Sylvia Stave – Cocktail Shaker, 1930

Questa sfera perfetta con un manico fisso ad arco è un cocktail shaker, pregevole lavoro di design prodotto nell’Officina dei Metalli del Bauhaus, sotto la direzione di László Moholy-Nagy. Dopo meticolose ricerche Peter Hahn, direttore dell’Archivio della prestigiosa scuola d’arte tedesca, ha scoperto che fu realizzata di Sylvia Stave e non da Marianne Brandte, alla quale in un primo momento lo shaker fu attribuito. Sylvia Stave, nata in Svezia, a Växjö, nel 1908, espresse la propria creatività artistica progettando e realizzando una quantità di opere in metallo, fra Stoccolma e Parigi, e lavorando prevalentemente oggetti in argento, peltro, ottone, stagno, alpacca. Nel 1929 ha iniziato a collaborare come designer della CG Hallbergs Guldsmedsaktiebolag di Stoccolma. Ad appena 23 anni, nel 1931, è stata nominata direttore artistico della stessa fabbrica, una delle più grandi aziende di gioielleria della Svezia con oltre 600 dipendenti, nota per l’alta qualità e per la collaborazione dei principali designer dell’epoca. In un’intervista a Svenska Dagbladet, Sylvia Stave ha espresso il suo amore per l’argento e la sua disapprovazione per ciò che è appariscente o imitativo. Lodando le superfici lisce e le linee rette e pulite, ha sottolineato: «Pensiamo a quanto si guadagnerebbe se le persone imparassero a capire cosa significa qualità, anche in termini di argento o peltro. Un oggetto semplice può essere altrettanto bello, anche più bello, da un punto di vista artistico di uno sontuoso!». Nel 1937 Stave si è trasferita a Parigi, dove ha ricevuto un premio all’Esposizione Mondiale. Nel 1939, ha fatto un breve ritorno nel suo paese natale per disegnare la nuova collezione Hallbergs. Si è quindi trasferita definitivamente a Parigi nel 1940, per lasciare inaspettatamente il proprio lavoro e occuparsi della vita familiare. Ha però continuato ad esercitare di tanto in tanto come disegnatrice, realizzando illustrazioni di libri. Oggi Sylvia Stave è considerata dalla critica internazionale uno dei maggiori artisti che hanno contribuito in modo determinante al design svedese moderno con i suoi oggetti sobri e immacolati. I suoi progetti per articoli domestici – quali brocche, teiere, vasi, bicchieri da tavola, piatti da portata – sono caratterizzati da una purezza di forma, volumi geometrici legati ad una estetica funzionalista. Dall’inizio della carriera, fino alla sua rinuncia dieci anni dopo, Stave si è distinta in molte mostre d’arte sia in Europa che negli Stati Uniti.

Questo shaker, nato nella scuola del Bauhaus, è molto lontano dagli shaker tradizionali che siamo abituati a utilizzare. È infatti orizzontale e non verticale, ciò perché è indirizzato a sperimentare forme estetiche a carattere geometrico – come linee diritte, quadrati, circonferenze – alla base della ricerca da cui il Bauhaus ha tratto ispirazione. Lo shaker, dalla configurazione innovativa, richiamò subito l’attenzione anche perché spingeva oltre i limiti le produzioni in metallo dell’epoca. Dal 1989, su licenza dell’Archivio Bauhaus, possiamo ancora trovare questo straordinario Cocktail Shaker nel catalogo Alessi, azienda italiana produttrice di oggetti di design, fondata nel 1921 da Giovanni Alessi. La sfera, senza apparenti giunture, prodotta attualmente in acciaio inossidabile 18/10 lucidato a specchio, anziché nella versione originaria nichelata, presenta ancora oggi difficoltà per l’attenzione e la cura che non si possono demandare esclusivamente alle macchine. Si tratta infatti di produrre due emisferi separatamente da un medesimo stampo, unirli per fusione e, quindi, lucidarli a specchio manualmente. La sfera che ne risulta è un colpo d’occhio, per la sua forma essenziale che, grazie alla posizione del manico, induce in modo del tutto naturale all’atto del versare il cocktail miscelato. Questo è anche il limite del pezzo, secondo alcuni critici, poiché evocherebbe un oggetto statico, piuttosto che un oggetto da scuotere per shakerare. Dalla critica all’oggetto si passa alla critica nei confronti dell’intera scuola del Bauhaus. Ci si domanda, infatti, fino a che punto uno shaker per cocktail possa considerarsi un contributo conveniente alla produzione di massa. Tutto ciò non considerando affatto il carattere aperto e sperimentale di questa scuola di architettura, arte e design. D’altra parte, perché limitare la fantasia? Per fare piacere ai critici? Sylvia Stave ha, infatti, prodotto diversi tipi di oggetti per la casa, oltre a shaker e bicchieri da cocktail, come documentato nella collezione del Nationalmuseum di Stoccolma, dedicata ad arti, mestieri, e design. Sylvia Stave è morta a Parigi nel 1994. Il Nationalmuseum ha più di 40 oggetti da lei realizzati, la maggior parte dei quali sono stati acquisiti nel 2013 dal collezionista tedesco-svedese Rolf Walter. Molti di questi oggetti sono stati esposti nella mostra “Donne pioniere – La forma svedese durante il periodo tra le due guerre“, al Castello di Läckö nel 2015. e successivamente ripresentata al Museo Röhsska.

GUARDA LA COLLEZIONE DI SYLVIA STAVE AL NATONALMUSEUM DI STOCCOLMA (SVEZIA)

Al Museo Archeologico ed Etnografico di Sassari – Sulle tracce di Clemente

Sassari, Museo Nazionale Archeologico ed Etnografico “Giovanni Antonio Sanna”
21 Maggio 2021 – 21 Maggio 2022
Sulle tracce di Clemente

Avviso. La situazione sanitaria è in continua evoluzione. Consigliamo di verificare le informazioni su giorni, orari e modalità di visita sul sito web della Mostra.

Antonio Marras durante l’allestimento di: SULLE ORME DI CLEMENTE

Sarà una grande mostra progettata da Antonio Marras ad anticipare l’apertura della Sezione Etnografica del Museo Nazionale Archeologico ed Etnografico “Giovanni Antonio Sanna” di Sassari. L’esposizione, prenderà via il 21 maggio e resterà allestita per un intero anno, occupando lo spazio del cosiddetto Padiglione Clemente. Il progetto è finanziato con Contributo della Fondazione di Sardegna (erogazione liberale) per gli interventi di sostegno, promozione, valorizzazione e conservazione del patrimonio culturale regionale.

