente più attuale.

A scuola… e non solo

Un padre sdegnato di fronte ai pessimi risultati domanda al figlio:
– Ma tu, perché vai a scuola?
– Per aspettare l’ora di uscita!

Allora il padre, deluso, si confida con un amico, chissà che non sappia fornirgli qualche consiglio:
– Dovresti dare a tuo figlio un giusto rimprovero.
– Tempo perso, caro mio; non ascolta che gli imbecilli…
– Allora gli parlerò io.

Alle domande dell’amico del padre, il ragazzo risponde di non studiare perché stanco di imparare controsensi.
– Fammi un esempio – chiede l’uomo incuriosito.
– Anche più di uno: perché si chiama quadrante la mostra di un orologio, mentre è rotonda e si chiama circolare il foglio delle comunicazioni del preside che invece ha la forma di un rettangolo? Perché si dice rosso il tuorlo di un uovo che invece è giallo, e si dice nero il vino che è rosso?

Il figlio dell’amico del padre a queste domande sa rispondere, perché è un ragazzo studioso. Meravigliato della sua erudizione, un compagno gli ha chiesto:
– Ma come fai a trovare il tempo per leggere tanti libri?
– La maggior parte li leggo la notte.
– Di notte? E ci vedi?

Preso dall’emulazione, anche il ragazzo svogliato confessa all’insegnante:
– Sa, professore? Ho deciso di bruciarmi il cervello sui libri.
– Non ci riuscirai, il vuoto è incombustibile!

Il problema è che gli asini sono asini! Protesta il padre del ragazzo che di studiare non ne vuole sapere. E racconta di quando il suo vecchio insegnante entrato in aula per far lezione si accorse di un fascio di fieno che, per scherzo, gli avevano posto sulla cattedra. Comprese subito l’atto di spirito, ma senza scomporsi, lo prese e porgendolo alla scolaresca esclamò:
– Signori, chi non ha terminato di fare colazione?!

I figli, oggigiorno, sono pieni di riguardi da parte dei loro genitori, che al contrario li considerano geniali. Si racconta, infatti, che una buona mamma, parlando col professore gli abbia detto:
– Malgrado tutte le sue lagnanze, dovrebbe confessare che mio figlio ha una gran testa: sveglia, aperta.
– Molto aperta! Tutto ciò che gli entra da un orecchio gli esce dall’altro.

In classe l’insegnante spiega:
– Un nome astratto deve indicare qualche cosa che si può immaginare, che si può pensare, ma che non si può toccare. Sapresti farmi un esempio?
– Sissignore…. un ferro rovente.

Stessa scuola, stessa classe:
– Chi era Pitagora?
– Un falegname.
– Ma che dici?
– Non ci restano le tavole fatte da lui?

Di matematica capiscono poco, questi ragazzi; ma di scienze?
– Che cosa sono i quadrupedi?
– Quelli che hanno quattro gambe!
– Per esempio?
– La sedia… il tavolino… due galline…

Un ragazzaccio, però, la matematica l’ha usata a modo suo. All’uscita di scuola si è avvicinato al banco di un venditore d’arance e ha chiesto:
– Quante me ne date per quattro soldi?
– Cinque.
– E allora, quattro per tre soldi?
– Esattamente.
– Tre per due, due per uno e una per niente….
Così, acchiappata un’arancia, è scappato via.

La solita chiacchiera di una volta: ultimi a scuola, primi nella vita. C’è pure chi racconta una storiella. Sentite: un professore monta in una barca per attraversare un certo fiume che ha la corrente molto impetuosa.
– Conosci la storia? – chiede al barcaiolo.
– No, signore.
– Sventurato! Metà della tua vita è perduta!
Dopo una pausa:
– Almeno, conosci la matematica.
– Neppure.
Sciagurato! Tre quarti della tua vita sono perduti.
Di lì a poco un colpo di vento rovescia la barca.
Il barcaiolo grida:
– Signore! Sa nuotare?
– No, aiutami…
– Allora, l’intera sua vita è perduta!

Se le acque di quel fiume sono pericolose, si può fare sempre una passeggiata in campagna.
Un signore attraversando un bosco vede una signorinella raccogliere funghi, prendendoli alla rinfusa.
– Fai attenzione, ragazza mia, ve ne potrebbero essere di velenosi.
La ragazza si ferma, e, guardandolo con un sorriso dolce e ingenuo, esclama:
– Oh! non importa, signore. Sono da regalare.

IMMAGINE DI APERTURA rielaborazione grafica della copertina de “Il libro allegro” di Ugo Vivarelli.

Alessandro Barbero – Dante e la politica

“Ebbene, il suo viaggio nell’oltretomba è collocato tra il marzo e l’aprile dell’anno 1300, cioè nel momento in cui lui era immerso fino al collo nella politica fiorentina […]. Insomma, non andiamo forse tanto lontano dalla verità dicendo che Dante, quando scrive la Commedia, sta anche pensando che se avesse continuato a far politica in quella città rischiava davvero di dannarsi l’anima.”

