Ridisegnare la casa: i negozi di Bing e Meier-Graefe in omaggio alla donna emancipata

di Sergio Bertolami

22 – La Maison de l’Art Nouveau e La Maison Moderne

Nel loro Journal (1851-1870) i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, avevano annotato più volte notizie riguardanti le proprie collezioni di stampe orientali. Vi si legge: «Tutto ciò che [i giapponesi] fanno è prendere da ciò che osservano. Loro rappresentano quanto vedono: l’effetto incredibile del cielo, le strisce su di un fungo, la trasparenza di una medusa». Trentacinque anni più tardi l’idea si conservava ancora intatta. Scriveva Peter Altemberger su Ver Sacrum: «I giapponesi dipingono un ramo fiorito ed è tutta la primavera. Da noi si dipinge tutta la primavera e ne esce appena un ramo fiorito». L’influenza esotica aveva fortemente contrassegnato le creazioni delle industrie artistiche francesi: bronzi, ceramiche, cristalli, mobili, tessuti, carte da parati. Persino le sculture rispecchiavano il nuovo gusto. L’accademico Alexandre Falguière aveva, infatti, rappresentato L’Asia in stile giapponese. Era una delle sei statue realizzate per la serie I sei Continenti all’Esposizione Universale di Parigi del 1878. Tutti i grandi atelier artistici avevano preso in prestito dai giapponesi i motivi esotici: nelle opere di alta oreficeria di Bouilhet o di Christofle, nei gioielli di lusso di Falize, nei raffinati cristalli di Baccarat. Questo esotismo di espandeva anche fuori di Francia: negli Stati Uniti a New York con i gioielli di Tiffany, in Inghilterra a Worcester con la porcellana “bone china ”, in Belgio a La Louvière con le ceramiche Boch Frères.

Panorama dell’esposizione universale del 1878

Bing fece di meglio. Basta riassumere brevemente il suo percorso, per rendersi conto. Aveva preso il controllo degli affari parigini di famiglia subito dopo la guerra franco-prussiana e per rinsaldare la posizione aveva anche ottenuto la cittadinanza francese nel 1876. Il suo primo contatto con l’arte giapponese come collezionista si può datare intorno al 1860; la commercializzazione vera e propria fu avviata negli anni Settanta dell’Ottocento; l’apertura del negozio in rue Chauchut coincise con l’Esposizione Internazionale di Parigi del 1878; il primo viaggio in Giappone nel 1880 gli permise di acquisire arte giapponese, sia antica che contemporanea. Sappiamo bene che alcuni commercianti – come Madame de Soye per La Porte Chinoise – si accontentavano di scegliere la propria merce orientale fra quanto regolarmente era scaricato nei porti francesi. Altri, invece, come i fratelli Sichel (Auguste, Philippe e Otto), ad esempio, passavano diversi mesi nel lontano arcipelago per stringere contratti d’affari ed ottenere prodotti migliori e più vari. Ma nessuno come Siegfried Bing era riuscito a stabilire rapporti commerciali con i collezionisti privati giapponesi di antichità, le cui aziende erano ancora fuori dalla portata degli stranieri. Per questo aprì uffici a Yokohama e Kobe, e ciò gli permise di espandere le proprie vendite d’arte giapponese anche ai musei, in Francia e all’estero. Questi rapporti diretti permisero di pubblicare fra maggio 1888 ed aprile 1891 un elegante mensilmente in tre lingue, Le Japon artistique, sottotitolato Document d’art et d’industrie.

Le Japon artistique

A chi si rivolgeva questo nuovo periodico? È Bing stesso a precisarlo: «Si rivolge in particolare alle tante persone che, a qualsiasi titolo, sono interessate al futuro delle nostre arti industriali, in particolare a voi, modesti lavoratori o grandi manifatturieri, che avete un ruolo attivo in questa parte della nostra forza produttiva. Nelle nuove formule artistiche che ci sono arrivate dalla costa più estrema dell’Estremo Oriente, dobbiamo cercare qualcosa di più di un piacere platonico [che tanto interessa] i nostri dilettanti dall’umore contemplativo. Vi troveremo esempi degni a tutti gli effetti di essere seguiti, non certo per scuotere le basi del nostro vecchio edificio estetico, ma per arrivare ad aggiungere una forza in più a tutte quelle di cui per secoli ci siamo appropriati per sostenere il nostro genio nazionale». Tuttavia, occorreva esprimere una predilezione tra i tanti modelli che si erano fatti strada negli ultimi anni in Europa: «Tra questi modelli, dovremo ora scegliere quelli che, con il sapore della terra, si uniscono anche alla bellezza eclettica che non ha patria; un’attenzione particolare dovrebbe essere data ai soggetti che si adatteranno senza sforzo alle esigenze e ai costumi della nostra cultura occidentale, evitando tutto ciò che servirebbe semplicemente a provocare peccati ciechi o pastiche umilianti […] I nostri produttori sono troppo saggi per lasciare inutilizzata una tale abbondanza di risorse preziose, e tra disegnatori industriali e illustratori di libri, tra architetti e decoratori, produttori di carta da parati o fantasia, tra stampatori di tessuti e tessitori di seta, ceramisti, bronzieri e orafi, come finalmente tra tutta la folla di operai impiegati in un centinaio di piccole industrie, non ce n’è uno che non troverà proficua consultazione da una raccolta di documenti che riassume il lavoro di diverse generazioni di valorosi artisti». Il ragionamento di Bing si innestava sensatamente nell’arte del suo tempo: se l’eclettismo aveva carattere universale, perché «la beauté éclectique n’a pas de patrie», allora anche dalla cultura giapponese si potevano cogliere i frutti giusti.