Vi sarà esposta una selezione dell’immenso patrimonio etnografico (abiti, vestiti, gioielli, manufatti artistici) del Museo insieme a reperti archeologici e a testimonianze di arte moderna e contemporanea, a proporre un dialogo tra origini antiche, tradizione e attualità, tra memoria e presente.
Ad annunciare l’evento sono il professor Bruno Billeci, Direttore Regionale Musei Sardegna, ed Elisabetta Grassi, Direttrice Museo Nazionale G.A. Sanna.
“L’idea della mostra nasce dalla volontà di valorizzare questo ricco patrimonio, il cui nucleo principale è costituito dalla donazione del cav. Gavino Clemente. La collezione etnografica del Museo non è solo la più antica della Sardegna ma anche una delle più ricche dell’isola per quantità e varietà di reperti” la direttrice dottoressa Grassi.
“Per l’allestimento e, ancora pima, per l’ideazione della mostra, anticipa il professor Billeci, abbiamo potuto avvalerci della fantasia, del gusto ma anche della competenza di un “allestitore” d’eccezione, lo stilista Antonio Marras”, che voglio ringraziare per l’entusiasmo che sta profondendo in questa impresa”.
“Fatti salvi i criteri museografici e le necessità legate alla ottimale conservazione dei materiali, Antonio ha avuto mano libera nel valorizzare i reperti. E il risultato che si sta proprio in queste settimane configurando in forma definitiva è, a mio parere, emozionante”.
“Influssi mediterranei, fenici, punici, bizantini, arabi, catalani, spagnoli, francesi ecc. ci fanno essere quelli che siamo, nella lingua, nei pensieri e nel vestire. Il costume sardo affascinò e affascina per la straordinaria varietà, per gli elementi strutturali, decorativi, cromatici e per il suo significato di identificazione etnica”, chiosa Antonio Marras
La nostra attività si svolge nell’Isola dove sono nato e cresciuto, che conserva ancora nella lingua, nelle tradizioni il fascino misterioso che nasce dalla mescolanza. Un miscuglio di lingue, culture, storie, tradizioni, usanze, pensieri, contaminazioni, stratificazioni, la rendono così particolare.
Da sempre mi attrae il linguaggio poetico, il lavoro del poeta. Rifiuta le regole, viola i codici, libera tutti i sensi e dà voce all’inesprimibile. Tessuto e testo rimandano entrambi a una origine comune: tessere, intrecciare. Entrambi sono il risultato di intrecci: il tessuto, di fili di lana o cotone; la poesia, di parole. Sento molto vicino lo scarto linguistico, lo scarto dalla norma grammaticale, la devianza dalla lingua quotidiana, l’uso libero e personale delle parole, scelte, combinate, accostate in modo inconsueto. In modo da creare giochi di ossimori insospettati.
Ed è questo l’approccio verso l’allestimento del padiglione Clemente” afferma Marras.
Che aggiunge: “La scienza e la tecnologia hanno abbattuto confini, frantumato barriere, accostato e mescolato popoli e continenti e difficilmente, oggi, un gruppo o popolo o etnia sceglie di vivere nel proprio isolamento. Anzi, il confronto/scontro con gli altri è il tratto caratterizzante del nostro tempo: la storia di gruppi, popoli, etnie si intreccia con altre storie e diventa sempre più complessa.
In questo panorama, nel pericolo avvertito di una temuta globalità omologante, si fa strada la volontà di affermare il diritto a difendere e salvaguardare la propria identità e valorizzare la diversità come fattore di ricchezza e patrimonio da custodire e far conoscere.
Per noi, l’identità non è un dato statico, né è pura memoria, ma qualcosa di dinamico, dialettico, una costruzione continua, variegata, fatta di realtà distinte che, fra opposizioni e separazioni, si modellano e rafforzano.
Per questo associazioni, mischie, inserti, opposizioni, accostamenti, intersezioni, confronti, richiami, assonanze, collaborazioni, voci diverse sono le parole chiave per interpretare il concetto nuovo dell’allestimento”.

IMMAGINE DI APERTURAAntonio Marras durante l’allestimento di: SULLE ORME DI CLEMENTE

Parma – In mostra il sottile fascino della porcellana

La mostra propone un viaggio nella storia del gusto e della ricchezza decorativa attribuito alla porcellana che durante il Settecento inebriò le Corti d’Europa, divenendo identificativo dello status sociale di chi la possedeva e, quindi, veicolo di diffusione del gusto e delle mode.

Parma, Reggia di Colorno – 15 Maggio 2021 – 19 settembre 2021
Le porcellane dei duchi di Parma. Capolavori delle grandi manifatture del ‘700 europeo
Mostra a cura di Giovanni Godi e Antonella Balestrazzi

Bottega Meissen: Allegoria dell’Europa, Porcellana, cm 25,5

La mostra propone un viaggio nella storia del gusto e della ricchezza decorativa attribuito alla porcellana che durante il Settecento inebriò le Corti d’Europa, divenendo identificativo dello status sociale di chi la possedeva e, quindi, veicolo di diffusione del gusto e delle mode. Compatta, lucente e leggera, la porcellana si presta naturalmente alla realizzazione di quegli oggetti dalle linee agili ed eleganti, impossibili da ottenere con i materiali fino ad allora noti. Rimasta a lungo un segreto delle manifatture cinesi, fu ricreata in Europa nel secondo decennio del Settecento presso la corte di Augusto il Forte, Principe Elettore di Sassonia e re di Polonia e da qui si diffuse gradualmente in tutta Europa, nonostante i disperati tentativi di nasconderne la formula. Impiegata subito in campo ornamentale per realizzare statuine e vasi di fragile grazia, è sulla tavola che essa trova il suo naturale impiego, accompagnando quella sorta di riforma che interessa nello stesso periodo la cucina. Nella mensa nobiliare il lusso si mostra non più attraverso monumentali portate che identificano lo sfarzo nella semplice abbondanza, ma attraverso pietanze dai sapori meno forti e consistenze delicate.  Il nuovo stile alimentare, d’importazione francese, moltiplica il numero delle portate, ne riduce le porzioni che vengono servite in vasellame minuto, fragile, delicato e sempre diverso. È tuttavia la nuova passione per le bevande esotiche, il the, la cioccolata, il caffè che crea recipienti dalle forme nuove, adatte a degustare, fuori dai pasti, bibite dai sapori rari.

Bottega Meissen: Allegoria dell’Asia, Porcellana, cm 30,5

Il percorso espositivo evidenzia la piena adesione della corte di Parma al gusto imposto nel XVIII secolo dai modelli francesi; ricchezza decorativa e desiderio di ostentazione che in tutta Europa accompagnavano l’allestimento delle tavole. Anche sulle tavole dei duchi di Parma si può riscontrare una crescente specializzazione degli strumenti e del vasellame: dall’impiego di caffettiere, cioccolatiere, teiere, sorbettiere, che confermano il regolare consumo delle bevande esotiche di gran moda nel Settecento, fino alla presenza di surtout e trionfi da tavola. Grazie a Luisa Elisabetta, figlia prediletta del Re di Francia Luigi XV, moglie di Filippo I di Borbone, si afferma l’amore per la decorazione della tavola e la porcellana fa il suo ingresso trionfale prendendo il posto dei metalli preziosi. Soprannominata dal padre Babette condivideva con lui la passione per le porcellane ed il buon rapporto con Madame de Pompadour, attiva protettrice della manifattura di Vincennes e poi di Sevres, aveva rafforzato in lei il gusto per quei raffinati oggetti. Nei suoi frequenti viaggi a Versailles non trascurava di fare acquisti a spese del padre sia per dotare la sua “modesta residenza parmense” di adeguato vasellame alla moda sia per far dono al marito (“cher Pippo”) che mostrava di condividere con lei il piacere per le preziose porcellane.

Bottega Meissen: Vendemmiatori, Porcellana, cm 21

Numerose lettere documentano la passione dell’infanta Luisa Elisabetta per la porcellana e non solo per quella francese, Vincennes, Sèvres e Chantilly, che acquistò sia direttamente sia per il tramite di agenti, ma anche per quella di manifattura tedesca di Meissen. La magnificenza di questo pregiato impasto, è celebrata in mostra mediante l’esposizione di un importante selezione di oggetti in porcellana, che un tempo arricchivano le dimore dei Duchi di Parma, che offre una panoramica di quasi tutte le manifatture europee;  Meissen, Sèvres, Vincennes e Chantilly e quelle di produzione italiana di Doccia, Capodimonte e Cozzi. Raffinati servizi da tavola, servizi da the e caffè, statuine, tazze da gelato e oggetti da tavola curiosi appartenuti alla corte parmense e proveniente da importanti prestiti di musei e collezioni italiane.

IMMAGINE DI APERTURABottega Meissen: Allegoria del Fiume, Porcellana, cm 15,5

Parma – Capolavori delle grandi manifatture del ‘700 europeo

Dal Palazzo del Quirinale, per la mostra, eccezionalmente tornano alla Reggia di Colorno le preziosissime porcellane che Luisa Elisabetta di Francia e il consorte Filippo di Borbone qui utilizzavano per i ricevimenti ducali ora a disposizione per i ricevimenti di Stato della Presidenza della Repubblica.

