Repubblica di San Marino: Mediterranea 19 Young Artists Biennale – School of Waters

Repubblica di San Marino 15 maggio – 31 ottobre 2021
MMEDITERRANEA 19 YOUNG ARTISTS BIENNALE
SCHOOL OF WATERS

mediterraneabiennial.org

Avviso. La situazione sanitaria è in continua evoluzione. Consigliamo di verificare le informazioni su giorni, orari e modalità di visita sul sito web della Mostra.

La Biennale del Mediterraneo, organizzata da BJCEM – Biennale des Jeunes Créateurs de l’Europe et de la Méditerranée, presenterà le opere di oltre 70 artisti provenienti da 21 nazioni diverse, per la prima volta ospitate dalla Repubblica di San Marino.

Il titolo scelto per la diciannovesima edizione è School of Waters, immaginando la Biennale come una piattaforma collettiva capace di decostruire stereotipi legati all’interpretazione eurocentrica dell’area mediterranea.

Dal 15 maggio al 31 ottobre 2021, la Repubblica di San Marino ospiterà MEDITERRANEA 19, la Biennale dei Giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo, promossa e organizzata da BJCEM – Biennale des Jeunes Créateurs de l’Europe et de la Méditerranée, Associazione Internazionale con 47 membri e partner da 16 paesi dell’Europa e del Mediterraneo, in collaborazione con la Segreteria di Stato alla Cultura della Repubblica di San Marino, gli Istituti Culturali e l’Università degli Studi della Repubblica di San Marino.

La storia della Biennale ha avuto inizio nel 1985 a Barcellona e nel corso di diciotto edizioni è stata accolta da città quali Marsiglia, Valencia, Lisbona, Sarajevo e Atene. La più recente edizione si è tenuta in Albania, a Tirana e Durazzo. Tra le istituzioni che l’hanno ospitata si ricordano anche il MACRO di Roma, il Nottingham Contemporary in Inghilterra o il Museo d’Arte Contemporanea di Salonicco in Grecia.

“È un vero onore per la Repubblica di San Marino – afferma Andrea Belluzzi, Segretario di Stato per l’Istruzione e la Cultura della Repubblica di San Marino – poter ospitare un importante manifestazione internazionale a carattere itinerante quale la Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo. Dopo oltre 50 anni il nostro territorio, da quando tra il ’56 e il ’67 organizzava la Biennale internazionale d’arte, tornerà ad essere al centro della scena culturale. È necessario incoraggiare la produzione culturale dei giovani artisti, favorire e sviluppare una dinamica culturale comune ai Paesi dell’Europa e del Mediterraneo”.

“Mediterranea 19 – prosegue Andrea Belluzzi – mette in rapporto fra loro i due maggiori orizzonti ideali di costruzione del nostro futuro politico: il progetto europeista e la sua evoluzione nel Mar Mediterraneo. E lo fa con il linguaggio universale dell’arte, come se fosse un mare anch’essa: un crocevia di culture, di creatività, di storie e di vita. Il caso ha voluto che Mediterranea 19 incrociasse l’apertura a San Marino del Centro Studi Internazionali dell’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo. Ma il caso è anche destino, e ci dice – dunque – di metterci in gioco dentro questo grande mare che ha originato la civiltà. Per trasformarlo da “mare nostrum” a “mare communia”.

“Questa Biennale – ricorda Federica Candelaresi, Direttore Esecutivo BJCEM – ha rappresentato una sfida importante per l’Associazione BJCEM. Per la prima volta, infatti, è stata interamente concepita e curata da un team curatoriale formato all’interno di un progetto promosso dell’Associazione stessa, che ha lavorato per costruire un percorso pensato per la Repubblica di San Marino, con le sue caratteristiche e specificità. Inoltre, l’Associazione ha dovuto fronteggiare la difficile situazione legata alla pandemia, ma grazie al supporto della Segreteria di Stato per l’Istruzione e Cultura, degli Istituti Culturali della Repubblica di San Marino, dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, delle fondazioni e degli enti internazionali che hanno sponsorizzato le produzioni artistiche, oltre che al grande lavoro dei curatori e degli artisti, e al supporto dei soci BJCEM, è stata in grado di costruire un evento di qualità, che contribuirà a ribadire, soprattutto in questi tempi difficili, il ruolo cruciale dell’arte e della cultura nella società contemporanea”.

MEDITERRANEA 19 Young Artists Biennale, dal titolo School of Waters, si svilupperà in diversi spazi del centro storico di San Marino, tra cui la Galleria Nazionale e altre locationcome la Prima Torre – originaria fortificazione sulla sommità del Monte Titano -, le Cisterne del Pianello – un grande spazio di origine medievale situato sotto la pavimentazione del Palazzo Pubblico, l’Antico Monastero Santa Chiara, attualmente sede dell’Università di San Marino.

La Biennale presenterà opere, istallazioni site specific, film, video, performance di oltre 70 artisti provenienti dall’area mediterranea, dall’Italia alla Tunisia, dalla Spagna al Montenegro, dalla Francia alla Giordania, da Malta al Libano, con l’obiettivo di partire dal patrimonio comune delle acque per superare i nazionalismi e riscoprire il Mediterraneo come piattaforma complessa di forme di vita e processi di conoscenza.

Il team curatoriale ha immaginato la Biennale come una scuola temporanea, ispirata da pedagogie radicali e sperimentali e dal modo in cui esse sfidano i formati artistici, curatoriali e di ricerca.

Da questo punto di vista, School of Waters funge da strumento collettivo per decostruire gli stereotipi che manipolano i nostri immaginari geografici, in particolare quelli legati all’interpretazione eurocentrica dell’area Mediterranea.

Theo Triantafyllidis, Anti-Gone (2020), mixed reality performance, variable dimensions. Courtesy the artist and Onassis Foundation

“School of Waters – sottolinea il board curatoriale di MEDITERRANEA 19 – si struttura intorno a una rivisitazione critica dell’agency materiale e simbolica delle acque, in una prospettiva geopolitica ed ecologica profonda. Il desiderio di imparare dalle acque dimostra la volontà di disinnescare i nazionalismi e riscoprire quel sincretismo acquatico che ha costituito il Mediterraneo come una piattaforma complessa di forme di vita e processi di apprendimento. Il gruppo curatoriale intende sviluppare MEDITERRANEA 19 come un’ecologia di pratiche capace di attraversare una molteplicità di spazi, in risonanza con la specificità di un piccolo stato come la Repubblica di San Marino”.

MEDITERRANEA 19 è curata da un comitato scientifico internazionale composto dai fondatori e partecipanti alla terza edizione di A Natural Oasis?, un programma di formazione e ricerca, sostenuto da BJCEM, diretto dal 2015 da Alessandro Castiglioni e Simone Frangi, e aperto a curatori, artisti e ricercatori culturali under 34.

Oltre a Castiglioni e Frangi (Senior Curators), il board curatoriale della Biennale è composto da: Theodoulos Polyviou (Cipro/UK), Denise Araouzou (Cipro/Italia), Panos Giannikopoulos (Grecia), Angeliki Tzortzakaki (Grecia/Olanda), Nicolas Vamvouklis (Grecia/Italia), Giulia Gregnanin (San Marino/UK), Giulia Colletti (Italia/UK).

La Biennale sarà inaugurata al pubblico venerdì 14 maggio 2021, alla presenza delle Istituzioni coinvolte e di una rappresentanza di artisti, soci BJCEM e curatori. Il programma, che si svilupperà in tutta la settimana successiva, includerà anche talk, performance e screening disponibili online attraverso dirette streaming. Un secondo appuntamento, maggiormente incentrato sulle arti performative, si terrà a luglio 2021.

Durante l’opening verrà presentato un volume di ricerca dedicato a School of Waters, edito da Archive Books, Berlino.