Manifesto della mostra del 1899 curata da Bing alla Grafton Gallery di Londra

L’appello di Bing non rimase inascoltato. Molte delle grandi Maison dell’epoca si rivolsero al naturalismo del “filo d’erba” d’ispirazione giapponese, tralasciando le artificiose composizioni floreali di bouquet e ghirlande in Stile secondo Impero. Ecco, dunque, le nuove produzioni in vetro di Gallé o Lalique, i gioielli di Henri Vever, le porcellane di Limoges di Robert Haviland o quelle di Sèvres, i vasi di Tiffany a New York. Ma in quell’appello Bing stava delineando anche il suo futuro impegno personale. Poteva, infatti, spingere al massimo i propri interessi, verso una nuova visione dell’arte, facendo affidamento su di una straordinaria rete di colleghi ed amici, giovani e anziani, francesi, belgi, tedeschi. Il viaggio di Bing a Bruxelles nel 1893, in compagnia dello scrittore e critico Meier-Graefe, per incontrare l’artista van de Velde permise di definire i presupposti per la creazione della nuova galleria Art Nouveau. Il viaggio negli Stati Uniti nel 1894, dove conobbe Louis Comfort Tiffany, confermò che il sogno fino ad allora serbato doveva essere intrapreso. Meier-Graefe apparteneva ad una generazione più giovane della sua, per questo agì come un interprete delle nuove idee, quando insieme decisero che per raggiungere un vasto pubblico occorreva modernizzare gli interni delle case contemporanee, rendendole pratiche, quanto esteticamente gradevoli.

Maison Bing, di proprietà di Siegfried Bing, al 22 di rue de Provence, all’angolo di rue Chauchat, costruito nel 1895 da Louis Bonnier e distrutto nel 1922.

Il progetto si concretizzò nel 1895, allestendo La Maison de l’Art nouveau, al n. 22 di rue de Provence, appena voltato l’angolo di rue Chauchat dove al n.19 riscuoteva successo con la sua arte giapponese. In occasione del primo Salon dell’Art Nouveau, nel 1896, Meier-Graefe pubblicò non meno di tre articoli per la rivista Das Atelier su ciò che visse in prima persona nella nuova galleria d’arte. Bing aveva invitato artisti di tutta Europa a presentare opere, commissionò un manifesto all’artista svizzero Félix Vallotton e chiese all’artista belga Georges Lemmen di realizzare una stampa per la quale lui stesso chiarì quali fossero i suoi obiettivi estetici: «L’Art Nouveau si sforzerà di eliminare ciò che è brutto e pretenzioso in tutte le cose che attualmente ci circondano per donare il gusto perfetto, il fascino e la bellezza naturale, anche agli oggetti utilitari meno importanti».

Pubblicità pubblicata nel 1895 sulla rivista d’arte Pan
Ingresso alla Maison Art Nouveau al 22 rue de Provence a Parigi nel 1895.

Henry van de Velde progettò la maggior parte degli interni del negozio, mentre Tiffany & Co. spedì i suoi vetri policromi per le finestre e i pannelli decorativi. La galleria di Bing presentava intere stanze allestite nel nuovo stile Art Nouveau ed esponeva tessuti disegnati da William Morris e mobili di Georges de Feure. Nulla fu lasciato al caso, rinnovando il preesistente edificio e l’azienda. Meier-Graefe su Das Atelier, commentò le varie novità, in particolare l’importanza delle innovazioni che caratterizzavano le stanze. Il negozio esponeva non più singoli oggetti d’arte, ma varie tipologie d’interni, che Bing aveva commissionato all’architetto belga. Sottolineò l’impatto estetico della sala da pranzo e delle stanze più piccole posizionate su entrambi i lati. Un elogio particolare lo riservò ai vetri di Tiffany, che a suo avviso avevano superato il Sol Levante: «Qui, il Giappone è per la prima volta sconfitto, tutte le sue ceramiche non hanno minimamente questa meravigliosa, chiara magia di colore […] qui il colore viene fuori puro e con la massima audacia». Con queste parole Meier-Graefe esaltava il ruolo di Bing quale mecenate delle nuove arti. Questa era ormai la nuova linea d’azione, perché agli inizi del 1898, Bing prese seriamente in considerazione di aprire, a supporto del negozio, anche un suo atelier, come aveva fatto Louis Comfort Tiffany in America e molti altri che lavoravano in Europa. Bing decise di assumere validi progettisti ed artigiani che sapevano realizzare progetti conformi alla sua visione, in modo da discostarsi dal semplice ruolo di importatore, di commerciante, di promotore di opere create da artisti di vari paesi e di varie convinzioni, per arrivare a definire una concezione unitaria, totale, che si accordasse alle proprie idee riguardo al design moderno della casa. Bing lanciò i suoi atelier alla fine del 1898.

Planimetria della Maison Bing con i due ingressi da rue Chauchat e da rue de Provence

La data precisa d’inizio dei laboratori Art Nouveau è difficile da stabilire. Gabriel P. Weisberg (Redesigning The home, Bing’s art nouveau workshops) ci informa che nel 1897 Bing stava predisponendo cornici, specchi e vari altri oggetti utili per la casa, facendo rilevare che i disegni erano in fase di completamento nei propri atelier. In altri documenti comparivano richieste per forniture di tappeti, carta da parati, compresa una serie coordinata di mobili disegnata da Henry van de Velde. Alcuni di questi primi modelli sono documentati in un album fotografico che Marcel Bing (suo figlio) ha donato al Musée des Arts décoratifs di Parigi, nel 1908. Per ospitare i laboratori, Siegfried Bing ottenne di sopraelevare la preesistente costruzione, e una volta conclusi i lavori non perse tempo nel pubblicizzare le manifatture su La Revue Illustrée. Diverse foto e grafici nell’articolo mostrano gruppi di designer, ebanisti e gioiellieri, concentrati nel lavoro. Tuttavia, come indicato dalle planimetrie del terzo piano, nonostante la ristrutturazione, le officine non erano poi così grandi da ospitare troppi artigiani. Quindi, intorno al 1899-1900, per fare fronte alla ricchezza di idee dei giovani progettisti, Bing iniziò ad affidare a sempre più aziende esterne le realizzazioni.