Parma, Reggia di Colorno – 15 Maggio 2021 – 19 settembre 2021
Le porcellane dei duchi di Parma. Capolavori delle grandi manifatture del ‘700 europeo
Mostra a cura di Giovanni Godi e Antonella Balestrazzi

Reggia di Colorno. Foto di Gigi Montali

Dal Quirinale e da altre sedi
tornano in Reggia, le porcellane di
Meissen, Sèvres, Vincennes, Chantilly e Doccia,
tesori dei Duchi di Parma.

Dal Palazzo del Quirinale, per la mostra, eccezionalmente tornano alla Reggia di Colorno le preziosissime porcellane che Luisa Elisabetta di Francia e il consorte Filippo di Borbone qui utilizzavano per i ricevimenti ducali ora a disposizione per i ricevimenti di Stato della Presidenza della Repubblica.
Altre, ed altrettanto preziose porcellane delle manifatture di Meissen, Sèvres, Vincennes, Chantilly, Doccia e Capodimonte, sempre appartenenti a quello che era il patrimonio ducale, torneranno “a casa” dalle Gallerie degli Uffizi, dal Museo della Villa Medicea di Poggio di Caiano, dai Musei Reali di Torino, accompagnate da documenti concessi dall’ Archivio di Stato. Riunite per la prima volta dopo la dispersione dei tesori d’arte delle regge parmensi che prese il via nel 1859, quando il Ducato di Pama e Piacenza venne cancellato per essere, l’anno successivo, inglobato nel nuovo Regno d’Italia. Per effetto di questo, il patrimonio di quella che per secoli era stata una delle più raffinate ed internazionali corti europee, passò a Casa Savoia. Gli arredi, transitando da Torino e Firenze, giunsero in buona parte al Quirinale, ad arredare la reggia dei Savoia, poi la “casa” dei Presidenti della Repubblica

Reggia di Colorno, interni. Foto di Gigi Montali

E’ un lavoro condotto negli Archivi, quello che ha consentito a Giovanni Godi e al gruppo di esperti che sovrintende alla mostra, di individuare le sedi dove i tesori parmensi sono stati “collocati”, riportandoli a casa sia pure per il solo tempo della mostra. Queste opere raffinate e di qualità altissima evidenziano come il gusto alla corte dei duchi di Parma si fosse plasmato in pieno accordo con i modelli francesi sviluppati nel Settecento, quando ricchezza decorativa e desiderio di ostentazione accompagnavano l’allestimento delle tavole del vecchio continente.
La passione dei Duchi per le porcellane fu davvero assoluta. Luisa Elisabetta –“Babette”, come la chiamava il padre, Luigi XV, sovrano di Francia – era letteralmente ammaliata dal fascino esotico di questo materiale compatto, lucente e leggero, capace di dare vita a oggetti dalle linee raffinate che contribuivano a identificare lo status sociale di chi li possedeva. Nei suoi frequenti viaggi a Versailles non trascurava di fare acquisti a spese del padre sia per dotare la sua modesta residenza di adeguato vasellame alla moda sia per far dono al marito (“cher Pippo”) che mostrava di condividere con lei il piacere delle preziose porcellane. Così il piccolo Ducato acquisì il meglio della produzione di tutte le più prestigiose manifatture europee che la Duchessa personalmente cercava e commissionava, come confermano le numerose lettere in mostra. Nelle loro residenze erano presenti oggetti in porcellana: raffinati servizi da tavola, da caffè, statuine, tazze da gelato e oggetti curiosi firmati Meissen, Sèvres, Vincennes, Chantilly, Doccia e Capodimonte.

Reggia di Colorno, interni. Foto di Gigi Montali

L’esposizione sarà allestita nel piano nobile della Reggia, seguendo una suddivisione per temi. Da segnalare che nei medesimi ambiente, sino a pochi anni spogli, sono tornati parte degli arredi originali, recuperati alla diaspora post unitaria. Accanto alle porcellane saranno in mostra i ritratti, lettere e documenti relativi agli acquisti della Duchessa e del Primo Ministro François Guillaume Leon Du Tillot, disegni di mobili e arredi progettati da Ennemond Alexandre Petitot, piante del palazzo ducale di Colorno, libri ed incisioni di feste e nozze dei duchi di Parma, ma anche i ricettari in uso alle cucine del settecento. La rassegna nasce dalla collaborazione tra Provincia di Parma, Gallerie degli Uffizi di Firenze e Antea ed è promossa da Provincia di Parma, Comune di Parma, Comune di Colorno e Complesso Monumentale della Pilotta, Archivio di Stato e Soprintendenza Archeologica belle arti e Paesaggi per Parma e Piacenza. Gli oggetti esposti provengono da Palazzo del Quirinale, Complesso Monumentale della Pilotta di Parma, Gallerie degli Uffizi, Museo della Villa Medicea di Poggio a Caiano, Musei Reali di Torino, Fondazione Cariparma, Archivio di Stato di Parma e collezionisti privati.

IMMAGINE DI APERTURAPorcellana della Real Fabbrica Ferdinandea, 1790. Piatto da coltello.

Milano – Mostra collettiva Intĭm ~ us a Jardino

27 artisti contemporanei si riuniscono per esplorare nuove vie di connessione in un contesto di distanziamento fisico. La mostra Intĭm ~ us si terrà dal 15 maggio al 5 giugno 2021 a Jardino, un nuovo spazio culturale la cui missione è quella di celebrare l’arte in un bozzolo di Natura.

Lista degli artisti presentati

Alessandra e Francesca Oro (Italia)
Floriana Savino (Italia)
Giada D’Addazio (Italia)
Leila Mariani (Italia)
Simonetta Rossetti (Italia)
Priya Jot (Italia)
Przemek Kret (Nomade)
Fabiana Peña Pacheco (Columbia)
Elizabeth Rakhilkina (Russia)
Ala Leresteux (Lituania)
Amir Ahmad Khieri (Iran)
Farzaneh Rezaei (Iran)
Ambre Cardinale (Francia)
Jean-François Spricigo (Francia)
Léa Dumayet (Francia)
Mamoune The Artist (Francia)
Uter Broderies (Francia)
Jana Stojakovic (Serbia)
Filip Boyadjiev (Bulgaria)
Tianchang wu (Cina)


A proposito di Julia Rajacic
curatrice di Intĭm ~ us
e fondatrice di Jardino

Curatrice indépendante et critica d’arte franco-serba. Julia Rajacic ha collaborato con vari istituti internazionali quali l’Institut Français, l’Ambasciata della Repubblica di Corea, l’Istituto Italiano di Cultura e il Photo Month Festival. La curatrice vive e lavora tra Parigi, Belgrado e Milano.
Intĭm ~ us
Dal 15/5 al 5/6/21

14/5 alle 3: Preview della mostra riservata alla stampa

Jardino
Via privata cascia 6 Milano 20128
Mar – Sab 14:30 – 19:30

Registrazione necessaria:
353 354 4406
contact@jardino.it

Ingresso: donazione

Contatto
Curatrice: Julia Rajacic
346 02 03 211
contact@jardino.it

Mostra collettiva Intĭm ~ us a Jardino

27 artisti contemporanei si riuniscono per esplorare nuove vie di connessione in un contesto di distanziamento fisico. La mostra Intĭm ~ us si terrà dal 15 maggio al 5 giugno 2021 a Jardino, un nuovo spazio culturale la cui missione è quella di celebrare l’arte in un bozzolo di Natura.
La mostra Intĭm ~ us sarà anche l’occasione per i visitatori di viaggiare senza lasciare l’Italia. Infatti, accanto agli artisti italiani saranno rappresentati artisti di altri paesi europei, ma anche d’Asia, d’Africa e d’America Latina.
La diversità si riflette anche nei linguaggi artistici presentati: saranno esposte pittura, fotografia, arte tessile, installazione, scultura e performance.
Per assicurare il rispetto delle norme di sicurezza sanitarie, la registrazione sul sito www.jardino.it è necessaria.