Elenco partecipanti:

Noor Abed (Palestina), Adrian Abela (Malta), Noor Abuarafeh (Egitto), ALTALENA (Italia), Marco Antelmi (Italia), Panos Aprahamian (Libano), Bora Baboci (Albania), Riccardo Badano & Hannah Rullman (Italia), Hanan Benammar (Norvegia/Algeria), Yesmine Benkhelil (Tunisia), Maeve Brennan (UK), Johanna Bruckner (Austria), Dante Buu (Montenegro), Madison Bycroft (Francia), Annalisa Cannito (Italia) in collaborazione con Wendimagegn Belete (Etiopia, Norvegia), Valerio Conti (San Marino), Selin Davasse (Turchia), Binta Diaw (Italia), Adji Dieye (Italia), Enar de Dios Rodríguez (Austria), Caterina De Nicola (Italia), Marianne Fahmy (Egitto), Alessandra Ferrini (Italia), Enrico Floriddia (Italia), Victor Fotso Nyie (Italia), Haris Giannouras (Grecia), Marco Giordano (Italia), Adrijana Gvozdenović (Montenegro), Bianca Hisse (Norvegia), Areej Huniti & Eliza Goldox (Giordania), KABUL MAGAZINE (Italia), Valentina Karga (Grecia), Dalia Khalife (Libano), Ru Kim (Francia), Gašper Kunšič (Slovenia), Sotiris Tsiganos & Ionian Bisai (Grecia), Vesna Liponik (Slovenia), DDC – Design di Comunità (Università di San Marino), Filippo Marzocchi (Italia), Corinne Mazzoli (Italia), Dina Mimi (Palestina), Tawfik Naas (UK), Eleni Odysseos (Cipro), Francis Offman (Italia), Mila Panić (Bosnia & Herzegovina), Eva Papamargariti (Grecia), GianMarco Porru (Italia), Gabriele Rendina Cattani (Italia), Jacopo Rinaldi (Italia), Virginia Russolo (Italia), Pablo Sandoval (Spagna), Michele Seffino (Italia), Selma Selman (Bosnia & Herzegovina), Vanja Smiljanić (Serbia), Alcaeus Spyrou (Albania), Chara Stergiou (Grecia), Valinia Svoronou (Grecia), Theo Triantafyllidis (Grecia), Endi Tupja (Albania), Sophie Utikal (Austria), Marina Xenofontos (Cipro).

Il Network BJCEM

L’Associazione Internazionale BJCEM – Biennale des jeunes créateurs de l’Europe et de la Méditerranée, è un network internazionale fondato a Sarajevo nel luglio 2001, composto da 47 membri e partner da 16 paesi dell’Europa e del Mediterraneo. L’Associazione ha sede a Bruxelles e un ufficio esecutivo a Torino, presso il Cortile del Maglio. Il network comprende organizzazioni della società civile, autorità locali, regionali e nazionali dell’area Europea e Mediterranea ed è inoltre membro dell’Anna Lindh Foundation e di Culture Action Europe.

BJCEM, con il suo lavoro, promuove e valorizza il dialogo interculturale, la ricerca artistica contemporanea nei diversi linguaggi espressivi; offre sostegno alla creatività giovanile, alla mobilità e all’incontro tra i giovani artisti delle diverse Rive del Mediterraneo. BJCEM difende energicamente il ruolo che l’arte e la cultura possono svolgere nella società, permettendo di scoprire e apprendere i valori di culture diverse arricchendo la propria. L’arte è uno strumento che può essere usato per superare i confini e i conflitti e non richiede che si parli la stessa lingua perché il suo è un linguaggio universale.

La Repubblica di San Marino partecipa alla Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo dal 1992, proponendo i suoi artisti e realizzando all’interno del netwok BJCEM numerosi progetti transnazionali, come Sanmarinosarajevo 2001 . 2002, /ti’tano/ nel 2012 e a partire dal 2014 le due prime edizioni di A Natural Oasis?

Gli Istituti Culturali di San Marino sono costituiti dall’Archivio di Stato, dalla Biblioteca Nazionale e Beni Librari, dalla Sezione Arti Performative e dai Musei di Stato (Museo di Stato, Pinacoteca di San Francesco, Museo delle Armi Antiche e Galleria Nazionale).

La Galleria Nazionale di San Marino è stata inaugurata il 7 luglio 2018, in occasione del 10° Anniversario dell’iscrizione di San Marino nell’albo UNESCO dei siti Patrimonio Mondiale dell’Umanità e si concentra sulle arti visive internazionali e sammarinesi dal Secondo Dopoguerra ai giorni nostri.

L’Università degli Studi di San Marino, istituita nel 1985 da una proposta di Umberto Eco e Renato Zangheri, annovera oggi tre Dipartimenti, due dottorati di ricerca, numerosi master e corsi di alta formazione e quattro corsi di laurea: Digital Media, Ingegneria Gestionale, Ingegneria Civile e infine Design. Catalogo Archive Books

IMMAGINE DI APERTURA – Selma Selman, Superposition (2018), live performance, 3 rounds of boxing each, 3’00’’. Studio Tommaseo, Trieste, Italy. Ph by Fabrizio Giraldi

Con lo “Stile Secessione” in tre mosse Vienna fa scacco all’Europa

di Sergio Bertolami

14 – L’arte nuova della Secessione viennese.

La Wiener Secession fu istituita il 3 aprile del 1897. Il nome di Secessione viennese sintetizza quello ufficiale di Vereinigung bildender Künstler Österreichs (V. b. K. Ö.), ovvero Associazione degli artisti figurativi austriaci. La rivoluzione culturale della Secessione varcò, dunque, i confini tedeschi e si estese in Austria. In quest’epoca a Vienna, capitale dell’impero austro-ungarico, era presente un’impressionante concentrazione di geni. Stavano già dando vita al cambiamento un medico come Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, scrittori come Robert Musil o Karl Kraus, un filosofo della scienza come Ernst Mach, un compositore come Gustav Mahler, che bene sintetizzava la varietà di popoli ed etnie dell’Impero, quando di sé diceva «Sono un boemo tra gli austriaci, un austriaco tra i tedeschi e un ebreo tra i popoli di tutto il mondo». Pare scontato ripetere che anche qui artisti e architetti – come Gustav Klimt, Kolomon Moser, Otto Wagner, Josef Hoffman, Joseph Maria Olbrich – manifestarono il loro rifiuto contro l’accademismo, il gusto storicista, il naturalismo borghese. Si potrebbe aggiungere che i rapporti tra i giovani artisti e le pubbliche istituzioni s’inasprirono quando Eugen Felix, difensore accanito del classicismo, fu eletto presidente della Künstlerhaus (la Casa degli artisti). Fu allora che Gustav Klimt e un gruppo di altri progressisti lasciarono la Genossenschaft der bildenden Künstler Wiens, la Cooperativa di artisti visivi interna alla Künstlerhaus. Si mossero, come una marea, per riunire intorno a loro simbolisti, modernisti, naturalisti, stilisti. L’affermato maestro Rudolf Alt, ottantacinquenne, fu eletto presidente onorario e Gustav Klimt presidente operativo. Anche molti accademici componevano la schiera: Myslbek, Hellmer, Julian Falat, Hynais. Tra i giovani si distinguevano Engelhart e Moll in particolare, Bernatzik, Bacher, Krämer, Knüpfer, Mayreder, Ottenfeld, Stöhr, Jettel, Delug e tanti altri. Non solo viennesi, perché fra gli oltre quaranta fondatori troviamo i componenti della Nuova Monaco e della Nuova Berlino: Stuck, Marr, Herterich, Dettmann, Kuehl, Dill. E non solo tedeschi, perché fra i “membri corrispondenti stranieri”, troviamo il belga Fernand Khnopff, l’olandese Jan Toorop, lo svizzero Ferdinand Hodler, il tedesco Max Klinger.

Gustav Klimt a 25 anni, in una foto del 1887

Dire che l’interesse centrale della Secessione viennese puntava alla Gesamtkunstwerk può far capire quale fosse l’elemento artistico attraverso cui promuovere il rinnovamento. Gesamtkunstwerk, cioè l’opera d’arte totale, era un termine non del tutto nuovo per l’epoca. Lo aveva usato nel 1827 il filosofo K. F. E. Trahndorff e poi ancora lo aveva inserito nel suo saggio Arte e rivoluzione, del 1849, anche Richard Wagner. Ora, tuttavia, la fusione idealizzata delle varie arti (pittura+scultura+architettura+musica+letteratura) sembrava la via assoluta. Era la risposta, attraverso l’esperienza estetica, alle mille sfaccettature sociali, era il sogno di una unitarietà più teorica che reale. Ma non tutti i partecipanti alla Secessione condivisero la medesima utopia, cosicché la contrapposizione tra gli stilisten (sostenitori dell’unione tra arte e arti applicate) e i naturalisten (solo pittori) divenne presto la causa di una disputa che giunse al culmine nel 1905, quando il gruppo di Klimt lascerà la Secessione, che tuttavia continuerà a operare, ma senza più la giusta spinta innovativa. La storia di queste contese su questioni artistiche, sollevate giorno dopo giorno – attacchi e difese, trattative diplomatiche, accordi e ancora dissensi – mette in luce che l’arte non è fatta (come qualcuno sembra credere) solamente di eventi sociali e recensioni aspre o idilliache. Chi racconta questa storia dal vivo, e in modo dettagliato, è Ludwig Hevesi, critico d’arte ungherese ed anche lui tra i fondatori del movimento. Raccolse in un libro i saggi scritti durante gli anni di lotta e li espose in un ordine così selettivo e cronologico da farne una cronaca completa della Secessione di Vienna. Il libro s’intitola Acht jahre Sezession – Otto anni di Secessione (Vienna, 1906). È bene soffermarsi almeno sui capitoli iniziali, che restituiscono distintamente come l’organizzazione rigorosa del movimento sia stata capace di capovolgere le concezioni stantie che impregnavano la cultura austriaca del tempo, per avviare una innovativa visione dell’arte nell’intera Europa. Hevesi su Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894) aveva già prefigurato e definito per la prima volta il movimento con il termine Neukunst. Termine che presto s’imporrà nei paesi di lingua francese come Art nouveau.