Atelier di progettazione

Con i suoi laboratori d’arte bene organizzati e con gli accordi stretti con le principali aziende produttrici di tessuti e ceramiche, Bing e l’amico Meier-Graefe, nel 1899 si resero presto conto di avere aperto un nuovo mercato. Anche il negozio di Meier Graefe, La Maison Moderne, sempre a Parigi, fu aperto nel 1899, a settembre. Rispondeva all’esigenza di soddisfare una clientela più giovane rispetto a quella di Bing. Ambedue erano contrari agli interni tradizionali strapieni di cianfrusaglie. Annotava Meier-Graefe: «Il gusto moderno odia tutto ciò che sembra bric-à-brac, che soffoca in questo interminabile bric-à-brac, che ha caratterizzato le case parigine durante il Secondo Impero […] Il gusto moderno guarda prima di tutto allo spazio; preferisce la luce, l’aria e il colore». Il colore, appunto, era diventato il fattore determinante nella creazione di un senso di unità nella decorazione degli interni. D’altra parte, lo scopo delle case era di viverci, e per questo motivo avrebbero dovevano trasmettere la qualità della presenza artistica. Gli oggetti, utili o decorativi, avrebbero dovuto essere realizzati dalla mano di un artista, non dalla macchina. Né più né meno di quanto avveniva in Giappone, dove l’oggetto più semplice, utilizzato in casa, metteva in mostra qualità artistiche. Era tutto questo una sorta di marketing ante litteram, uno specifico programma propagandistico rivolto alle donne moderne, alla quali era demandata la guida della casa. Ecco perché i manifesti che pubblicizzavano questi due negozi si incentravano su di una nuova figura femminile. Non una donna fatale, ma una donna vestita in modo elegante, moderna, capace di esprimere emancipazione e seduzione nel contempo, una musa ispiratrice delle varie arti innovative come la ceramica, il vetro, i tessuti, i mobili.

Maurice Biais, La Maison Moderne, ca. 1901-02. Manifesto. Parigi, Musée de la Publicité

Quando nel 1900 Bing si trovò a promuovere in modo influente la Maison de l’Art nouveau all’Exposition Universelle all’Esplanade des Invalides, era giunto il momento ineguagliabile per affermare le nuove idee. «Doveva dimostrare visivamente di aver capito che le donne, specialmente le donne alla moda, erano quelle che avrebbero avuto i mezzi per riempire le loro case con i mobili, gli oggetti d’arte, le sculture e i dipinti, che vendeva nella sua galleria. Natura e Giappone, quegli aspetti che Bing aveva utilizzato nelle precedenti campagne pubblicitarie, si combinavano in queste immagini con la nuova donna che era diventata l’icona dell’epoca della Belle Epoque» (Gabriel P. Weisberg).

Pubblicità del negozio di Bing all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Andrea Bindella, Pasquale Cavalera, Valentina Vita – Il compagno ideale

Che tu sia un sognatore, un amante della fantascienza, un appassionato del fantasy o semplicemente un tipo ironico, tra questi racconti troverai il compagno ideale per le tue letture. Se ti piace iniziare e finire una storia nell’arco di una serata, quello che ti ci vuole è proprio una storia breve. Gli specchi celano un terribile segreto, ma Stefano sembra aver trovato il modo di combatterli.

Le ex mogli possono essere davvero terribili quando decidono di vendicarsi. YouTube racchiude migliaia di corsi, riuscirà Francesco a svaligiare una banca? Riuscirà una bambina a insegnare le buone maniere agli adulti? L’agente Cobb questa volta sarà alle prese con il cattivissimo Roobbler e dovrà trovare il modo di sconfiggerlo se vorrà salvare l’umanità. Neigmor, il guerriero, sarà messo a dura prova e dovrà combattere contro dei nemici molto forti e astuti. I due elfi Hitty e Radtz dovranno affrontare innumerevoli pericoli per riuscire a salvare il loro amico. Ricardus si ritroverà a maledire il giorno in cui è quasi morto. Una delle spie più formidabili di Akgua farà una scoperta che probabilmente la porterà a morte certa.

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro 



La sezione aurea potrebbe davvero essere nata in Africa?

“Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

THE CONVERSATION

La sezione aurea potrebbe davvero essere nata in Africa?

Il design rimane una professione in gran parte bianca, con i neri ancora ampiamente sotto-rappresentati. Questo potrebbe essere attribuito al fatto che i principi prevalenti del design, fino a qualche anno fa, sembravano essere vicini alle tradizioni occidentali, con presunte origini nell’antica Grecia e nelle scuole tedesche, russe e olandesi, considerate come i modelli del settore. Una “estetica nera” sembrava improbabile. Ma cosa succederebbe a scoprire che un’estetica africana è profondamente radicata nel design occidentale? Non da oggi, ma da sempre!



LITERARY HUB

Perché così tanti romanzieri scrivono di scrittori?

David Laskin si sofferma su di un inflessibile paradosso letterario. Fare di uno scrittore il protagonista del proprio romanzo. Perché? Semplice: c’è qualcosa di irresistibile nel vedere uno scrittore esaltato, deriso, punito, perplesso, frustrato, insultato e vendicato sulla pagina.