«L’intimità è il mondo dell’io che si apre agli incontri della vita».
                                                                                  François Gachoud
                                                                                  Scrittore e filosofo 

Il periodo che stiamo attraversando ha visto nascere un notevole sconvolgimento nelle nostre relazioni. Le ripetute fasi di confinamento hanno sconvolto la nostra intimità, sia personale che relazionale. Il distacco fisico raccomandato è stato spesso sostituito da un’ingiunzione al distacco sociale come antidoto a quello che la psicologa Joëlle Mignot ha descritto come il “virus dell’intimità”. L’onnipresente preoccupazione per la nostra salute fisica, basata su una concezione meccanica del nostro essere, ha spesso messo in ombra altri bisogni vitali, come il nostro benessere mentale e i nostri bisogni emotivi, sensuali e sessuali.
In un contesto in cui l’altro appare come un vettore di potenziale minaccia alla nostra integrità fisica, come coltivare l’intimità relazionale, questo spazio privilegiato di condivisione e abbandono?
Come osare aprirci agli altri e lasciarci vulnerabili in un mondo dove la paura e la diffidenza sembrano aver conquistato l’immaginario collettivo e colonizzato il nostro subconscio?
Quali sarebbero i nuovi modi di connessione e le forme di espressione del nostro affetto e della nostra intimità?

A proposito dello spazio espositivo Jardino

Jardino organizza cicli di mostre in cui l’esperienza estetica è amplificata dal contatto con la natura, e nutrita dal dialogo con altre discipline come la musica, la poesia e la danza. È fondato da Julia Rajacic, curatrice indipendente e critica d’arte. Lo spazio espositivo si trova a due passi dal bucolico Naviglio della Martesana a Milano, all’interno dell’ex complesso industriale Giò Style, un ambizioso progetto di riqualificazione postindustriale. La galleria espostiva Jardino, in uno spazio innovativo e al contempo raccolto, offre l’opportunità di visite individuali o a piccoli gruppi che hanno il pregio di farci avvicinare in maniera molto suggestiva alla scoperta di pratiche artistiche contemporanee. La registrazione sul sito www.jardino.it è necessaria per assicurare il rispetto delle norme di sicurezza sanitarie.

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica del Manifesto della Mostra

 

Laboratori d’arte per dare vita ad oggetti, di cui l’utilità è il primo principio

di Sergio Bertolami

17 – Nasce la Wiener Werkstätte di Hoffmann e Moser.

L’azienda Wiener Werkstätte (vale a dire Laboratori viennesi) nacque con l’intento di rinnovare le arti applicate sulla base di un artigianato di alta qualità. Per farlo occorreva produrre soltanto oggetti unici, di straordinaria bellezza e di esclusiva fattura. Il motto ricorrente era: «Meglio lavorare su di un oggetto per dieci giorni che produrre dieci oggetti in un giorno». Perciò fa un certo effetto cogliere una nota ironica su di una rivista del tempo: «Per giudicare le esigenze comuni osservate il modo in cui si acquistano i regali. La folla compra chiedendo: “Vorrei qualcosa di veramente economico, ma molto appariscente!” Ovviamente non c’è niente per loro nella Wiener Werkstätte». Non a caso, nel corso del primo anno di esistenza furono realizzati soltanto gioielli. Rimasero sempre i pezzi artistici preferiti, ma ben presto furono affiancati da una miriade di oggetti di uso quotidiano, preziosi però quanto gli stessi gioielli: mobili, tessuti, ceramiche, vetri, complementi d’arredo. La Wiener Werkstätte – indicata anche come Wiener Werkstatte, Vienna Workshop, Wiener Werkstaetten o Wiener Werkstätten – mirava ad unire tutti gli aspetti della vita sociale in un’opera d’arte totale, quella Gesamtkunstwerk da considerarsi come il denominatore comune per chi s’identificava con la Secessione viennese. I promotori, e gli artisti moderni più importanti che operarono per l’azienda, facevano parte del cosiddetto “Gruppo Klimt”, stretti intorno al celebre pittore. Sebbene, senza troppo rumore, fosse stata fondata nel 1903 come una semplice impresa commerciale, due anni dopo la Wiener Werkstätte s’identificò con le prerogative di uno specifico programma artistico, indirizzato principalmente all’emergente classe medio-alta della monarchia. Era strutturata, infatti, come una società produttiva formata da artisti e artigiani. Nel 1905 già contava un centinaio di dipendenti – fra i quali 37 erano i maestri artigiani – che avevano diritto, oltre al loro guadagno settimanale, ad acquistare una quota dei profitti realizzati; la quota costava duecento corone, pagabili in dieci rate mensili uguali. Con il consenso dell’esecutivo, si potevano acquisire ancora più quote, ma occorreva pagarle per intero al momento dell’acquisto. Gli ideatori di una simile azienda, che innovava persino lo status giuridico del lavoratore austriaco, erano impegnati in prima persona nella conduzione dell’impresa che avevano fondato: l’architetto e designer Josef Hoffmann, il pittore e grafico Koloman Moser, e Fritz Waerndorfer, un imprenditore con la propensione per l’arte moderna. Ai tre si aggiungerà Carl Otto Czeschka, forse meno conosciuto, ma sicuramente il più notevole fra i vari progettisti interni all’azienda. In un articolo del 1911, la prestigiosa rivista The Studio (Illustrated Magazine of Fine and Applied Art) anche di quest’ultimo, oltre che dei fondatori, esaltava le qualità: «Solo un oggetto in mostra assicurerà il suo nome fino ai posteri: un magnifico armadietto d’argento, acquistato per oltre 50.000 corone il giorno dell’inaugurazione da Herr von Wittgenstein, uno dei principali mecenati austriaci dell’arte moderna».

Il logo dell’azienda

Dal canto suo, anche l’imprenditore Fritz Waerndorfer fu, a tutti gli effetti, il cuore e l’anima della Wiener Werkstätte, giacché ritagliandosi il ruolo di direttore commerciale trasformò quello che avrebbe potuto essere un semplice laboratorio d’arte in un vero e proprio marchio, una maison d’alta classe. Investendo i capitali necessari per avviare l’attività, permise ai due promotori artistici di realizzare la loro ambizione. Hoffmann e Moser – entrambi membri chiave della secessione viennese – costituivano un vero e proprio binomio: si completavano a vicenda talmente bene che spesso era difficile distinguere i rispettivi progetti. Gli obiettivi d’altronde erano chiari ed univoci. Precisamente, per citare le parole di Hoffmann, erano quelli di «creare uno stretto contatto tra il pubblico, i designer e gli artigiani, dando vita a buoni e semplici oggetti d’interni, di cui l’utilità è il primo principio, ma con altri evidenti punti di forza basati sulle giuste proporzioni e nel giusto trattamento dei materiali, introducendo la decorazione soltanto quando possibile, mai forzandola o sovraccaricandola». È evidente come Hoffmann e Moser cercassero di promuovere una sapiente artigianalità negli oggetti domestici di uso comune, sul modello Arts and Crafts, escludendo però le decorazioni ridondanti della tradizione eclettica, che a loro avviso ne rendevano poco chiare le funzioni. Josef Hoffmann, occupato già da cinque anni nell’insegnamento alla Scuola di Arti applicate (Kunstgewerbeschule), all’interno dell’azienda assunse la responsabilità di direttore artistico. Intorno a lui raccolse alcuni fra i migliori creativi austriaci: oltre a Kolo Moser e a C. O. Czeschka, è bene citare Otto Prutscher, Adolf Bohm, Berthold Loffler, R. von Larisch, Edward Wimmer, Paul Roller, Michael Powolny, Leopold Forstner e Alfred Roller (direttore della Kunstgewerbeschule), mentre tra gli amici e simpatizzanti dell’istituzione erano Gustav Klimt, il prof. Otto Wagner, Carl Moll, i professori Metzner e F. Lederer , W.F. Jager, Anton Kling, Moritz Jung, il prof. Emil Orlik, Rosa Rothansel, Richard Taschner. Come si nota, tutti austriaci, i quali per ragioni professionali operarono anche in Germania.