Il più noto storico italiano disegna un ritratto di Dante a tutto tondo, avvicinando il lettore alle consuetudini, ai costumi e alla politica di una delle più affascinanti epoche della storia: in questo video, primo di una serie realizzata dalla casa editrice, Alessandro Barbero ci racconta il rapporto tra Dante e i suoi antenati. Un video ideato e prodotto dagli Editori Laterza e realizzato da Mu Produzioni.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Rhodan59 da Pixabay 

Alessandro Barbero racconta Dante

Verona, Museo di Castelvecchio – Michael Mazur, L’inferno

06 Marzo 2021 – 03 Ottobre 2021
Verona, Museo di Castelvecchio
MICHAEL MAZUR, L’INFERNO
Mostra a cura di Francesca Rossi, Daniela Brunelli, Donatella Boni

Avviso. La situazione sanitaria è in continua evoluzione. Consigliamo di verificare le informazioni su giorni, orari e modalità di visita sul sito web della Mostra.

Michael Mazur, Canto III i – Caronte, acquaforte e acquatinta, 1996, 661×498 mm

Per i 700 anni dalla morte di Dante, l’Inferno “agghiacciante e indelebile” di Michael Mazur torna a Castelvecchio, vent’anni dopo la “prima”.

Giusto vent’anni fa, lo statunitense Michael Mazur, tra i più originali incisori del recente Novecento, espose la sua interpretazione dell’Inferno dantesco nella sale di Castelvecchio. Oggi, in concomitanza con il Settimo Centenario della morte del Poeta, viene mostrato il nucleo delle opere in una mostra monografica che si potrà visitare dal 23 aprile al 3 ottobre. Si potrà così ammirare la collezione dei 42 stampe che lo stesso artista decise, dopo quella prima esposizione, di donare al Gabinetto Disegni e Stampe del Museo di Castelvecchio.
In questa potente sequenza di opere, Mazur illustra il viaggio di Dante con sconvolgente forza. La sua è una interpretazione “agghiacciante ed indelebile”, decisamente originale e intimamente sentita.
Piuttosto che usare la consueta raffigurazione del poeta e della sua guida, infatti, Mazur descrive in prima persona il viaggio all’interno dei gironi infernali e annota: “l’artista, come nostro Virgilio, vede ciò che Dante ha ‘visto’ ”.
Ad emergere da questa esperienza è un audace confronto tra un grande interprete contemporaneo e l’immaginario medievale.
Alle sue opere, nella mostra scaligera, vengono affiancati brani della celebratissima traduzione inglese del testo di Dante realizzata dal “poeta laureato” Robert Pinsky.
Mazur ha realizzato le sue incisioni ricorrendo alla tecnica del monotipo (stampa unica) e dell’acquaforte, alle cui possibilità espressive, dai neri vellutati ai bianchi puri risparmiati sul foglio, l’artista ha affidato quella che non solo è la traduzione figurativa di un testo letterario così noto ed evocativo, ma, insieme, la rivisitazione autonoma ed attualissima di un repertorio di temi fortemente legato alla tradizione e sui quali si sono misurati, nei secoli, molti grandi artisti.
La tematica infernale non era nuova a Mazur: egli ne era infatti fortemente affascinato. Aveva iniziato a confrontarsi con l’Inferno già agli inizi degli anni Novanta del Novecento, quando realizzò una prima serie di monotipi per illustrare la fortunata nuova traduzione inglese del testo dantesco ad opera, appunto, di Robert Pinsky. Un’elaborazione che lo ha poi gradualmente condotto ad approfondire l’intera Cantica, completandone l’interpretazione attraverso le potenti opere esposte in questa mostra.

IMMAGINE DI APERTURA Michael Mazur

Pompei: lo scavo di Civita Giuliana porta alla luce un carro cerimoniale

Il ministro della cultura Dario Franceschini continua a stupire. Appena riconfermato nel nuovo governo Draghi, eccolo baciato dalla fortuna con una nuova scoperta a nord di Pompei. Ha fatto a tempo ad annunciare l’incarico di un giovane direttore come Zuchtriegel per il Parco Archeologico e gli Dei pompeiani si sono manifestati grati a quanti operano con dedizione per la cultura italiana e in particolar modo del Meridione. «Si tratta di una scoperta di grande valore scientifico – ha commentato il ministro – Un plauso e un ringraziamento al Parco Archeologico di Pompei, alla Procura di Torre Annunziata e ai Carabinieri del nucleo Tutela Patrimonio Culturale per la collaborazione che ha scongiurato che reperti così straordinari fossero trafugati e illecitamente immessi sul mercato».

Lo straordinario rinvenimento, emerso quasi integro dallo scavo della villa suburbana in località Civita Giuliana, oltre le mura della città antica, è un grande carro cerimoniale a quattro ruote. È stato rinvenuto nel porticato antistante la stalla, dove nel 2018 erano emersi i resti di tre cavalli. Il reperto mantiene ancora, in ottimo stato di conservazione, i suoi elementi in ferro, le bellissime decorazioni in bronzo e stagno, i resti lignei mineralizzati, le impronte degli elementi organici.

«È una scoperta straordinaria per l’avanzamento della conoscenza del mondo antico. – dichiara Massimo Osanna, Direttore uscente del Parco archeologico – A Pompei sono stati ritrovati in passato veicoli per il trasporto, come quello della casa del Menandro, o i due carri rinvenuti a Villa Arianna, ma niente di simile al carro di Civita Giuliana. Si tratta infatti di un carro cerimoniale, probabilmente il Pilentum noto dalle fonti, utilizzato non per gli usi quotidiani o i trasporti agricoli, ma per accompagnare momenti festivi della comunità, parate e processioni».

Intervento del Ministro Franceschini
Gli scavi riportano alla luce il grande carro cerimoniale

IMMAGINE DI APERTURA Uno dei piccoli medaglioni in stagno che riproducono amorini impegnati in varie attività – Foto di Luigi Spina