AEON

Il Ratto di Europa di Tiziano (circa 1559-62). 
Per gentile concessione dell’Isabella Stewart Gardner Museum, Boston

Dovremmo censurare l’arte?

Abbattere dipinti sessisti o monumenti razzisti solleva tanti problemi quanti ne risolve. C’è un modo migliore per combattere l’odio? Non è un discorso semplice. In verità, la censura è sempre piena di problemi, in generale, per non parlare poi della censura artistica, che è molto più complessa.  Quindi abbiamo bisogno di trovare nuovi modi per segnalare la nostra inquietudine, il nostro disgusto e l’indignazione per l’arte che perpetua l’ingiustizia sociale. Scopriremo come fare? Leggiamo.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di OpenClipart-Vectors e fevzizirhlioglu da Pixabay

Gustavo Vitali: Il Signore di Notte – Un appassionate thriller storico nella Venezia dei dogi

Venezia, 16 aprile 1605. Viene rinvenuto nella sua modesta dimora il cadavere di un nobile caduto in miseria, primo delitto di un giallo fitto fitto che ha come sfondo la Venezia alle soglie del Barocco. Sul luogo si precipita il protagonista del racconto, Francesco Barbarigo. Come “Il Signore di Notte”, dà il titolo al racconto e richiama espressamente la magistratura incaricata dell’ordine pubblico, sei giudici e insieme capi della polizia. Si tratta di una persona realmente vissuta ai tempi così come i principali personaggi della storia che, al contrario, è di pura invenzione. Questo particolare ha comportato un copioso lavoro di ricerca come documentato nella bibliografia del libro.

È solo il primo dei delitti che affiorano in una trama intensa ed intrigante. Sono coinvolte le figure più varie, da quelle di primo piano, a quelle defilate nei contorni. L’autore apre così un’ampia carrellata su aristocratici ricconi e quelli che vivacchiano malamente, mercanti, usurai, bari, prostitute e altri. Nella vicenda tutti recitano i rispettivi ruoli e la contestualizzano in quella società veneziana che si era appena lasciata alle spalle un secolo di splendore per infilarsi in un lento declino. Compaiono anche personaggi sgradevoli, come i “bravi”, perché il tempo del declino è anche il loro, accomunati agli sgherri da una violenza sordida e sopraffattrice.

Sempre nell’ottica di addentrare il libro nella sua epoca, ecco l’aggiunta di brevi divagazioni su curiosità, usi e costumi, aneddoti, fatti e fatterelli. Costituiscono un bagaglio di informazioni sulla storia della Serenissima, senza interrompere la narrazione e senza che gli attori si defilino da questa.

Un discorso a parte merita la figura del protagonista. Se qualcuno spera nello stereotipo dell’eroe positivo, resterà deluso. Il Barbarigo è un uomo contorto che affronta le indagini con una superficialità pari solo alla sua spocchia. Vorrebbe passare come chi sa il fatto suo, spargere sicurezza, ma nel suo intimo covano ansie e antichi dolori. Non sa come cavarsi dagli impicci, cambia idea e umore da un momento all’altro, insegue ipotesi stravaganti e indaga su persone del tutto estranee al delitto. Il linguaggio è spiccio, crudo, spesso beffardo e dissacratorio, mette in ridicolo difetti e difettucci del protagonista e insieme quelli della società del tempo.

Sull’onda dell’improvvisazione e di una acclarata incapacità non si fa mancare nulla, nemmeno una relazione disinvolta, o quella che lui vorrebbe tale, con una dama tanto bella, quanto indecifrabile. Non capisce nulla neppure di questo strambo amore che gli causa presto nuovi turbamenti.

Cosicché nelle indagini, come pure nel letto, finisce con il collezionare una serie di disfatte clamorose fino a quando in suo aiuto accorre un capitano delle guardie che ha tutta l’esperienza e l’astuzia che mancano al magistrato. Tuttavia i due dovranno faticare ancora un bel pezzo per scrivere la parola fine a tutto il giallo che nel frattempo si è infittito di colpi di scena, agguati e delitti, compresi quelli che riemergono dal passato. Il finale sarà inaspettato e sorprendente.

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica libro

Minari è un film che parla del sogno americano? No, degli emigrati in America

“Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

MINIMA & MORALIA

L’intelligenza di Minari

Minari è un film drammatico americano del 2020, scritto e diretto da Lee Isaac Chung. Rappresenta una versione semi-autobiografica dell’educazione infantile dello stesso Chung. La trama segue una famiglia di immigrati sudcoreani che si trasferisce dalla California all’Arkansas, in un loro nuovo appezzamento di terreno agricolo, che il capofamiglia spera di coltivare, producendo ortaggi coreani da vendere nei supermercati di Dallas. Cosa significa Minari? “Il minari è qualcosa di meraviglioso. È magico, va nel kimchi, nella minestra, nello stufato. È una specie di prezzemolo che cresce dappertutto ed è per tutti. Poveri e ricchi possono mangiarlo”. Lo spiega così, ai nipotini, Soon-ja, la stramba nonna coreana del film Minari.



THE GUARDIAN

A caccia di libri tra le rovine: come i bibliotecari ribelli della Siria hanno trovato speranza

In una città assediata dal regime di Assad, un piccolo gruppo di rivoluzionari ha trovato una nuova missione: costruire una biblioteca con i libri salvati dalle macerie. Per chi è bloccato in città, i libri hanno offerto una fuga fantasiosa dagli orrori della guerra.