Sala reception della Wiener Werkstätte

L’azienda prese sede nel quartiere urbano di Neubau, al 32–34 della Neustiftgasse, dove fu ristrutturato un edificio commerciale già esistente. I piani spaziosi ospitarono gli uffici e l’intero complesso delle attività produttive. L’igiene era alla base di una bellezza invitante, si leggeva sui giornali. Gli ambienti interni erano luminosi e salubri – a differenza delle solite fabbriche, sporche e tristi come caserme – le pareti e le parti in legno erano dipinte di bianco, quelle in ferro erano blu o rosse; inoltre, per caratterizzare ogni laboratorio vi dominava un colore specifico. All’entrata era posta una sala reception, che permetteva la collocazione a vista dei prodotti realizzati. La sala era dotata di vari salottini per le contrattazioni; in aggiunta, nel 1907, fu aperto un negozio nel centro della città, così anche il pubblicò poté ammirare direttamente le creazioni. Nelle vetrine della sala espositiva, incassate a muro, era presentata una panoramica delle numerose opere d’arte in metallo prezioso, legno, cuoio, vetro e pietre dure, gioielli e oggetti d’uso quotidiano. Tutte in forme rigorosamente coerenti alla propria funzione e al materiale. Spingendosi avanti, si incontravano gli uffici di progettazione per l’architettura e le arti applicate; nonché una buona biblioteca per istruirsi o aggiornarsi. La gran parte dello spazio dell’edificio era chiaramente destinata ai vari laboratori, dedicati alle lavorazioni di oreficeria, argenteria, gioielleria con incastonati avori cesellati e pietre preziose, officine per tutti i tipi di metalli o per l’intaglio del legno. C’era persino la legatoria per i libri e non mancavano la pelletteria, la sartoria e la modisteria, dove venivano foggiati con stile nuovi modelli di abiti, accessori e cappelli.

Alcuni dei laboratori

Piuttosto che il rumore della fabbrica, questo era il luogo dell’artigianato più silenzioso, seppure anche qui fossero installate attrezzature meccaniche. La Wiener Werkstätte, infatti, era al passo con tutte le innovazioni tecniche del momento, con una differenza sostanziale, come le cronache dell’epoca evidenziavano: «È completamente attrezzata, ma qui la macchina non è sovrana e tiranna, è invece al servizio degli artigiani, e i prodotti non ne presentano la fisionomia industriale, ma esprimono lo spirito dei loro creatori all’insegna dell’arte». La Wiener Werkstatte si articolava, dunque, in numerose manifatture, e per altre operazioni, che non poteva svolgere direttamente, si appoggiava ad una rete di fabbriche specializzate di alto pregio.

Servizio da tè di Josef Hoffmann, 1903 – © MAK/Georg Mayer
L’archivio della Wiener Werkstätte è oggi conservato al MAK – Museo di Arti applicate di Vienna ed è costituito da 16.000 bozzetti e 20.000 pezzi fra corrispondenza commerciale, cataloghi, campionature, manifesti pubblicitari, album fotografici. Inoltre, il museo espone una raccolta dei prodotti per documentare tutte le fasi creative dell’azienda.

Josef Hoffmann, ad esempio, intrattenne con la viennese J&L Lobmeyr, produttrice di lampadari e cristallerie, un lungo rapporto di collaborazione, reso più intenso dall’amicizia con Stefan Rath, che aveva ereditato la società dal nonno. Gli articoli in ceramica furono invece prodotti nella Wiener Keramic-Werkstatte condotta da Michael Powolny e dal prof. Berthold Loffler, le lavorazioni a mosaico furono eseguite nella Wiener Mosaic-Werkstatte guidata da Leopold Forstner, i tessuti stampati a macchina od operati a mano furono realizzati da Backhausen and Sons, così molte altre attività furono compiute sempre in stretto contatto con la WAV, come familiarmente era chiamata la Wiener Werkstätte fra gli addetti ai lavori.

Sale da pranzo del Sanatorio Purkersdorf

Il settore di architettura era uno dei più importanti all’interno della Wiener Werkstätte. L’architetto responsabile, Paul Roller, aveva studiato col prof. Otto Wagner all’Accademia di Belle Arti, come d’altronde aveva fatto lo stesso Hoffmann. Paul Roller era più di un architetto, informa sempre The Studio: «Pratico come un muratore, avendo attraversato tutte le fasi del suo mestiere, è un operaio completo nel miglior senso della parola, oltre ad essere un uomo della più alta intelligenza. Ha diversi giovani architetti che lavorano sotto di lui, come Karl Brauer, Emil Gerzabek, Wilhelm Martens, Johann Schloss e Rudolf Auswald, tutti ex studenti della Kunstgewerbeschule di Vienna, un fatto che la dice lunga sulla qualità del lavoro svolto alla Werkstatte». Questa attenzione all’architettura era sostanziale nella conduzione dell’azienda. Per capire come una iniziativa, sia pure artistica, possa imporsi (o al contrario declinare) non si possono tralasciare le strategie economiche e finanziarie. L’amicizia fra Josef Hoffmann e Berta Zuckerkandl portò, ad esempio, al primo grande incarico per la Wiener Werkstätte, il sanatorio di Purkersdorf, ad ovest di Vienna, edificato negli anni 1904-05 per conto del cognato di Berta, l’industriale Victor Zuckerkandl.

Sala da pranzo di Palazzo Stoclet, alle pareti il Fregio di Klimt

L’altro incarico di notevole risonanza fu palazzo Stoclet, il più famoso progetto di Josef Hoffmann, realizzato tra il 1905 e il 1911 nell’hinterland di Bruxelles. A Vienna e in altre città dell’Austria la Wiener Werkstätte costruì o ristrutturò ville, arredandole e decorandole di tutto punto. Si realizzarono negozi e uffici in molte località ed anche il governo austriaco richiese l’intervento dell’azienda. Per eseguire le opere di falegnameria, inizialmente nel 1904, s’impiantò un laboratorio interno, ma ben presto fu necessario commissionare la produzione di mobili ad eccellenti falegnami ed ebanisti come Portois & Fix, Johann Soulek (Palais Stoclet, Haus Ast), Anton Ziprosch e Franz Gloser (Purkersdorf), Anton Herrgesell, Anton Pospisil, Friedrich Otto Schmidt e Johann Niedermoser. In ogni caso, tutti i lavori affidati ai maestri artigiani dovevano rispondere a requisiti di qualità estremamente severi, affinché i prodotti si potessero esporre e commercializzare nei punti vendita della capitale o nelle filiali all’estero: Karlsbad (1909), Marienbad e Zurigo (1916/17), New York (1922), Berlino (1929).