Ludwig Hevesi, Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894)

Scriveva il critico d’arte a favore dei secessionisti: «Era un gruppo di giovani artisti dal sangue forte e moderno, le cui energie hanno portato a far fluire questo movimento, il più radicale di Vienna […] Avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa come l’Associazione degli undici a Berlino, con le sue mostre nella galleria Schulte, o una cosiddetta Secessione come a Monaco, Parigi e altre città d’arte». Mettendo in risalto il vero spirito del gruppo, aggiungeva: «Questi coraggiosi giovani viennesi sono allo stesso tempo dei combattenti equilibrati. Non vogliono essere dei frondeurs (ribelli), né Wassergeusen (pirati a fianco dei poveri), e non vogliono intraprendere una guerriglia contro l’Accademia e la Casa degli artisti. Non sono stati solleticati dalla voglia d’ingannare il “vecchio”. Non vogliono infastidire nessuno, nemmeno strimpellare sé stessi, vogliono soltanto provare a portare la decrepita arte austriaca (e non solo viennese) a livello internazionale». Hevesi faceva emergere a chiare lettere l’insoddisfazione dei giovani verso il conservatorismo, non verso l’arte vera, e la loro fermezza nell’attuare le proprie aspirazioni. «Il V. b. K. Ö. è, invece, una società che lotta, perché vuole combattere la confusione nell’arte. Ma non lo farà attraverso polemiche spettacolari, ma attraverso il perseguimento di scopi puramente artistici, educando gli occhi delle masse a comprendere il vivace sviluppo progressivo dell’arte».

Ludwig Hevesi, Acht jahre Sezession – Otto anni di Secessione (Vienna, 1906)

Sostenuto da un numero notevole di patrocinatori, morali e finanziari, il movimento prese avvio e in sole tre mosse fece scacco all’Europa, imponendo il Sezessionstil (lo Stile Secessione) in Austria e non solo. Da ora in poi tutti (ma proprio tutti) lo riconosceranno e ciascuno gli attribuirà un proprio nome: Art nouveau in Francia e Belgio, Nieuwe Kunst nei Paesi Bassi, Jugendstil in Germania, Modern style o Studio Style in Gran Bretagna, Modern in Russia, Arte jóven o più spesso Modernismo in Spagna, Style sapin in Svizzera, Secesja in Polonia, Serbia e Croazia, Liberty in Italia. Ma i nomi non finiscono qui, perché sarà possibile imbattersi in appellativi attinenti ai caratteri formali come Wellen-stil (stile onda) Lilienstil (stile giglio), Schnörkestil (stile spirale) Style coup de fouet (stile colpo di frusta) Paling styl (stile anguilla).

La scritta all’ingresso del Palazzo della Secessione dice: “A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà

Quali furono le tre mosse portate con perizia sulla scacchiera dell’arte? In ordine cronologico: prima mossa, edificare una sede per le esposizioni che avrebbe accolto a Vienna protagonisti e movimenti artistici europei; seconda mossa, pubblicare una rivista rivoluzionaria nella grafica e nei contenuti; terza mossa, allestire la prima mostra ufficiale del gruppo come una rassegna internazionale.

Il Palazzo della Secessione a Vienna.

Il Palazzo della Secessione fu il manifesto architettonico della Secessione viennese. La rivista Ver Sacrum fu il manifesto scritto. La mostra fu l’abbrivo del rinnovamento delle arti figurative. Al centro c’era sempre Gustav Klimt. È lui che schizzò il volume di un cubo bianchissimo, partendo dal quale il giovane architetto Joseph Maria Olbrich avrebbe realizzato il progetto del Wiener Lokalnachricht (Messaggio viennese). Un’architettura che esprimeva di per sé stessa il messaggio della nuova arte. «È una parola magica che spezzerà le catene e animerà i morti. Si prospetta un’espansione della città nel campo delle belle arti; Vienna città dell’arte, questa immensa città dovrebbe finalmente diventare una Grande Vienna, una vera Nuova Vienna […] Il focolare, dalla fiamma appena accesa, ovviamente dovrà essere, come a Monaco, un edificio espositivo separato. Una nuova casa d’artista, libera. Da lì si potrà conquistare l’Accademia stessa, sempre come a Monaco, e lì ci si potrà finalmente riunire in una galleria d’arte moderna, un “Musée du Luxembourg” viennese». Sull’area di oltre 1200 mq, approvata dal Comune, la Secessione realizzò un palazzo d’arte di circa 650 mq. Progettato su di un maestoso piano rialzato, con uno spettacolare lucernario a cupola, simile alla chioma di un albero, un perimetro murario senza finestre, in modo tale che le pareti esterne, ricoperte di affreschi e decorazioni, facessero guadagnare a Vienna un nuovo ornamento architettonico. Il motto posto sulla trabeazione dell’ingresso, che affermava “A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà” (Der Zeit ihre Kunst / der Kunst ihre Freiheit), fu suggerito proprio da Ludwig Hevesi.

Julius Victor Berger, Giovane donna al mercato Nasch, 1901. Sullo sfondo il Palazzo della Secessione

La rivista Ver Sacrum. Sulla copertina nel primo numero venne riproposta la figura dell’albero. La traduzione dal latino di Ver Sacrum è Primavera sacra e fa riferimento a un antichissimo rito, che nell’antica Roma si faceva in onore degli Dei. Consacrava a loro tutti i nati della nuova primavera: vegetali, animali e persino esseri umani. I neonati non erano sacrificati, ma solo promessi alla divinità. Una volta divenuti adulti, erano banditi dai confini della comunità, con lo scopo di fondare nuove città in nuove terre. Il nome scelto dalla Secessione per la testata della rivista, faceva probabilmente riferimento all’omonima poesia di Ludwig Uhland, nella quale si decantava la “sorgente della consacrazione” romana e si concludeva con la strofa: «Hai sentito ciò che piace a Dio. Vai lì, preparati, obbedisci in silenzio / Sei il seme di un nuovo mondo, questa è la consacrazione che Lui vuole».

Nel dare uno sguardo al primo numero della nuova rivista d’arte, Ludwig Hevesi commentava: «Alfred Roller, che ha ideato una specie di busta, ha fatto un ottimo lavoro per i suoi compagni. Anche la sua immagine simbolica in copertina è piuttosto impressionante: questo forte albero da frutto, le cui radici spezzano le doghe del vaso e lottano tra di loro attraverso la terra creata dal buon Dio». Hevesi sottolineava come l’artista grafico avesse realizzato il proprio lavoro editoriale con una concezione all’avanguardia del layout. Lo si capiva già dal formato quadrato, dalla carta telata della copertina, che la faceva assomigliare proprio ad una busta da lettere con la quale indirizzare un “messaggio”. Lo si capiva dal tono ocra chiaro del fondo, dalla stessa stampa rossa e nera, decisa e vitale, e dai caratteri utilizzati. E all’interno, lo si capiva dai pieni e vuoti di ogni singola pagina che, riproponendo i cosiddetti “blocchi giapponesi”, tanto influenzeranno lo stile bidimensionale della Secessione. Nel panorama della stampa dell’epoca il design di Ver Sacrum divenne un eccellente modello di arte grafica da riprendere e riproporre. Sfogliando le pagine, nell’articolo di presentazione si commentavano le motivazioni dei contenuti. “Perché pubblichiamo una rivista”. Risposta lineare: «Questa rivista dovrebbe […] essere un appello al senso dell’arte delle persone, per stimolare, promuovere e diffondere la vita e l’indipendenza artistica». L’arte doveva essere, dunque, una parte indispensabile della vita; per questo motivo la rivista stessa era concepita come un’opera d’arte totale, attraverso l’interazione fra letteratura, arti visive e musica, i cui temi erano toccati da articoli teorici o esplicativi, corredati da opere d’arte, grafiche originali e decorazioni, disegnate dai membri della Secessione.