LITERARY HUB

SWISHER SWEETS

di LAURA NEWMAN

Un titolo sarcastico? Swisher Sweets è uno dei produttori di sigari più famosi al mondo. Ma non è di questo che parla la storia, se è vero che la Newman ha fondato il “Comitato per l’eroina”, un gruppo che produce e gestisce spot pubblicitari per educare i genitori sulle droghe a cui i loro figli hanno maggiori probabilità di essere esposti. La storia che leggerete è stata finalista al Virginia Woolf Award for Short Fiction di LitMag, ed è estratta dall’ultima raccolta di racconti di Laura Newman The Franklin Avenue Rookery for Wayward Babies , su persone comuni che lottano contro eventi straordinari. 

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di OpenClipart-Vectors e fevzizirhlioglu da Pixabay

In difesa delle fette biscottate… E altro ancora

“Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

EATER

In difesa delle fette biscottate

Il fascino delle fette biscottate non è in ciò che sono intrinsecamente, è in ciò che possono essere. Sebbene siano così fragili che praticamente si sbriciolano sotto il peso del tuo respiro, le fette biscottate possono assumere più peso di quanto sia apparentemente possibile.



THE CRITIC

Emergere dall’ombra della Confraternita dei Preraffaelliti

Nata nel 1829, Elizabeth (‘Lizzie’) Siddal non ha mai visto una sua poesia pubblicata nel corso della sua vita. Tra il 1850 e il 1852 si unì alla Confraternita dei Preraffaelliti, facendo da modella per Holman Hunt e Millais, per il quale ha rappresentando la figura di Ofelia. Dal 1853 posò solo per Dante Gabriel Rossetti, di cui divenne musa e amante. Molti studi interdisciplinari si sono concentrati sul recupero culturale di poetesse dimenticate del diciannovesimo secolo. Il libro di Anne Woolley rappresenta un tentativo per colmare questa pecca. L’autrice prende, infatti, Elizabeth Siddal e la trasforma nella leggenda della Confraternita dei Preraffaelliti, per farla risorgere a pieno titolo.



LITERARY HUB

IL PASSEGGERO

ULRICH ALEXANDER BOSCHWITZ, TRAD. PHILIP BOEHM

Il racconto è tratto dal romanzo di Ulrich Alexander Boschwitz, The Passenger , tradotto dal tedesco da Philip Boehm. Boschwitz è nato a Berlino nel 1915 e ha studiato alla Sorbona di Parigi. Durante il suo soggiorno ha scritto due romanzi. Si stabilì poi in Inghilterra nel 1939, ma fu internato in Australia come “nemico straniero” tedesco allo scoppio della seconda guerra mondiale . Nel 1942, gli fu permesso di tornare in Inghilterra, ma la sua nave fu silurata da un sottomarino tedesco e morì insieme a tutti i 362 passeggeri. Aveva ventisette anni.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di OpenClipart-Vectors e fevzizirhlioglu da Pixabay

Alberto Casadei – Antologia di Giovanni Pascoli

Per tornare a leggere Pascoli in tutte le sfaccettature di poeta del suo tempo e insieme moderno e attuale, è indispensabile pensare una nuova antologia che accompagni il lettore alla scoperta dei tanti significati nascosti sotto l’apparente semplicità dei versi, e delle tante sfumature stilistiche e metriche che il poeta di San Mauro ha saputo offrire alla lirica italiana. Non a caso, Pascoli è, nel corso del Novecento, uno dei poeti italiani più imitati, magari in modi indiretti o trasgressivi, come nel caso di Pier Paolo Pasolini, dalle prime poesie fino alle Ceneri di Gramsci.

Da parecchio tempo la critica ha sottolineato la carica innovativa prima di tutto del linguaggio pascoliano: un linguaggio, a detta del grande studioso Gianfranco Contini, che sfrutta non solo le componenti normali, grammaticali, ma anche quelle puramente foniche, le risonanze pre- o post-grammaticali, quasi indipendentemente dal significato normale delle parole. In questa prospettiva, Pascoli s’inserisce senza dubbio nel grande filone del simbolismo europeo, sempre alla ricerca di armoniche nascoste nella natura, per disvelare aspetti ignoti della realtà. L’antologia evidenzierà questo aspetto, assai presente in tanti testi di “Myricae” e dei “Canti di Castelvecchio”, sino alle aperture cosmiche de “Il ciocco” e “Il bolide”. Ma, nel contempo, nell’antologia si darà conto delle componenti più intime e sofferte dell’indagine pascoliana dentro e oltre la natura e il linguaggio. Le immagini più forti e più tipiche dell’impressionismo pascoliano, numerose soprattutto nelle “Myricae”, sarebbero assai meno significative se non facessero parte di una raccolta che sottolinea l’inevitabile presenza della morte nel ciclo vitale: una presenza che può essere benevola ma può anche diventare ossessiva, come si riscontra nei tanti testi dedicati al lutto personale, a quell’assassinio del padre rievocato in “X agosto” o, con accenti epici, in “La cavalla storna”. La forza di Pascoli oggi, però, si deve cogliere anche su altri piani, e in particolare su quello dei temi. Dopo le prime raccolte, giustamente tuttora le più note a livello scolastico, il poeta seppe rinnovarsi, aprendo decisamente la sua lirica alla storia. Legandosi sempre a luoghi precisi, dalla nativa Romagna alla Garfagnana, Pascoli seppe entrare nei microcosmi in cui viveva, per esempio mettendo in luce i cambiamenti introdotti dalla modernità attraverso personaggi indimenticabili, come la piccola Molly di “Italy”: figlia di emigranti, la bambina non riesce all’inizio a capire la forza del legame che comunque esiste con la madrepatria, e sembra disprezzare i suoi parenti garfagnini. Ma alla fine saranno la solidarietà e gli affetti a prevalere: Pascoli vuole far capire quanto era (ed è) importante che anche gli emigrati di seconda o terza generazione possano continuare a sentire il vincolo profondo che li lega alla madrepatria. Pascoli è anche questo: un poeta che si fa carico di interpretare il suo tempo, con idee che ora, grazie al distanziamento storico, possiamo valutare senza diffidenza.