Architetture, arredo e complementi, erano solo una parte della produzione diretta o indiretta della Wiener Werkstatte. Al suo interno, per fare ancora un esempio, non si stampavano libri, ma si graficizzavano e si seguivano nel loro percorso editoriale e finalmente, quando erano pronti, i sedicesimi venivano rilegati in marocchino con la massima cura. Era utilizzato soltanto il cuoio migliore, dando vita a creazioni eleganti e resistenti, ma dal costo elevato. Erano libri per bibliofili, dalle copertine pregiate, trattate o intarsiate con oro, eseguite su disegni personalizzati da Hoffmann, da Moser, da Czeschka o da qualche altro artista specificamente richiesto dai committenti. A dirigere la legatoria era un maestro rilegatore di nome Beitel. In un differente laboratorio, altri maestri artigiani erano invece indaffarati nella realizzazione di borse da donna in pelle o astucci per oggetti di valore, anche questi fatti esclusivamente a mano. L’ultimo ideato fu il reparto in cui foggiare le “mode”, così erano chiamate tutte quelle creazioni di lusso con ruolo sempre crescente nei gusti raffinati dell’alta società, come nel caso di abiti femminili e cappelli. Il settore – affidato a Edward Wimmer, originale artista dalla fervida fantasia, assistito dalla sarta Marianne Zeis – produsse creazioni moderne in seta e nei migliori tessuti, su modelli ideati dagli stilisti. La Wiener Werkstätte s’impose, dunque, come sinonimo di eleganza e raffinatezza. Una infinità di prodotti che esprimevano un savoir-faire unico. Un patrimonio di composizioni innovative, realizzate con dedizione. Un impegno dinamico, per dare spazio alla modernità.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Bologna – Ivan Dimitrov: “Sotto il segno dei portici” candidati a Patrimonio Unesco

Bologna- Sala Museale “Possati”- Complesso del Baraccano – Via Santo Stefano 119
SOTTO IL SEGNO DEI PORTICI – i bassorilievi dipinti di Ivan Dimitrov
Seconda tappa dal 15 maggio al 20 giugno 2021
Sito web: www.ivandimitrov.com

La seconda tappa della mostra, sospesa lo scorso novembre a causa dell’emergenza Covid, riparte dal 15 maggio al 20 giugno 2021

Ivan Dimitrov, via Zamboni

Riparte presso la sala Museale Possati del Complesso del Baraccano l’attesa seconda tappa della mostra “Sotto il segno dei portici”, la mostra che lo scultore Ivan Dimitrov ha dedicato i portici di Bologna in occasione della loro candidatura a Patrimonio Unesco. Riprende così il percorso espositivo della mostra, interrotto a novembre a causa delle limitazioni Covid.

L’esposizione, composta da circa 60 bassorilievi in terracotta ad effetto tridimensionale, è arricchita da alcune opere inedite realizzate dall’artista appositamente per l’occasione tra le quali uno scorcio di Piazza Santo Stefano inquadrata tra le due file di portici prospicienti la piazza, uno scorcio del particolarissimo colonnato del portico del Baraccano, e altri portici in cui Dimitrov ha potuto evidenziare, con la sua particolare tecnica ad effetto tridimensionale, la profondità e l’effetto prospettico.

Ivan Dimitrov, via Santa Caterina

Ivan Dimitrov, artista originario della Bulgaria, conosciuto ed apprezzato a livello nazionale, si e formato artisticamente in Italia ed ha scelto Bologna come sede di lavoro , dove ha realizzato importanti cicli di mostre.
La mostra è un omaggio alla nostra città ed ai suoi portici: “E’ una Bologna trascorsa ma sempre attuale, un rifugio di serenità e pace che facilmente diventa sentimento e trascolora in poesia dolce, sincera, mai scontata. L’evocazione di Dimitrov è anche magia. Trasforma il vero dei portici, dei vicoli umili, dei muri sbrecciati, dei palazzi storici nella sorpresa della scoperta, nell’incanto del gioco di ombre e riverberi, nell’inatteso delle fughe di colonne. Non si sovrappongono presenze umane per non travisare il rapporto diretto con portici e case che vengono apprezzati nella loro intima realtà. Colti in un’ora meridiana, caldi di luce ferma, di riflessi dorati sui riarsi colori bolognesi, portici, cortili e tetti, avvolti nel silenzio, diventano uno stato d’animo, un’eco di nostalgia e tenerezza: il capolavoro di secoli di esistenza e la più efficace presentazione del cuore di Bologna”. (Celide Masini).

La mostra fa parte delle iniziative incluse nel piano di gestione a sostegno della Candidatura dei Portici di Bologna a Patrimonio Universale UNESCO il cui verdetto è atteso entro l’estate.

Una delle terracotte che ritrae uno scorcio di Piazza Santa Stefano sarà esposta, in concomitanza con la mostra, presso il Ristorante Al Pappagallo per sottolineare ancora una volta il concetto di fruibilità dell’Arte nei luoghi conviviali. Un sodalizio di eccellenze che raccontano la bellezza e la tradizione, ognuna con il suo linguaggio espressivo.

Organizzata dal Quartiere Santo Stefano di Bologna, con il patrocinio della Regione Emilia- Romagna, curata dalla galleria d’arte Studio Santo Stefano, la mostra sarà visitabile nei seguenti orari: feriali 9,30-12,30 e 15-18 – domenica e festivi 9,30-12,30 e 15-19.
L’ ingresso è gratuito, regolato nel rispetto delle normative vigenti.

IMMAGINE DI APERTURA – Particolare dell’opera dello scultore Ivan Dimitrov

Davide Crippa, Barbara Di Prete – Verso un’estetica del momentaneo

Attualmente la progettazione architettonica sembra interessata non solo allo spazio e alla forma, ma soprattutto a tutto ciò che nello spazio accade: persegue un’estetica aperta e mutevole, un “paesaggio di azioni” in cui i comportamenti dei fruitori assumono un valore estetico. La celebrazione del vivere urbano e delle ritualità quotidiane, che vengono innalzati ad una dimensione “spettacolare”, partecipano così alla definizione compositiva dello spazio. In questi progetti, costantemente mutevoli e godi in “quell’unico istante”, prevale dunque la dimensione temporale; in tal senso l’architettura si avvicina ad espressioni quasi performative ed è manifestazione di una nuova estetica del momentaneo. I fruitori recitano, inconsapevoli, la parte di un copione aperto: è una “nuova teatralità”, spontanea, che si afferma all’interno di una società in cui media, spettacolo e realtà vivono frammisti, ed in cui i progetti si configurano sempre più come scene in movimento, moderne “composizioni narranti”.

CONTINUA A LEGGERE SU ACADEMIA.EDU (OPPURE SCARICA IL SAGGIO): Verso un’estetica del momentaneo. L’architettura degli interni: dal progetto al «processo»

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica tratta dalla copertina del volume

Bologna: La Fondazione Mast presenta DISPLACED del fotografo Richard Mosse

RICHARD MOSSE – DISPLACED
Fondazione MAST 7 maggio 2021 – 19 settembre 2021
Via Speranza, 42 – Bologna https://www.mast.org/
Ingresso gratuito solo su prenotazione – Orari: martedì/domenica 10:00 – 20:00

© Richard Mosse Lost Fun Zone, eastern Democratic Republic of Congo, 2012 * serie Infra
Courtesy of the artist and carlier | gebauer, Berlin/Madrid
 Il campo profughi di Kanyaruchinya, nel Kivu Nord, ha ospitato almeno 60.000 persone migrate verso sud dal territorio di Rutshuru per sfuggire ai ribelli dell’M23. Questa fotografia è stata scattata alla fine di ottobre 2012. Solo poche settimane dopo, la popolazione di Kanyaruchinya sarebbe stata costretta a fuggire di nuovo, abbandonando il campo in fretta e furia.