Planimetria della Prima mostra della Secessione viennese nei locali della Gartenbaugesellschaft

La prima mostra della Secessione. È su Ver Sacrum che si poterono leggere le idee guida. Non fu certo l’ennesima esposizione che raccoglieva le mediocrità di massa, ma «un’esibizione d’élite di opere d’arte specificamente moderne». Aveva richiesto oltre un anno d’intensa programmazione. Gli organizzatori, da subito, si erano posti l’obiettivo di portare a Vienna per la mostra d’apertura la produzione migliore del panorama artistico internazionale. Il giovane pittore Josef Engelhart rimandò largamente i propri impegni di lavoro per apprestare con grande energia l’evento. Viaggiò in mezza Europa – Inghilterra, Francia, Belgio, Germania – sviluppando contatti diretti con i maggiori artisti e galleristi, così da convincerli ad inviare le proprie opere alla mostra in allestimento.

Per l’occasione Klimt disegnò la copertina del catalogo e il manifesto, ma dovette fare un passo indietro e censurare il disegno proposto. Come molte correnti del tempo, anche la Wiener Secession avvertiva l’ascendente del Simbolismo. Il manifesto raffigurava Teseo che uccide il Minotauro, sotto lo sguardo tutelare della dea Atena. Gli Dei reclamavano che la “consacrata primavera” degli artisti mettesse fine al tradizionalismo. Tuttavia, la nudità esplicita dell’eroe mitologico venne giudicata oscena e Klimt fu costretto a censurarla, ponendo in primo piano una serie di tronchi e rami stilizzati. Un sacrificio, tutto sommato compensato dal trionfo della manifestazione, che, nel giorno inaugurale, poté contare sul sostegno morale rappresentato dalla visita dell’imperatore Francesco Giuseppe e del sindaco Karl Lueger. La rassegna fu aperta a Vienna il 26 marzo 1898 nei locali della Gartenbaugesellschaft, la Società orticola. Il prestigioso palazzo della Secessione non era ancora stato iniziato: superate le pratiche di rito, la costruzione fu avviata dopo appena un mese, il 28 aprile. La prima edizione si chiuse a giugno con risultati più che soddisfacenti. L’esposizione fu visitata da 57.000 persone, furono vendute ben 218 opere e la stampa si mostrò, nella maggior parte dei casi, favorevole. A partire dalla seconda edizione, aperta solo cinque mesi dopo, il 12 novembre, le manifestazioni saranno ospitate nella sede ufficiale appena ultimata. Riguardo all’esposizione iniziale, Hevesi annotava entusiasta: «Non c’è mai stata una mostra come questa a Vienna. Una rassegna che esibisce effettivamente la vita artistica di oggi, il grande sviluppo internazionale dell’arte moderna con una lunga serie dei suoi capolavori più particolari. Non prestiti dei musei, per metà antiquati , ma frutti del presente, raccolti ogni anno nelle città d’arte occidentali, mentre ne leggiamo sui giornali».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Autori Vari – Ai tempi del virus. Quando la nostra vita non fu più quella

 

Trentasei firme – giornalisti, ma non solo – per provare a raccontare il Covid-19 oltre le cifre e le proiezioni statistiche. Un libro collettivo nato dalla voglia di osservare dalle angolazioni più disparate il virus che ha stravolto le nostre vite, facendo carta straccia di tante facili certezze sulle magnifiche sorti e progressive delle società.  L’umanità sta vivendo una tragedia planetaria. I sogni, o meglio gli incubi, da settimane son fatti in apparenza della stessa materia: la paura della morte, della malattia, lo spettro delle povertà. Così resterà scritto sui libri di Storia. Oltre alla Storia, però, ci sono le storie, mai uguali l’una all’altra. Questo libro racconta storie. Frammenti di fantasia, pensieri, previsioni, esperienze, desideri, fughe dal reale.

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di mohamed Hassan da Pixabay 

Imma Forino – L’interno nell’interno: Una fenomenologia dell’arredamento

(From the cover) “Se oggi la maggiore occasione professionale per gli architetti, specie se giovani, è quella di «ristrutturare» case ed uffici, ossia progettare arredamenti, il libro della Forino ne propone una chiave di lettura del tutto originale nell’ambito della letteratura architettonica. Non si tratta beninteso di un manuale, perché l’autrice traccia un sottile excursus storico-critico di un fenomeno particolare dell’arredamento, che supera l’ormai tradizionale modo di fare degli architetti-arredatori. Questi si limitano per lo più a modellare pareti, scegliere materiali e colori, aggiungere alcuni mobili e altro, mentre gli interventi più ambiziosi mirano ad articolare lo spazio interno su più livelli, con un esito chiaramente scenografico nel migliore dei casi. Viceversa, quanto si espone in questo libro consiste nel privilegiare la spazialità propria dell’architettura, quella che si lega al binomio invaso-involucro, proponendola anche nella elaborazione di un ambiente interno. Ecco allora come uno spazio arredato perde ogni aspetto rappresentativo, ogni forma di scenografia, ogni sorta di decorazione e di trompe l’oeil, per tradursi in una composizione conformativa, in qualcosa cioè che «conforma» l’invaso spaziale, obiettivo che si raggiunge attraverso la categoria – che è anche un modo di formare – di un «interno nell’interno». Il saggio, oltre ad interessare operativamente gli addetti ai lavori, risulta di notevole utilità anche per gli storici della disciplina. Lo schema suddetto non è infatti rapportato esclusivamente alle tipologie del domestico, ma anche ad altre relative agli ambienti del passato; il tutto seguendo una rigorosa cronologia, della quale notoriamente si sostanzia la storia”.

CONTINUA A LEGGERE SU ACADEMIA.EDU (OPPURE SCARICA IL SAGGIO): I. Forino, L’interno nell’interno: Una fenomenologia dell’arredamento. Firenze: Alinea, 2001, pp. 180. (pre-print version)

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica tratta dalla copertina del volume

Verona – Tra Dante e Shakespeare. Il mito di Verona

07 Maggio 2021 – 03 Ottobre 2021
Verona, Galleria d’Arte Moderna A. Forti, Museo di Castelvecchio, altre sedi
TRA DANTE E SHAKESPEARE. Il mito di Verona
Mostra a cura di Francesca Rossi, Tiziana Franco, Fausta Piccoli
www.danteaverona.it gam.comune.verona.it

Avviso. La situazione sanitaria è in continua evoluzione. Consigliamo di verificare le informazioni su giorni, orari e modalità di visita.

Leopoldo Toniolo, Dante visita Giotto nella Cappella degli Scrovegni 1865 circa olio su tela; 75,6 × 99,3 cm Padova, Museo d’Arte Medievale e Moderna

Prenderà avvio il 7 maggio prossimo alla Galleria d’Arte Moderna Achille Forti la mostra Tra Dante e Shakespeare: il mito di Verona. Realizzata dal Comune di Verona – Assessorato alla Cultura – Musei Civici, nell’ambito del progetto Verona, Dante e la sua eredità 1321-2021 promosso dal Protocollo d’Intesa interistituzionale, con il patrocinio e il contributo del Comitato Nazionale per la celebrazione dei 700 anni dalla morte di Dante Alighieri.

L’esposizione costituisce uno dei fulcri dell’articolata mostra diffusa appositamente ideata per le celebrazioni del centenario del 2021, che prevede il duplice omaggio al Poeta e alla città di Verona, che gli diede “lo primo tuo refugio e ’l primo ostello” (Paradiso, XVII, 70).
La città scaligera, infatti, non è semplicemente lo sfondo della vicenda dantesca, ma ne diventa essa stessa protagonista. Questa specificità, che la caratterizza rispetto alle altre città dantesche, viene valorizzata attraverso un itinerario cittadino che, tramite l’ausilio di una mappa cartacea appositamente realizzata, porta il visitatore alla riscoperta di ventun luoghi – tra piazze, palazzi, chiese, emergenze monumentali in città e nel territorio – direttamente legati alla presenza del Poeta, dei suoi figli ed eredi, e a quelli di tradizione dantesca.

L’esposizione presso la Galleria d’ Arte Moderna costituisce un omaggio all’esilio veronese di Dante e al legame tra Verona e il Poeta che, nel corso dei secoli, continuò ad alimentarsi dando origine a una ricca produzione artistica.
Il progetto espositivo prevede una selezione di oltre 100 opere tra dipinti, sculture, opere su carta, tessuti e testimonianze materiali dell’epoca scaligera, codici manoscritti, incunaboli e volumi a stampa in originale e in formato digitale provenienti dalle collezioni civiche, dalle biblioteche cittadine, da biblioteche e musei italiani ed esteri.