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro e fotografia di Gioovanni Pascoli (Fonte: Wikiquote)



Con le stampe esotiche artisti e pubblico si appassionano per l’arte giapponese

di Sergio Bertolami

21 – Il Giapponismo nella seconda metà dell’Ottocento.

L’Art Nouveau è sostanzialmente legata alle arti dell’Estremo Oriente, che nella seconda metà dell’Ottocento tornarono ad incidere sulle inclinazioni degli artisti e del pubblico più ampio. Non perché dal secolo XVIII – durante il quale avevano profondamente sedotto le élite – erano state poi sprezzate o disconosciute, ma perché in verità erano ormai del tutto cadute nell’oblio. Quello che però sarà chiamato Giapponismo non è mutuato soltanto da un fatto di gusto estetico, ma ha diretti riscontri politici ed economici. La riscoperta prese avvio, infatti, con la Convenzione di Kanagawa, un trattato di amicizia e pace tra Giappone e Stati Uniti, sottoscritto il 31 marzo 1854. Un trattato che mise fine a due secoli di isolazionismo e alla nascita dell’Impero nipponico. Dal 1641, infatti, solo le navi cinesi e quelle olandesi della Compagnia delle Indie orientali avevano diritto di approdare in un unico porto giapponese, Nagasaki. Per la precisione a Dejima (letteralmente isola d’uscita), una piccola piattaforma artificiale a ventaglio, appositamente costruita all’ingresso della città portuale. Fino ad allora solo pochi prodotti, nonostante i divieti di esportazione, riuscivano a filtrare in Europa. I servizi in porcellana o gli opuscoli illustrati e le xilografie giapponesi, per il loro costo eccessivo, erano acquistabili soltanto dalla ristretta cerchia aristocratica. Ora, invece, il trattato rompeva, a tutti gli effetti, le maglie di un ferreo isolamento che durava da duecento anni. Per la verità, il trattato aveva per oggetto il salvataggio marittimo e non il libero scambio commerciale. Era stato imposto al Giappone sotto la minaccia di cannoneggiamenti da parte della Marina statunitense, in seguito ai maltrattamenti subiti dagli equipaggi balenieri americani naufragati al largo della costa nipponica. Vi si specificava chiaramente: «Il porto di Simoda [Yedo], nel principato di Idzu, e il porto di Hakodade, nel principato di Matsmai [Hokkaido], sono concessi dai giapponesi come porti per l’accoglienza delle navi americane, dove potranno essere rifornite con legna, acqua, provviste, carbone e altri articoli di loro necessità, da richiedere secondo le disponibilità giapponesi». Per assolvere ai compiti di accoglienza dei naufraghi – salvati lungo le coste e successivamente trasferiti nei porti di Simoda e di Hakodade – furono nominati, dal Governo degli Stati Uniti, consoli ed agenti. Per quella che fu considerata un’ingerenza esterna, il trattato divenne causa di gravi conflitti politici interni. Ne conseguì una guerra civile, risolta soltanto nel 1869 con la restaurazione del potere imperiale Meiji e la fine dello shogunato Tokugawa. L’accordo fu seguito da analoghe convenzioni, questa volta commerciali, con gli Stati Uniti ed anche con Inghilterra, Francia, Russia e naturalmente Olanda. Volendo richiamare un fatto già detto in precedenza, ecco il motivo per cui nel 1870 Martin Michael Bair, cognato di Siegfried Bing, fu nominato console nella nuova capitale, che da Edo (entrata della baia) trasformò il nome in Tokyo (capitale d’Oriente). La strada della modernizzazione si stava aprendo anche nel lontano arcipelago.

Mappa illustrata di Nagasaki Maruyama Okyo, Nagasaki Museum of History and Culture Collection

Con questo avvio di libero scambio commerciale fra Oriente ed Occidente, manufatti giapponesi cominciarono a circolare in Europa in maniera più cospicua, finendo col comparire persino nelle vetrine e sui banchi dei negozi di curiosità. Le “giapponeserie” si diffusero come nel secolo precedente avevano fatto le “cineserie”. In questo caso la mania per tutto ciò che era insolito e raro, raffinato e suggestivo, iniziò con la raccolta di porcellane, lacche, piccole sculture e bronzi, sete, kimoni, soprattutto stampe Ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante) dei grandi maestri Hokusai, Hiroshige, Utamaro, Kunisada, Eisen. Giunsero anche i Mangwa (immagini casuali), album di schizzi a tema. Si racconta che Félix Bracquemond, interessato più che mai alla tecnica dell’incisione, fu forse il primo artista parigino a prendere spunto dall’arte giapponese, riproponendo quelle esotiche figure su di un servizio di porcellana, decorato nel 1867 per Eugene Rousseau. Fu, infatti, nella bottega del suo stampatore, Auguste Delâtre, al 171 di rue Saint-Jacques, che nel 1856 trovò un Mangwa di Katsushika Hokusai. Le sue pagine erano servite casualmente ad avvolgere la spedizione di fragili porcellane. Riproducevano gli schizzi sparsi che il pittore aveva catturato col suo pennello: paesaggi, uccelli, animali, piante ed alberi, scene di vita quotidiana. Il minuscolo fascicolo, che Delâtre aveva ricomposto da quei fogli, produsse un’impressione vivissima in Bracquemond. Riuscì ad acquisirlo soltanto un paio d’anni dopo, grazie ad uno scambio con delle incisioni di Eugène Lavieille che conservava. Bracquemond ne fece quasi un breviario. Portava quel libretto di schizzi in tasca e lo mostrava a tutti, per giudicare dalla sorpresa degli interlocutori l’ammirazione e la curiosità che suscitava.