La Fondazione MAST presenta Displaced, la prima mostra antologica dell’artista Richard Mosse. Curata da Urs Stahel, la mostra presenta un’ampia selezione dell’opera del fotografo irlandese, un’esplorazione tra la fotografia documentaria e l’arte contemporanea su Migrazione, Conflitto e Cambiamento climatico, che ha l’intento di mostrare quel confine in cui si scontrano i cambiamenti sociali, economici e politici. In mostra alla Fondazione MAST sono esposte 77 fotografie di grande formato inclusi i lavori più recenti della serie Tristes Tropiques (2020), realizzati nell’Amazzonia brasiliana. Oltre a queste straordinarie immagini, la mostra propone anche due monumentali videoinstallazioni immersive, The Enclave (2013) e Incoming (2017), un grande video wall a 16 canali Grid (Moria) (2017) e il video Quick (2010).

“Richard Mosse crede fermamente nella potenza intrinseca dell’immagine, ma di regola rinuncia a scattare le classiche immagini iconiche legate a un evento. Preferisce piuttosto rendere conto delle circostanze, del contesto, mettere ciò che precede e ciò che segue al centro della sua riflessione. Le sue fotografie non mostrano il conflitto, la battaglia, l’attraversamento del confine, in altri termini il momento culminante, ma il mondo che segue la nascita e la catastrofe. L’artista è estremamente determinato a rilanciare la fotografia documentaria, facendola uscire dal vicolo cieco in cui è stata rinchiusa. Vuole sovvertire le convenzionali narrazioni mediatiche attraverso nuove tecnologie, spesso di derivazione militare, proprio per scardinare i criteri rappresentativi della fotografia di guerra”, spiega il curatore Urs Stahel.

I primi lavori (MAST.Gallery) – Richard Mosse inizia a occuparsi di fotografia nei primi anni 2000, mentre termina gli studi universitari. I suoi primi lavori scattati in Bosnia, in Kosovo, nella Striscia di Gaza, lungo la frontiera fra Messico e Stati Uniti sono caratterizzati dall’assenza quasi totale di figure umane. Solo nelle immagini che compongono la serie Breach (2009), incentrata sull’occupazione dei palazzi imperiali di Saddam Hussein in Iraq da parte dell’esercito americano, sono presenti personaggi in azione. Questi primi lavori documentano le zone di guerra dopo gli eventi, non mostrano il conflitto, la battaglia, l’attraversamento del confine, ma il mondo che segue la catastrofe. Immagini emblematiche di distruzione, sconfitta e collasso dei sistemi: l’aftermath photography, la fotografia dell’indomani. Infra (MAST.Gallery) e The Enclave (Livello 0) – Tra il 2010 e il 2015, prima per Infra e poi per The Enclave, complessa videoinstallazione in sei parti sullo stesso tema, Richard Mosse si reca nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Nord Kivu, dove viene estratto il coltan, un minerale altamente tossico da cui si ricava il tantalio, materiale che trova largo impiego nell’industria elettronica e che è presente in tutti i nostri smartphone. Il Congo, ricco di risorse minerarie, una delle aree più ricche dell’intero continente africano, è segnato da continue guerre e disastri umanitari senza precedenti: dopo il genocidio in Ruanda del 1994 le milizie ribelli stabilitesi nella Repubblica democratica del Congo non hanno mai smesso di alimentare nuove ondate di violenza.

Per i suoi scatti in queste zone devastate Mosse ha scelto Kodak Aerochrome, una pellicola da ricognizione militare sensibile ai raggi infrarossi, ormai fuori produzione, messa a punto per localizzare i soggetti mimetizzati. Negli scatti di Infra, la pellicola registra la clorofilla presente nella vegetazione e “rende visibile l’invisibile”, con il risultato che la lussureggiante foresta pluviale congolese viene trasfigurata in uno splendido paesaggio surreale dai toni del rosa e del rosso. In Infra sono fotografati paesaggi maestosi, scene con ribelli, civili e militari, le capanne in cui la popolazione, sempre in fuga, trova momentaneo riparo da un perenne conflitto combattuto con machete e fucili. Con questa serie e questa tecnologia, Richard Mosse vuole scardinare i criteri rappresentativi della fotografia di guerra.

Con l’imponente videoinstallazione in sei parti The Enclave, progetto gemello di Infra, Richard Mosse svela il contrasto tra la magnifica natura della foresta della Repubblica Democratica del Congo e la violenza dei soldati dell’esercito e dei ribelli. Tra l’erba alta e nella rigogliosa boscaglia si susseguono azioni militari, addestramenti e scontri tra i combattenti. I rumori, al pari delle immagini, sono intensi e aggressivi, quasi dolorosi, dopo la carrellata della telecamera sui soldati uccisi. I suoni diventano poi melodie e lasciano spazio ad un paesaggio ridente, aperto e calmo. Il fotografo e regista, accompagnato dall’operatore Trevor Tweeten e dal compositore Ben Frost, ha realizzato The Enclave per il Padiglione Irlandese alla 55° edizione della Biennale di Venezia nel 2013, ispirandosi al celebre romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad.

Heat Maps (MAST.Gallery Foyer) e Incoming (Livello 0) – Dal 2014 al 2018 Mosse si è concentrato sulla migrazione di massa e sulle tensioni causate dalla dicotomia tra apertura e chiusura dei confini, tra compassione e rifiuto, cultura dell’accoglienza e rimpatrio. Mosse si reca nei campi profughi Skaramagas in Grecia, Tel Sarhoun e Arsal a nord della valle della Beqa’ in Libano, i campi di Nizip I e Nizip II nella provincia di Gaziantep in Turchia, il campo profughi nell’area dell’ex aeroporto di Tempelhof a Berlino e molti altri.

Per Heat Maps e la video installazione Incoming, Mosse impiega una termocamera in grado di registrare le
differenze di calore nell’intervallo degli infrarossi: invece di immortalare i riflessi della luce, registra le cosiddette“heat maps”, le mappe termiche. Si tratta di una tecnica militare nota sin dalla guerra di Corea che
consente di “vedere” le figure umane fino a una distanza di trenta chilometri, di giorno come di notte. Le immagini
sono apparentemente nitide, precise e ricche di contrasto. A un esame più attento, invece, non si riescono a distinguere i dettagli ma solo astrazioni: persone e oggetti sono riconoscibili solo come tipologie, nei loro movimenti o nei contorni, ma non nella loro individualità e unicità.

Incoming (2017) è un’installazione audiovisiva divisa in tre parti che utilizza la stessa tecnologia impiegata per la serie fotografica Heat Maps, la termografia a infrarosso. Richard Mosse, che ne è il regista e produttore, e il suo
team – il direttore della fotografia Trevor Tweeten e il compositore e sound designer Ben Frost – hanno lavorato su tre scenari: nella prima parte, girata su una portaerei, sono ripresi i preparativi per il decollo di jet militari impegnati in operazioni di controllo dei cieli del Mediterraneo. Nella seconda parte, i protagonisti sono invece i migranti in
arrivo su barconi sovraffollati, persone esauste e spesso ferite, che attendono soccorsi e, in alcuni casi, il riconoscimento post mortem. Infine, nella terza parte, i migranti sono alloggiati nei campi profughi, tra tende e
capannoni, ripresi nella loro nuova e forzata quotidianità, bloccati nell’attesa di riprendere il
loro lungo viaggio di speranza verso l’Europa centrale.

Per produrre il video wall del 2017 Grid (Moria), Richard Mosse si è recato più volte nell’arco di due anni nell’omonimo campo profughi sull’isola greca di Lesbo, un campo noto per le sue pessime condizioni. Le riprese sono state effettuate con termografia ad infrarosso (heat maps) e l’opera è costituita da 16 schermi che propongono lo stesso spezzone a diversi intervalli.

Ultra e Tristes Tropiques (MAST.Gallery Foyer). Tra il 2018 e il 2019, Mosse comincia a esplorare la foresta pluviale sudamericana dove per la prima volta concentra l’obiettivo sul macro e sul micro, spostando l’interesse di ricerca dai conflitti umani alle immagini della natura.