La mostra copre un arco cronologico compreso tra Trecento e Ottocento e si sviluppa in due nuclei tematici principali: il primo intende ricostruire il rapporto tra Dante, Verona e il territorio veneto nel primo Trecento, mentre il secondo si concentra sul revival ottocentesco di un medioevo ideale tra Verona e il Veneto.

Se in apertura la mostra rievoca il leggendario e presunto incontro tra Giotto e Dante a Padova e consente di ripercorrere la cultura artistica scaligera nel grande snodo della rivoluzione giottesca, il percorso espositivo prosegue poi nell’affascinante racconto del profondo legame che unì Dante e Cangrande della Scala, al quale il poeta dedicò il Paradiso. Le ricche testimonianze legate alla figura dello Scaligero delineano il contesto in cui Dante trascorse gli anni dell’esilio fino alla creazione del suo Poema. Testi decorati della Commedia, manoscritti e a stampa, accompagnano i visitatori dall’epoca di Dante alla fine del Settecento, attestando la costante attenzione che Verona e il Veneto rivolsero al Poeta e alla sua Opera.

Tra le opere in mostra, da non perdere i tre disegni di Botticelli, prestigioso prestito del Kupferstichkabinett, Berlino. In particolare, Dante e Beatrice. Paradiso II, è stato scelto come immagine coordinata della mostra diffusa, che sviluppa graficamente il tema dell’itinerario dantesco nel Paradiso e lo traduce nel cammino del Poeta, guidato da Beatrice, lungo le strade di Verona, alla scoperta dei luoghi legati alla sua memoria.

Il secondo nucleo tematico sviluppa la riscoperta del mito di Dante nella grande stagione ottocentesca, come incarnazione dei nascenti ideali risorgimentali e allo stesso tempo esempio del tormento creativo del Poeta esiliato.
È a questo punto del percorso espositivo che il visitatore potrà ammirare la fortuna iconografica dei personaggi danteschi, a partire da Beatrice e Gaddo, ma anche di altre figure femminili e delle tragiche vicende, legate al tema dell’amore e degli amanti sfortunati, di Pia de’ Tolomei e Paolo e Francesca. Proprio quest’ultimo tema introduce il mito di Giulietta e Romeo, giovani innamorati nati dalla penna di Luigi da Porto nel Cinquecento e resi celebri da William Shakespeare in tutto il mondo.

Attraverso questo percorso si potrà cogliere il costituirsi dell’identità della Verona ottocentesca, che da un lato si alimenta della presenza storica e reale di Dante alla corte di Cangrande, dall’altro di quella immaginaria di Romeo e Giulietta, creati anch’essi nella cornice di un Trecento scaligero.
I due percorsi tematici, reale quello dantesco e immaginario quello shakespeariano, entrambi sullo sfondo – ancora reale e immaginario – di un medioevo scaligero, definiscono un tratto saliente della fisionomia urbana e culturale di Verona, ancor oggi ben riconoscibile: per questa ragione l’esposizione si lega in modo imprescindibile alla “mostra diffusa” che è la città stessa, nei monumenti e nelle testimonianze urbanistiche e architettoniche legate alla memoria di Dante e di Romeo e Giulietta.

Informazioni generali: Comune di Verona Galleria d’Arte Moderna Achille Forti -Palazzo della Ragione Cortile Mercato Vecchio 6 – Verona Tel. 045 8001903

IMMAGINE DI APERTURAPaolo e Francesca nel vortice infernale Ph. Fulvio Rosso, Calice Ligure (Particolare).

René Magritte, Il tradimento delle immagini (Questa non è una pipa), 1929

La Trahison des images (Il tradimento delle immagini) del 1929 è uno dei dipinti più famosi di René Magritte, diventato un’icona della cultura popolare. Fa parte delle collezioni del Los Angeles County Museum of Art (LACMA), acquistato con i fondi forniti dalla Mr. and Mrs. William Preston Harrison Collection. In Europa si può ammirare anche al Museum of Modern Art di Bruxelles. Raffigura una pipa, accompagnata da una didascalia con un carattere corsivo manierato: Ceci n’est pas une pipe, Questa non è una pipa. Se non è una pipa, cos’è? Domanderemmo noi nell’osservare il quadro. In questo consiste il carattere surrealista di Magritte, il quale risponde soavemente: «La famosa pipa! Come me lo rimproveravano le persone! Eppure, potresti riempire la mia pipa? No, è solo una rappresentazione, non è vero? Quindi se avessi scritto sulla mia immagine “Questa è una pipa”, avrei mentito!». Se è per questo la pipa raffigurata non si può neppure prendere in mano. Questo è il tradimento delle immagini, a cui si riferisce l’autore. Esiste una grande differenza tra gli oggetti reali e la loro rappresentazione pittorica. Questa dualità è stata evidenziata dallo stesso Magritte, che ha ribadito ai suoi interlocutori: «Chi oserebbe pretendere che l’immagine di una pipa sia una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi, non è una pipa». Ai più, non avvezzi alla filosofia, potrebbe sembrare un discorso ozioso e paradossale. «Ma non vedo niente di paradossale in quest’immagine, giacché l’immagine di una pipa non è una pipa, c’è una differenza», ribatte ancora lo stesso Magritte.

Il dipinto, in effetti, è un messaggio che attraverso le immagini serve a Magritte per evidenziare che, se fosse stata dipinta in un modo ancora più realistico la pipa raffigurata non sarebbe comunque una pipa, ma resterebbe sempre l’immagine di una pipa. Solo due anni dopo, nel 1931, Alfred Korzybski, in un incontro a New Orleans, espresse il medesimo concetto attraverso un altro lampante esempio: «La mappa non è il territorio», per dimostrare proprio la differenza tra un oggetto e la rappresentazione dell’oggetto. Questo vale anche per la parola, e aggiungeva: «la parola non è la cosa». L’insegnamento che si può trarre, in modo più profondo, riguarda l’impossibilità di conoscere pienamente la realtà delle cose affidandosi solo alla teoria, per quanto sia espressa nel modo più meticoloso. Anzi, una maggiore definizione delle cose serve unicamente a complicarle, e questo accade anche nel caso contrario, quando si cerca di semplificarle al massimo. Scriveva Paul Valery: «Il semplice è sempre falso, ciò che non lo è, è inutilizzabile». Cosa bisogna fare? Ciascuno dovrà trarre le giuste conclusioni che desidera riguardo alla questione generale della realtà delle cose. Per quanto concerne Magritte, il suo impegno ha interessato una ricerca rappresentata in diverse opere realizzate fra il 1926 al 1966. La serie inizia con La Clef des songes (La chiave dei sogni) e termina con una mise en abyme de La Trahison des images, dove nella nuova opera le pipe diventano due, Les deux mystères (I due misteri).

Storia della serie

Nel 1926 René Magritte aveva iniziato a considerare il rapporto tra la parola e la sua rappresentazione, che ha come punto di partenza una pipa. Il disegno racchiudeva l’idea di pipa, la sua rappresentazione e la frase con la parola pipa.

Nel 1927, La Clé des songes riproduce quattro riquadri, in ognuno dei quali pone la rappresentazione di un oggetto e una parola che lo definisce. Per tre volte su quattro, non esiste alcun collegamento tra l’oggetto e la parola. Solo il quarto oggetto è identificato correttamente.




Nel 1928 Magritte prosegue questa ricerca con The Living Mirror (Lo specchio vivente). Chiazze chiare su fondo scuro, contengono le seguenti parole: personaggio che scoppia di risate, orizzonte, armadio, grida di uccelli. La rappresentazione non esiste più, per “riflettere” la realtà, come uno specchio, l’artista usa soltanto le parole.

Nel 1929 Magritte completò la dimostrazione con La Trahison des images, esattamente il dipinto emblematico della pipa, di cui produsse diverse versioni.

Nel 1930 Magritte riprende anche il tema de La Clé des songes: la tela viene ripartita in sei riquadri, nei quali sono rappresentati degli oggetti erroneamente identificati.

Nel 1966 Magritte compone l’ultimo elaborato della serie: Les deux mystères. Rappresenta un cavalletto su cui è posto il dipinto del 1929 Il tradimento delle immagini, mentre in alto fluttua una seconda pipa. Dovrebbe forse essere il modello della pipa riprodotta nel dipinto? Di sicuro somiglia in quanto a forma, ma non ha colore. Sembra essere una rappresentazione neutra di una pipa, un oggetto tridimensionale privo di sfumature e ombre, mentre la pipa “dipinta nel dipinto” è raffigurata in maniera concreta, con l’evidente intenzione di rendere la percezione più “realistica”. La domanda che l’artista pone è questa: quale è la pipa e quale è soltanto una rappresentazione della pipa? A noi osservatori la risposta.