Hokusai manga vol.15

A giugno del 1862 il pittore si unì con un gruppo di giovani artisti alla Société des aquafortistes, fondata dall’editore Alfred Cadart con la collaborazione dello stesso tipografo Delâtre. L’associazione voleva rinnovare il modo di produrre le incisioni moderne. Sempre nel 1862, si aprì anche La Porte Chinoise al 220 di rue de Rivoli, vicino al Louvre. Una boutique di paccottiglia orientale condotta da Madame De Soye, che fece crescere l’entusiasmo. Qualche nome dei suoi clienti? Whistler e Fantin-Latour, i Goncourts e Baudelaires, Bracquemond e Millet, Manet, Degas, Monet, Zola, Champfleury, e si potrebbe continuare. Baudelaire scriveva a sua madre: «Ho ricevuto un pacco di giapponeserie, le ho condivise con alcuni amici». Un visitatore dello studio di Whistler riferiva ad un amico: «Qui, sono quasi in paradiso. Crederesti di essere stato a Nagasaki o al Palazzo d’Estate, Cina, Giappone, è splendido». L’inglese Dante Gabriel Rossetti, mentre cercava articoli giapponesi a Parigi, venne a sapere che «tutti i costumi erano acquistati da un artista francese, Tissot, che sembra stia facendo tre quadri giapponesi, descritti a me dalla proprietaria del negozio come le tre meraviglie del mondo».

James Tissot, La Japonaise au bain (c.1865 ), Musée de Dijon, Francia. 
 

Il gusto per l’arte giapponese era inizialmente limitato ai circoli ristretti di intenditori, letterati e artisti. Fu l’Esposizione Universale del 1867 a diffondere davvero questa attrazione, dedicando ampi spazi all’Estremo Oriente. Col prorompere del gusto, nacque anche il termine Japonisme, coniato dall’incisore Philippe Burty nel 1873. All’inaugurazione dell’Esposizione, fra le tante cronache, si poteva leggere di tutto. Ad esempio, un pezzo che rendeva noto di un artista della Maison Christofle che aveva avuto l’idea di applicare lo stile di decorazione giapponese ai gioielli di oreficeria, ai flaconi, alle scatole di caramelle. In un altro articolo si leggeva che il gioielliere Martz aveva ideato degli smalti orientali, traendo ispirazione da alcuni album di Hokusai, Toyokuni e Kuniyoshi che si era procurato. Bracquemond, il quale rivendicava il merito di aver “scoperto” il primo libro illustrato proveniente dal Giappone – e non era chiaramente il primo –, fondò “Jinglar” un’associazione che mensilmente si riuniva a cena chez Solon, ovvero dal direttore della Manifattura di Sèvres. Tra i proseliti del nuovo gusto c’erano Zacharie Astruc, Fantin-Latour, Philippe Burty, l’incisore Jacquemard. In questi incontri mangiavano riso con le bacchette; spegnevano i sigari in posacenere orientali; tutto era ispirato al Giappone, compreso il servizio da tavolo inciso da Bracquemond. Jules de Goncourt terminava una lettera a Philippe Burty inneggiando: «Japonaiserie for ever». Dal canto suo anche Edmond de Goncourt, nei suoi scritti, rivendicava per sé e suo fratello il primato di questo interesse verso il Sol Levante. Dal momento che Edmond non visitò mai l’Estremo Oriente, le sue osservazioni evidentemente si basavano sulle opere d’arte che studiava e che raccoglieva in una interessante collezione privata. Poteva pure contare sui giapponesi che incontrava a Parigi. Fra questi, Hayashi Tadamasa, un commerciante che, stabilitosi a Parigi, è oggi riconosciuto come figura importante per l’importazione e diffusione dell’arte e della cultura giapponese in Europa. Nel 1878, in occasione dell’Esposizione Universale di quell’anno, Tadamasa era giunto a Parigi al seguito del mercante e antiquario Kenzaburô Wakaï, per il quale faceva da venditore e interprete. Presentò porcellane i cui prezzi si quadruplicarono in un batter d’occhio.

The Kiryu Kosho Kaisya Standing Industry and Trading Company (1873-1891)

L’allestimento di una fattoria giapponese sembrava essere una delle “meraviglie della mostra” e la Kiryo Kosho Kaisha, rifornì di merci il padiglione giapponese. Le finalità di quella che rappresentava la prima società di produzione e commercio giapponese erano esplicite: «La nostra azienda, Kiriu Kosho Kuwaisha, è stata fondata con lo scopo di incoraggiare le industrie giapponesi e promuoverne la massima perfezione possibile». Tadamasa rimase a Parigi, dapprima per vendere la merce restante alla chiusura dell’Esposizione, ma finì con aprire un negozio e così diventò, con Siegfried Bing, uno dei migliori mercanti d’arte giapponese a Parigi. Da lui acquistavano i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, le voci più entusiaste verso il Giapponismo. Non furono probabilmente i primi a comprendere le raffinatezze di quest’arte esotica, ma Edmond – Jules era scomparso nel 1870 – espresse in due pubblicazioni la sua passione: nel 1891, pubblicò la prima monografia storica su Kitagawa Utamaro, seguita nel 1896 da un’altra monografia su Katsushika Hokusai.