In Ultra, con la tecnica della fluorescenza UV, Mosse scandaglia il sottobosco, i licheni, i muschi, le orchidee, le piante carnivore e, alterando lo spettro cromatico, trasforma questi primi piani in uno spettacolo pirotecnico di colori fluorescenti e scintillanti. La biodiversità viene descritta minuziosamente tra proliferazione e parassitismo, tra voracità e convivenza, per mostrarci la ricchezza che rischiamo di perdere a causa dei cambiamenti climatici e dell’intervento dell’uomo.

Tristes Tropiques è la serie più recente di Richard Mosse: documenta con la precisione della tecnologia satellitare la distruzione dell’ecosistema ad opera dell’uomo. La tecnica fotografica utilizzata è ciò che l’artista e cartografo Denis Woods definisce “counter mapping”, una forma di cartografia di resistenza che grazie a fotografie ortografiche multispettrali mostra i danni ambientali difficilmente visibili dall’occhio umano.

Richard Mosse ha scattato queste fotografie di denuncia lungo “l’arco del fuoco”, nel Pantanal, il fronte di deforestazione di massa nell’Amazzonia brasiliana. I droni rilevano come in una mappa le tracce del fuoco che avanza lungo le radici delle foreste, gli effetti dell’allevamento intensivo, delle miniere illegali per l’estrazione di oro e minerali.

Ogni mappa di Tristes Tropiques mostra i delitti ambientali perpetrati su vasta scala, diventando per il fotografo un archivio che li documenta. Il video Quick del 2010 completa le video-installazioni al Livello 0: è un filmato girato dallo stesso Richard Mosse che ricostruisce la genesi della sua ricerca e della sua pratica artistica attraverso i temi a lui cari come la circolazione del virus Ebola, la quarantena e l’isolamento, i conflitti e le migrazioni, muovendosi tra la Malesia e il Congo orientale.

Il catalogo che accompagna la mostra propone tutte le immagini esposte oltre a un saggio critico del curatore della mostra Urs Stahel e testimonianze di Michel J. Kavanagh, inviato in Congo e in Africa centrale dal 2004 per “Economist”, “Bloomberg News”, il “New York Times”, la BBC, e altri organi d’informazione, Christian Viveros-Fauné, curatore capo presso l’University of South Florida Contemporary Art Museum, e Ivo Quaranta, professore di Antropologia culturale all’Università di Bologna. Il volume, edito dalla Fondazione MAST, è distribuito da Corraini ed è disponibile in libreria e online su www.mast.org e www.corraini.com.

© Richard MosseOf Lilies and Remains, eastern Democratic Republic of Congo, 2012 * serie Infra (Particolare) DZ Bank Art Collection
Teschio di una vittima del massacro perpetrato dalle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR) a Busurungi nel 2009. Il teschio è stato portato in segreto a Chambucha su richiesta dei parenti superstiti, in modo tale che potesse essere documentato senza che le FDLR mettessero in atto rappresaglie contro gli abitanti di Busurungi. Il fotografo lo ha collocato nell’erba bagnata vicino a un fiume e lo ha decorato con alcuni fiori, quasi fosse un memento mori.

IMMAGINE DI APERTURA© Richard MosseOf Lilies and Remains, eastern Democratic Republic of Congo, 2012 * serie Infra (Particolare) DZ Bank Art Collection

Josef Hoffmann – Posate Modello Flat, 1904

Questo particolare servizio di posale fu uno dei primi prodotti della Wiener Werkstätte (Laboratori viennesi), e fu progettato da Josef Hoffmann, il quale, insieme a Koloman Moser e Fritz Warndorfer, ha fondato questa particolare azienda che operò in modo innovativo per una trentina d’anni, a partire dal 1903 fino al 1932. Uno dei principi adottati fu quello della funzionalità, espressa con prodotti dalle linee rigorose, essenziali, prive della decorazione superflua e ridondante comunemente usata. Il design moderno delle posate Modello Flat, ossia “piatto”, è un encomiabile esempio di questo principio estetico. Le posate non avevano alcuna decorazione, salvo quattro piccole biglie all’estremità del manico. Inoltre, sull’impugnatura era inciso un duplice contrassegno. L’azienda puntava, infatti, alla valorizzazione del lavoro non del solo progettista, ma anche dell’artigiano, ispirandosi agli insegnamenti Arts and Crafts e della Secessione viennese. Di quest’ultimo movimento i fondatori rappresentavano una espressione diretta. Perciò, nel momento in cui ogni articolo lasciava l’azienda per essere esposto in uno dei suoi negozi, occorreva che il mondo venisse a conoscenza di chi aveva partecipato al suo iter produttivo e valoriale. Come a noi sono noti molti nomi delle epoche passate, così anche il pezzo di design della Wiener Werkstätte portava le iniziali sia dell’artista che aveva progettato l’opera, sia dell’artigiano che materialmente lo aveva realizzato con maestria. Nei casi in cui la stessa iniziale appariva due volte su di uno stesso oggetto, significava che l’artista e l’artigiano erano la medesima persona. L’apposizione dei monogrammi non valorizzava soltanto gli articoli in oro od argento, ma tutta la produzione, anche quella realizzata in altri metalli meno preziosi. Anche queste posate Modello Flat, dunque, sfoggiavano su ogni manico il monogramma di Hoffmann.

Principali monogrammi della Wiener Werkstatte

L’attenzione quasi maniacale di Hoffmann e Moser per le superfici ampie e lisce, nonché per le forme geometriche regolari, non risultarono del tutto apprezzate dal pubblico. Per il gusto comune, questi singolari pezzi di design erano, infatti, troppo in anticipo sui tempi. Nel recensire l’esposizione della Wiener Werkstatte del 1906, dal titolo La tavola apparecchiata (Der Gedeckter Tisch), il Deutsche Zeitung criticò Hoffmann e Moser per l’esasperato geometrismo, a detta del giornale ben lontano da qualsiasi forma d’arte. Per l’Hamburger Fremdenblatt le posate risultavano quanto mai scomode, per questo motivo piuttosto che un set da tavola, erano da considerarsi alla stregua di “strumenti chirurgici”. Nello stesso anno 1906, il critico Armin Friedmann commentò sarcastico che prima di iniziare i pasti si sarebbe dovuto rendere grazie a Dio del cibo concesso, non solo utilizzando quelle nuove posate, ma anche recitando una nuova preghiera, come questa: «Benedici le linee che stiamo per ricevere… Benedici il righello e il compasso che ci occorrono per tagliare la carne con una correttezza stilistica esemplare». E concludeva acido: «Qui la follia si sposa alla geometria». Naturalmente i due progettisti non si scomposero, poiché Moser avrebbe voluto radicalizzare ancor più l’austerità dei servizi per la cucina e per il pranzo. Arrivò infatti al punto d’inventare nuove attrezzature per la realizzazione di dolci, che però soltanto qualche pasticcere provò a utilizzare, ma senza troppa convinzione.  

Non desterà meraviglia sapere che la produzione di queste posate fu sospesa dopo appena quattro anni. Erano certamente delle forme particolari, frutto di un proto-design sperimentale tutto da scoprire. Pur tuttavia, il loro approccio stilistico venne ripreso da altri progettisti per il disegno di articoli domestici successivamente realizzati. In effetti, indipendentemente dall’accoglienza o meno del pubblico, molti di questi oggetti d’arte, creati per la produzione seriale, hanno continuato a influenzare la ricerca industriale per molto tempo a venire. Ciò valse, a più forte ragione, all’interno della stessa Wiener Werkstatte, poiché la serie di posate fu creata proprio negli anni in cui gli oggetti di metallo e di oreficeria rappresentarono il core business dell’azienda. In particolare, questo servizio composto da trentatré posate fu prodotto in argento, in silver plate e in argento dorato. Oggi è esposto nei grandi musei di arte moderna.