La dimostrazione di Alfred Korzybski

Forse questo aneddoto ci aiuterà a rispondere meglio al quesito posto da René Magritte. Un giorno, durante una lezione Korzybski s’interruppe per prendere dalla sua borsa un pacchetto di biscotti arrotolato in un foglio bianco. Spiegò di avere bisogno di un attimo di pausa e offrì i biscotti anche agli studenti che lo stavano ascoltando. Alcuni accettarono. «Buoni questi biscotti, vero?», disse Korzybski, mentre ne prendeva ancora un altro. Gli studenti concordarono. Poi il professore liberò il pacchetto di biscotti dalla carta che lo avvolgeva. Sul pacchetto compariva l’immagine di una testa di cane e la scritta “biscotti per cani”. Tutti gli studenti alla vista rimasero sconcertati. Due fra loro si precipitarono in bagno. «Vedete signori e signore?», commentò Korzybski «abbiamo appena dimostrato che le persone non mangiano solo il cibo, ma anche le parole. C’è di più: il sapore del cibo è spesso influenzato dal sapore delle parole». La sua prova puntava a dimostrare come certe problematiche siano spesso il prodotto di una evidente confusione fra la rappresentazione linguistica della realtà e la realtà stessa, ovvero fra quanto è scritto e quanto è vero. Per cui anche Magritte dimostra la necessità di non fermarsi alle sole parole, ma ricercare l’oggettività delle cose.

I Pocast del prof. Luigi Gaudio – Introduzione sui crepuscolar‪i‬

Introduzione sui crepuscolar‪i‬

Luigi Gaudio è un Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo di Belgioioso (PV) e ha insegnato Lettere presso il Liceo Vico di Corsico (MI). Se però cercate di lui sul web troverete anche che è un professore molto seguito dai suoi studenti, fra le mura scolastiche e sui media che le tecnologie informatiche mettono a disposizione. Così potrete scoprire che Luigi Gaudio è anche l’apprezzato webmaster di vari siti, fra i quali troverete www.atuttascuola.it ricchissimo di pagine, per la condivisione in rete di articoli, tesine e lezioni. Non basta, perché ha aperto un canale su YouTube contenente video didattici seguito da più di venticinquemila iscritti. Questo è l’indirizzo: www.youtube.com/luigigaudio. Troverete anche centinaia di podcast istruttivi su svariati argomenti di letteratura, storia, geografia, musica e tanto altro ancora, disponibili su Spreaker, Spotify, iTunes, e vari aggregatori di audio ed Mp3. Noi vorremmo seguirlo, pescando qua e là alcune delle oltre 220 lezioni di letteratura del Novecento, sia italiana che straniera. Siamo sicuri che molti dei lettori di Experiences rimarranno ad ascoltare con grande interesse il professore Gaudio, per conoscere finalmente autori spesso citati, ma sicuramente non tutti letti.

IMMAGINE DI APERTURA di chiplanay da Pixabay 

Piacenza – La Madonna Sistina di Raffaello rivive a Piacenza

Piacenza – Chiesa di san Sisto – Dal 24 aprile al 31 ottobre 2021
La Madonna Sistina di Raffaello rivive a Piacenza Storia dell’opera e del monastero di san Sisto

Avviso. La situazione sanitaria è in continua evoluzione. Consigliamo di verificare le informazioni su giorni, orari e modalità di visita.

L’esposizione conduce i visitatori alla scoperta del monastero benedettino e del suo patrimonio artistico a partire dal celebre dipinto che ritorna virtualmente nella città per la quale fu realizzato.

Piacenza, Chiesa di San Sisto, coro leggio

Dal 24 aprile al 31 ottobre 2021, la Madonna Sistina di Raffaello ritorna nella chiesa del monastero di San Sisto a Piacenza, il luogo per il quale fu commissionata.
Raffaello, infatti, ricevette l’incarico da papa Giulio II nel 1512; il capolavoro rimase a Piacenza fino al 1754, quando fu ceduta dai monaci piacentini al Grande Elettore Augusto III di Sassonia per 25.000 scudi romani. Da allora si trova nella galleria reale dei dipinti di Dresda.
L’esposizione propone un’esperienza dinamica ed esperienziale che permette al visitatore d’immedesimarsi, condividere e vivere la storia del luogo e dei capolavori pensati per questo spazio.
Il percorso introduce alla scoperta del complesso religioso a partire dal cosiddetto “appartamento dell’abate”, per la prima volta aperto al pubblico; qui inizia un allestimento museale che descrive le vicende del monastero, dalla sua fondazione imperiale (nel secolo IX) ai cambiamenti intervenuti in epoca moderna.
La narrazione evidenzia i complessi rapporti che contrapposero, per tutto il medioevo, il potere religioso (incarnato dal vescovato piacentino) e il potere politico rappresentato dal monastero. Una sfida che avrebbe condizionato tutto il successivo sviluppo urbanistico della città.
Nel vestibolo sono ricostruiti i ritratti virtuali di quattro figure di rilievo che influenzarono la vita del monastero quali la fondatrice Angilberga, moglie dell’imperatore carolingio Ludovico II, che ne divenne badessa dall’882 all’889, Gandulfus, l’abate che resse il monastero dal 1180 (fedele al vescovo di Piacenza e obbediente all’imperatore Federico II), l’architetto piacentino Alessio Tramello, tra i più attenti e dotati allievi del Bramante, che tra il 1499 e il 1511 eresse la nuova chiesa e il grande chiostro e l’imperatrice Margherita d’Austria, figlia di Carlo V e duchessa di Piacenza e Parma, che qui volle essere sepolta.
Dall’appartamento dell’abate alla preziosa biblioteca monastica; qui sarà presentata una copia del XVIII sec. del testamento di Angilberga, proveniente dalla biblioteca Palatina di Parma, e la copia digitale del Salterio di Angilberga a.d. 827.
In un secondo ambiente è illustrata la Regola monastica attraverso la sua organizzazione interna, i compiti dei monaci, la vita liturgica e, all’interno della cappella per la preghiera, si possono ammirare i preziosi elementi liturgici di proprietà della chiesa fin dalla sua edificazione.
Il percorso prosegue quindi nella chiesa, con la descrizione del suo patrimonio artistico e con una sosta nel trionfale coro ligneo realizzato a partire dal 1514 dagli intagliatori parmensi Giovan Pietro Pambianchi e Bartolomeo Spinelli, che presenta una successione di meravigliose tarsie riproducenti l’“armonia delle arti”. I visitatori possono accomodarsi negli stalli del coro per essere virtualmente calati in un momento della vita religiosa, ovvero la recita serale dei vespri che avveniva al cospetto del capolavoro di Raffaello.
Nella cripta, si ripercorre la vita avventurosa della Madonna Sistina e la formazione di una fama mondiale, attraverso una ricostruzione cronologica che muove dal contesto storico-socio-politico romano e piacentino, entro il quale l’opera fu commissionata e realizzata.
Il percorso in cripta inizia con l’osservazione dell’originaria collocazione nel presbiterio progettato dal Tramello ricostruito attraverso la realtà aumentata, indossando visori VR.
La storia piacentina iniziata nel 1512 con la committenza di papa Giulio II per onorare la memoria dello zio, papa Sisto IV della Rovere, durò 240 anni, fino al 1754, quando, per ripianare gli ingenti debiti che il monastero aveva contratto, fu ceduta ad Augusto III di Sassonia grande collezionista di capolavori.
Nel transetto sinistro della cripta si ricostruisce la trattativa e la vendita dell’opera, con i protagonisti della vicenda.
L’esposizione prosegue documentando attraverso copie di opere e volumi sfogliabili dal pubblico come, dopo l’arrivo a Dresda, il quadro sia divenuto meta di pellegrinaggi laici in nome di un ideale di grazia e di bellezza che attraversa, acquisendo sempre più importanza, le epoche del neoclassicismo, del romanticismo e persino del positivismo ottocentesco, fino alla filosofia e alla letteratura novecentesche.
La Madonna Sistina diventa immagine di riflessione per cristiani e di venerazione per cattolici ortodossi; immagine di studio per filosofi, poeti e letterati. Dalla metà del Settecento a oggi ne hanno scritto i maggiori autori europei a partire da Winckelmannn, Herder, Goethe, Novalis, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Steiner, Herzen, Dostoevskij, Tolstoj e Bulgakov; fino al cuore buio del Novecento dove incontra il pensiero di Walter Benjamin, Ernst Bloch, Martin Heidegger.
La Madonna “di Dresda” sarà fonte di ispirazione per le avanguardie come testimoniano le opere di Schwitters, Dalì, Picasso, fino a Andy Warhol.
La mostra si chiude con la proiezione, nella sagrestia monumentale, del docufilm YOU. Story and glory of a masterpiece diretto da Nicola Abbatangelo e sceneggiato da Giovanni Maddalena. Si tratta della ricostruzione di tutte le peregrinazioni dell’opera di Raffaello calandole all’interno della vicenda personale di Brandon, un fotografo americano a cui viene chiesto lo scatto perfetto della Madonna, cercando il quale metterà profondamente in discussione se stesso.