Ospiti a una cena annuale della London Japan Society, 1900. Fotografia. (Fonte Japan Society, Londra)
Biglietto d’invito che annuncia una conferenza di Siegfried Bing alla Japan Society di Londra (Fonte Japan Society, Londra)

Bing propose Edmond de Goncourt per l’ingresso alla The Japan Society di Londra, il 10 marzo 1893, anche se, in verità, il loro rapporto era spesso teso, a causa dell’idea di Edmond di ritenersi il principale fautore dell’arte giapponese in Francia, quasi l’esperto assoluto. Si accapigliavano in strenui dibattiti riguardo ad alcuni passi del libro su Hokusai. Fin dall’inizio delle attività di Bing come negoziante d’arte, Goncourt era comunque un suo assiduo frequentatore. Dal momento che Bing ne riconosceva la fama di scrittore, con uno schietto impegno di lunga data riguardo al Giappone, pensò bene di candidarlo come socio della prestigiosa Società londinese.

A sinistra: Hiroshige, Cento vedute di Edo, n. 30, Pruneraie à Kameido (1857), a destra: Van Gogh, Japonerie. Plum Blossoms (1887), Museo Van Gogh, Amsterdam.

Qualche anno fa, lo storico Jean Chesneaux – esperto di Asia orientale – si rammaricava che analogamente al Giappone di oggigiorno che ha preso in prestito le nostre arti meccaniche, la nostra arte militare, le nostre scienze, così gli europei dell’Ottocento ghermivano le arti decorative giapponesi. «Non era più una moda, era un’infatuazione, una follia». Chesneaux, in verità, stigmatizzava soprattutto l’imitazione volgare. Questo perché le opere giapponesi conquistavano anche i dilettanti, si allargavano sempre più nel gusto popolare, inquietando il mondo della cultura. Dal 1878 al 1895 l’ossessione continuò ad espandersi. Tuttavia, fra gli specialisti iniziarono le prime ricerche sistematiche: l’inglese W. Anderson nel 1879 e 1886, Théodore Duret nel 1882, Louis Gonse nel 1883, Madsen nel 1885 e naturalmente Edmond de Goncourt negli anni Novanta. Questo per dire delle pubblicazioni e non dilungarsi sulle mostre. Giova però citarne qualcuna. Nel 1887, una piccola vetrina a Parigi fu dedicata alle sole stampe giapponesi. Al caffè Le Tambourin di avenue de Clichy, la organizzò uno sconosciuto olandese, Vincent Van Gogh, che passò inosservato. Era completamente irretito da quelle stampe, che ne comprò centinaia. In una lettera da Arles del 15 Luglio 1888 Vincent esortava il fratello Théo ad acquistare xilografie nella galleria di Siegfried Bing, con la quale aveva un conto aperto: «Ti prego conserva il deposito di Bing, i vantaggi sono troppo grandi».

Exposition de la Gravure Japonaise (Mostra di stampe giapponesi) di Jules Chéret, Chaix et Malherbe 1890. Dalle collezioni dei musei de Young e Legion of Honor di San Francisco, CA.

Nel 1888 Bing stesso offrì all’ammirazione del pubblico, nel suo negozio, centosessanta pezzi della sua “meravigliosa collezione”. Ma le mostre si ripeterono ancora, perché due anni dopo, una superba retrospettiva storica ebbe luogo addirittura nella sede ufficiale della cultura accademica francese. In tale circostanza, Mary Cassatt, statunitense, scriveva a Berthe Morisot, ambedue pittrici impressioniste: «Devi vedere le stampe giapponesi. Vieni appena puoi all’École des Beaux-Arts». L’ampia presentazione era stata organizzata proprio da Siegfried Bing, e fu particolarmente significativa sia per il numero degli esemplari – vi erano presentate più di 700 stampe – che per la qualità degli espositori. Georges Clemenceau, futuro primo ministro, era tra questi. Nonostante l’impegno culturale, le Japoneries si trovavano ormai dappertutto. Anche nei bazar. La merce scadente aveva invaso i banchi dei grandi magazzini: il Petit Saint-Thomas aveva preso a diffonderla in provincia. Siegfried Bing, da quell’abile uomo di affari qual era, vide il pericolo in tempo. Trasformando La Maison Bing, mise a segno il suo ennesimo successo. La rinnovata galleria d’arte si chiamò L’Art Nouveau.

Il padiglione giapponese Midori no Sato

Poco si sa del primissimo padiglione giapponese fondato in Francia (1886), quello del giardino di Hugues Krafft chiamato Midori no Sato, scomparso pochi decenni fa. Gli scavi effettuati nel sito ci hanno permesso di trovare le fondamenta del padiglione e di tentarne la ricostruzione.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Perché i film amano i libri per bambini? … E altro ancora

“Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

THE NEW YORKER

Perché i film amano i libri per bambini?

Si potrebbe pensare che ogni nuovo film per bambini sia stato realizzato con riferimento ai testi classici, invece emergono ancora, incessantemente, sempre nuovi adattamenti. L’anno scorso abbiamo preso visione di una nuova versione del racconto “Il giardino segreto”, così come l’interpretazione opportunamente sinistra di Matteo Garrone su “Pinocchio”. Ma ci sono tante altre storie riadattate.



LOS ANGELES TIMES

Lezioni di mamme e nonne in tre nuovi libri sulla cucina cinese

Negli ultimi due mesi sono stati pubblicati tre fantastici libri di cucina che contestualizzano cosa significa cucinare cibi cinesi, ma da una prospettiva diversa, quella di una seconda generazione. Presi insieme, questi libri, forniscono un’istantanea di come gli autori descrivano in dettaglio l’assimilazione nella cultura occidentale pur mantenendo i collegamenti con le culture e le tradizioni delle generazioni passate.



LITERARY HUB

“TIARA”

di BOLU BABALOLA

Il racconto è tratto dalla raccolta di Bolu Babalola, Love in Color , una rivisitazione della storia e della mitologia. Babalola è uno scrittore di libri e sceneggiature. Scrive soprattutto storie di donne dinamiche con voci distinte che amano e sono amate con audacia.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di OpenClipart-Vectors e fevzizirhlioglu da Pixabay