Per l’occasione, viene messo in evidenza il passaggio sotterraneo di collegamento tra la chiesa e Palazzo Farnese che inizia alla base dello straordinario scalone elicoidale che disimpegna l’intero complesso monastico.
L’iniziativa, inserita tra gli eventi ufficiali per le celebrazioni dei 500 anni dalla morte di Raffaello Sanzio, è curata da Manuel Ferrari, Eugenio Gazzola e Antonella Gigli, con contenuti multimediali di Twin Studio, promossa dalla Diocesi di Piacenza e Bobbio, in collaborazione con il Comune di Piacenza, la Fondazione di Piacenza e Vigevano, il 2° Reggimento Pontieri dell’Esercito italiano, con il patrocinio del MiBACT, dell’Associazione Musei Ecclesiastici Italiani, della Provincia di Piacenza, di Piacenza Musei in Rete.
La mostra si avvale del contributo della Fondazione di Piacenza e Vigevano e del sostegno della Regione Emilia-Romagna – Istituto Beni Culturali e della Camera di Commercio di Piacenza.
L’iniziativa è parte del programma di Piacenza 2020/21, il ricco calendario di eventi culturali, promosso dal Comune di Piacenza, dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano, dalla Diocesi Piacenza-Bobbio, dalla Camera di Commercio di Piacenza, in linea con il tema scelto: “Crocevia di culture”.

IMMAGINE DI APERTURA – Piacenza, Chiesa di San Sisto, volta navata laterale

A Berlino ci sono i soldi e la città si espande, mentre la storia di Parigi e Londra è dietro di loro

di Sergio Bertolami

13 – Dal Gruppo degli XI alla Secessione di Berlino.

La Secessione di Monaco sollevava un vento trascinatore nell’intera Germania: appassionava, esaltava, persuadeva. Specialmente le giovani generazioni. Esattamente come era avvenuto un secolo prima con lo Sturm und Drang, contraddistinto dalla esaltazione, nella vita e nell’arte, dell’irrazionale e del sentimento romantico in opposizione all’intellettualismo illuministico e al classicismo delle corti. Non poteva essere altrimenti: persino il Kaiser Guglielmo II manifestava la propria insofferenza, sostenendo che «l’arte che contravviene alle leggi e ai limiti che ho imposto non è arte». L’imperatore non mancava occasione per contribuire ad infuocare gli animi con esternazioni stridenti e fuori luogo. Accadde anche il 18 dicembre 1901, all’inaugurazione del Viale della Vittoria (Siegesallee). Dal 1895 finanziava la sistemazione e l’ampliamento di questo importante boulevard di Berlino. Aveva preteso un progetto magniloquente, con angoli decorati da un centinaio di statue e busti marmorei dal forte impatto retorico. Alla cerimonia d’apertura, ancora una volta, le sue parole suscitarono clamore quando sottolineò che il compito dell’artista era quello di elevare i berlinesi con grandi ideali, non certo insudiciarli con «un’arte da fogna» (Rinnsteinkunst), rendendo «la miseria ancora più orribile di quella che è». Max Liebermann scriveva a Hugo van Habermann il 31 dicembre 1901: «L’imperatore può al massimo rallentare il movimento; se le secessioni – cui appartengono più o meno gli artisti con il talento maggiore – rimangono coese, allora non vi è nulla da temere». Questa spaccatura evidente, in verità, scatenava aspre discussioni sia fra i politici che nell’opinione pubblica. Alla mostra mondiale del 1904 a St. Louis, negli Stati Uniti, sebbene alcuni artisti tedeschi fossero stati espressamente invitati, la rappresentanza ufficiale non previde la partecipazione di alcun aderente alla Secessione. La scelta fu disapprovata apertamente nel corso di un dibattito al Reichstag, il 15 e 16 febbraio di quell’anno. Uno dei membri del parlamento tuonò: «Un grande e moderno movimento internazionale non può essere comandato come un reggimento di guardie». Nel padiglione tedesco di St. Louis, una replica del castello di Charlottenburg, si attestò la breccia profonda in fatto di arte e cultura.

La Siegesallee in una cartolina del 1902. In primo piano è la statua di Alberto I di Brandeburgo 

Molti degli artisti tedeschi che formavano il primo nucleo della Secessione di Berlino, dopotutto volevano soltanto esprimere il loro lato raggiante dell’esistenza, piuttosto che temi storicizzanti e moralmente educativi, ormai tanto retrivi da risultare a volte patetici. Emozionati dai successi dell’impressionismo francese, i secessionisti desideravano mostrare le semplici gioie della vita: una passeggiata in campagna o in riva al mare, una stanza pervasa di luce, l’incontro conviviale in una birreria all’aperto. Luce, colore, attenzione per la natura, erano impressioni spontanee, espresse con una tavolozza leggera e pennellate libere e spedite. Eppure, sembrava che tutto ciò non potesse essere possibile. La misura fu colma quando nel 1898, la giuria della Grande Esposizione d’Arte di Berlino decise di respingere un paesaggio di Walter Leistikow, dimostrando che l’arte innovativa degli artisti emergenti non poteva contare sul favore dell’Accademia. Chi sta seguendo con attenzione questo iter narrativo ricorderà gli antefatti. Nella primavera del 1892, Max Liebermann e Walter Leistikow – rispettivamente presidente e segretario – avevano organizzato una mostra d’arte come Gruppe der Elf (Gruppo degli undici) senza, tuttavia, lasciare l’Associazione degli artisti di Berlino o evitare di presentare i propri lavori al salone annuale, la Grande Esposizione d’Arte. Il Caso Munch, scoppiato al Verein Bildender Künstler nell’inverno dello stesso anno, rese esplicita l’avversione verso un’arte differente e moderna. La risposta fu che nel 1893, il gruppo di artisti si ritirò dal Verein, per fondare la Secessione di Berlino, sulla scia di quella di Monaco. Si ebbero così due organizzazioni parallele: la Grande Esposizione d’arte di Berlino (Großen Berliner Kunstausstellung), e la Libera esposizione d’arte di Berlino 1893 (Freien Berliner Kunstausstellung 1893), quest’ultima con lo scopo di svecchiare le manifestazioni con ridotte esposizioni indipendenti. Convissero per qualche anno, fin quando nel 1898 la giuria della Grande Esposizione d’Arte di Berlino respinse, per l’appunto, il dipinto di Leistikow. Alla testa di 65 artisti, Max Liebermann chiese che al gruppo secessionista fosse accordato uno spazio adeguato di non meno 8 sale, una giuria e un comitato indipendenti. Le condizioni sembrarono eccessive per un gruppo così ridotto e furono respinte. Era giunto il momento di lasciare definitivamente l’Associazione degli artisti di Berlino e consolidare la struttura organizzativa.
All’epoca Liebermann era convinto – così almeno compare sulle sue lettere private – che Parigi e Monaco fossero in crisi e che Berlino potesse svolgere al meglio la sua parte. La Secessione a Berlino gli sembrava inevitabile e all’amico Max Linde confessava: «Berlino ha un enorme vantaggio: Monaco è morta, come dimostrato dalla loro ultima esibizione e dalla mostra qui a Berlino della scuola di Dachau. Lo stesso per Parigi. Qui ci sono i soldi e la città si espande, mentre Parigi e Londra hanno la parte migliore della loro storia dietro di loro».

Prima sede ufficiale della Secessione berlinese nell’edificio di Hans Griesbach e August Dinklage in Kantstrasse 12.  
Fonte: Die Kunst für Alle, Numero 20 del 15 luglio 1899, pagina 314.

 

I problemi immediati furono i medesimi incontrati dai secessionisti di Monaco: gli esigui spazi espositivi e la promozione adeguata delle opere. Nello stesso modo furono risolti. Liebermann si rivolse subito ai mercanti d’arte Bruno e Paul Cassirer, che si unirono al gruppo nel 1899 e acquisirono una carica nel consiglio dell’Associazione, pur senza diritto di voto. Fra i compiti, si assunsero la responsabilità di seguire la costruzione del nuovo edificio per le esposizioni. Il palazzo ufficiale della Secessione di Berlino fu progettato e costruito secondo i piani esecutivi dello studio “Griesebach & Dinklage”. Nel 1889 August Dinklage si era, infatti, dimesso dal suo impiego statale con il proposito di perseguire a Berlino la carriera di architetto libero professionista insieme ad Hans Grisebach. Come si vede, il movimento alimentava le aspirazioni personali e ciascuno offriva al gruppo il proprio contributo. L’edificio, elevato in tempi strettissimi sulla Kantstraße 12 (angolo Fasanenstraße) dalla società edile August Krauss, venne completato il 19 maggio 1899. Senza indugio furono disponibili a fornire gli allestimenti interni l’architetto van de Velde da Bruxelles, mentre a Berlino le società Keller, Reiner e B. Burchardt offrirono alcuni mobili per sedersi e l’azienda N. Ehrenhaus i tappeti. A questo si aggiunga che, in quello stesso anno 1898, i cugini Bruno e Paul Cassirer avevano aperto una galleria d’arte moderna e una casa editrice, al secondo piano di Viktoriastraße n.35. Immancabilmente editarono, perciò, il catalogo della prima mostra secessionista e per tre anni – il tempo che durò il loro sodalizio – misero in luce la rinnovata scena artistica e letteraria tedesca, ma anche le ultime novità della cultura francese, belga, inglese e russa. Nel catalogo ufficiale della prima mostra, nel 1899, troviamo tutte le indicazioni per comprendere il fervore dell’esposizione: 330 fra dipinti e grafiche ed inoltre 50 sculture. Rispetto agli anni successivi, la prima mostra si limitò all’arte nazionale: dei 187 espositori, 46 risiedevano a Berlino e 57 a Monaco. Mancavano del tutto i contributi dall’estero. Problema superato con la seconda mostra, in cui furono esposte opere di Pissarro, Renoir, Segantini e Whistler.

Distribuzione interna della sede ufficiale della Secessione berlinese

La distribuzione interna del palazzo espositivo evidenziava la ripartizione delle sale. Dall’ingesso sotto un arco trionfale si accedeva alla sala delle sculture e da questa, a sinistra, iniziava il percorso di visita alle opere di pittura, suddivise in quattro sale, e nell’ambiente a destra erano presentati i lavori di grafica col titolo “Mostre in bianco e nero”. Il corpo circolare era invece riservato alla Segreteria e rappresentava, a tutti gli effetti, il cuore della manifestazione. Infatti, il catalogo evidenziava, in modo preciso, le modalità di acquisto. «Le opere d’arte contrassegnate con * alla fine del titolo sono in vendita. I prezzi possono essere richiesti alla Segreteria. Tutte le vendite devono essere effettuate esclusivamente dalla stessa; pertanto, la conclusione della contrattazione dovrà segnalarsi alla Segreteria sia da parte dell’acquirente che del venditore. Un terzo del prezzo di acquisto deve essere pagato immediatamente in contanti, il resto depositato in Segreteria prima della fine della mostra. I reclami dopo un acquisto andato a buon fine non possono essere considerati. L’invio delle opere d’arte vendute può avvenire solo dopo la fine della mostra ed è fatto per conto e a rischio dell’acquirente. La Segreteria sarà lieta di fornire informazioni su tutte le richieste». I libri di storia dell’arte non parlano mai, se non di sfuggita, degli aspetti economici, come se gli artisti vivessero nel cielo empireo. Il proposito era chiaramente dichiarato nella prefazione del catalogo dove si leggeva: «Per noi non c’è solo un modo d’intendere ciò che soddisfa l’arte, ma ogni segno ci appare come un’opera d’arte – qualunque arte possa essere espressa – selezionata per la sua motivazione sincera. Sono state sostanzialmente escluse soltanto le opere commerciali di routine e quelle superficiali e dilettantistiche di chi nell’arte vede solo milk pub».

Lovis Corinth, La vita di Walter Leisitkow. Un frammento della storia della cultura a Berlino (edito da Paul Cassirer, Berlino, 1910)

Era stato Leistikow, per primo, a comprendere che occorreva dare vita ad un nuovo spazio espressivo svincolato da dipendenze amministrative e finanziarie rispetto all’ufficialità accademica. La formula vincente fu quella dell’accordo mutualistico nella gestione delle entrate provenienti dalle vendite. Scrisse Lovis Corinth, nel suo libro dedicato a La vita di Walter Leistikow, che l’atelier del pittore divenne la sala dei ricevimenti della Secessione, in cui si poteva incontrare l’intellighenzia della capitale: il nuovo direttore della Galleria Nazionale Tschudi, l’editore Sameul Fischer, i grandi letterati Halbe, Hauptmann e Wolff, e gli ospiti scandinavi: Munch, Ibsen, Strindberg, Zorn e molti altri ancora. «Leistikow era fra tutti il più operoso, quando si trattava di agire per il meglio della Secessione. Sapeva come rivolgersi al Presidente Max Liebermann, era abile nell’interessare i facoltosi, una capacità assai rara, e a convincerli ad investire denaro per l’impresa della Secessione. Egli incoraggiava gli artisti, prendendosi la briga di convincerli a vendere i loro quadri a mecenati suoi amici. Il destino lo aveva baciato in quell’epoca con il massimo della fortuna. I suoi quadri piacevano ovunque; le gallerie li acquistavano. Era rappresentato alla Galleria Nazionale di Berlino, nei musei di Dresda, Lipsia, Magdeburgo e Krefeld. Anche i proprietari di gallerie private comprarono molti dei suoi quadri. Queste gallerie private erano creazioni di ricchi commercianti. Quando l’industria portò a Berlino ricchezze che mai si erano viste, parte di quei profitti fu utilizzata dai fortunati proprietari per fondare iniziative artistiche».

Il consiglio di amministrazione della Secessione di Berlino nella Mostra della Seconda Secessione, 1900.
Da sinistra a destra: Oskar Frenzel, Franz Skarbina, Otto Heinrich Engel, Max Liebermann, Bruno Cassirer.

A partire dal 1901, i pittori Max Slevogt e Lovis Corinth, trasferitisi da Monaco, rafforzarono l’Associazione degli artisti e l’importanza di Berlino come principale città d’arte tedesca. Questo fino al 1911, quando Max Liebermann non presiedette l’esposizione di quell’anno per lasciare spazio alle giovani leve espressioniste. La sua motivazione ufficiale fu questa: «La Secessione di Berlino è ormai così saldamente stabile che altri possono continuare il lavoro e prosperare. Quest’anno è uno dei più decisivi per la storia dello sviluppo della Secessione. In effetti, i fondatori dell’Associazione – Liebermann, Leistikow e Paul Cassirer – hanno consolidato così bene l’edificio, durante il lungo periodo di tempo in cui hanno lavorato insieme, e l’hanno collegato così saldamente nelle singole parti, che la Secessione ha spianato tempeste esterne e confusione interna». In realtà, nonostante i buoni propositi, la motivazione era un’altra. Nel 1910 si era formata la Neue Sezession, costituita da 27 artisti esclusi dalla selezione della XX Secessione berlinese, i quali in alternativa esposero da Maximilian Macht, in Rankestrasse, più un negozio di cornici che una vera galleria d’arte. La Neue Sezession fissò la sede al n.232 del Kurfürstendamm, il grande viale, nel medesimo edificio che ospitava il Graphisches Kabinett di I.B. Neumann, mercante d’arte che si dimostrerà attivo nel divulgare l’avanguardia dadaista. Neppure la Neue Sezession fu esente da controversie e a sua volta subì una spaccatura all’inizio del primo conflitto mondiale. Sono comprensibili mutazioni di un’arte in movimento. A questo punto, dopo tutti gli anni trascorsi dalla Secessione di Berlino del 1898, le istanze erano ovunque conosciute e il movimento, contrario al passatismo, appariva ormai superfluo.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Alli Beltrame, Laura Mazzarelli – Invece di dire… Prova a dire…

 

«In questo breve ebook daremo nuovi spunti di riflessioni per aiutarti a comprendere meglio come “funziona” un bambino e come ascolto e comunicazione adeguate possano semplificare la collaborazione reciproca.» (Alli Beltrame e Laura Mazzarelli) Per un approfondimento:

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di zhanzhan da Pixabay