Presentazione del Quaderno ALDAI n. 32 – “L’attraversamento stabile dello Stretto di Messina”

Una partecipata conferenza tenutasi in ALDAI il 12 dicembre 2019 sullo stesso tema invogliò alcuni partecipanti ad approfondire le complesse tematiche che stanno dietro alla scelta di realizzare o meno il collegamento e, se sì, con quale tipologia infrastrutturale. Per non disperdere il grande lavoro di analisi e di raccolta delle documentazioni, il gruppo ha pensato di realizzare un nuovo Quaderno ALDAI che, come al solito, rimane “aperto” a integrazioni e perfezionamenti che Soci e/o Simpatizzanti volessero fornire per costantemente migliorarne i contenuti.

I Quaderni ALDAI si propongono di mettere a disposizione, degli associati e non, le conoscenze derivanti dalle esperienze professionali degli autori, soci ALDAI, nell’ambito del loro impegno e della partecipazione alle attività deiGruppi/Comitati della Commissione Studi e Progetti.Dall’anno 2013, la loro redazione in formato e-book e la successiva distribuzione sono garantite da volontariati della VISES, Onlus di riferimento dell’ALDAI. A semplice richiesta, la VISES mette a disposizione i testi tramite e-mail o mediante supporti digitali (CD, DVD, pen-drive ecc.)

L’elenco dei Quaderni, di seguito riportato, è comunque sempre richiedibile – anche per gli aggiornamenti successivi – a:
VisesMilano@aldai.it
Tutte le donazioni sono fiscalmente detraibili/deducibili.
L’IBAN di riferimento è: IT28 X033 5901 6001 0000 0072 807

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PROGRAMMA COMPLETO

2021-06-07-Infrastrutture-Strategiche-per-lEuropa-Q32-1

I principali temi del testo 
(Gennaro Bernardo)

Q32-Panel_1-1_di_Gennaro_Bernardo

Una lunga storia 
(Giuseppe Colombi)

Q32-Panel_1-2_di_Giuseppe_Colombi

Il contesto geologico-ambientale 
(Pietro Balbi, Antonio Barbieri)

Q32-Panel_1-3_di_Pietro_Balbi_e_Antonio_Barbieri

Aspetti urbanistici e trasportistici 
(Giorgio Goggi)

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Le grandi infrastrutture nel mondo 
(Giovanni Saccà)

Q32-Panel_1-5_di_Giovanni_Sacca

Il ponte a campata unica 
(Enrico Cantoni)

Q32-Panel_1-6_di_Enrico_Cantoni

Le alternative esaminate 
(Salvatore Crapanzano)

Q32-Panel_2-1_di_Salvatore_Crapanzano

Le tre alternative 
(Giovanni Saccà)

Q32-Panel_2-2_di_Giovanni_Sacca

Confronto tra elementi di costo 
(Enrico Cantoni)

Q32-Panel_2-3_di_Enrico_Cantoni

Le nostre aspettative ad oggi 
(Salvatore Crapanzano)

Q32-Panel_2-4_di_Salvatore_Crapanzano

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QUADERNO ALDAI N. 32
“L’ATTRAVERSAMENTO STABILE DELLO STRETTO DI MESSINA”

QuaderniAldai-INDICE-al-2021-05-27

LEGGI ANCHE: L’attraversamento stabile dello Stretto di Messina nel contesto dei grandi corridoi europei

IMMAGINE DI APERTURA – Copertina del Quaderno ALDAI n.32, “L’attraversamento stabile dello Stretto di Messina”

Verbania: CARRA’ e MARTINI. Mito, visione e invenzione – L’opera grafica

Il Museo del Paesaggio riapre la stagione espositiva con la mostra Carrà e Martini. Mito, visione e invenzione. L’opera grafica con opere provenienti dalla collezione del Museo e da una collezione privata milanese, a cura di Elena Pontiggia e di Federica Rabai, direttore artistico e conservatore del Museo. L’esposizione inaugura presso gli spazi di Palazzo Viani Dugnani a Verbania sabato 12 giugno alle ore 11.30 e resterà aperta fino al 3 Ottobre.

In mostra oltre 90 opere, per lo più di grafica, dei due grandi artisti del Novecento italiano che si sono distinti e affermati proprio grazie all’invenzione di un nuovo linguaggio in pittura e scultura. Completa il percorso dedicato al mito e alla visione una serie di sculture di Arturo Martini, presentate accanto ai bozzetti, ai disegni e alle incisioni.

CARRA’ e MARTINI.
Mito, visione e invenzione
L’opera grafica

13 Giugno – 3 Ottobre 2021

Museo del Paesaggio, Verbania

Carlo Carrà, L’amante dell’ingegnere, 1921-1949, litografia su zinco, cm 35,8×26

Carrà. L’opera grafica

In mostra sono esposte circa cinquanta tra acqueforti e litografie a colori, che comprendono tutti i più importanti esiti dell’artista. Si va dagli incantevoli paesaggi dei primi anni venti, tracciati con un disegno essenziale e stupefatto (Case a Belgirate,1922), alla suggestiva Casa dell’amore (1922), fino alle visionarie immagini realizzate nel 1944 per un’edizione di Rimbaud, in cui Carrà, sullo sfondo della guerra mondiale, rappresenta angeli, demoni, creature mitologiche e figure realistiche, segni di morte ma anche di speranza (Angelo, 1944).  Fin dagli inizi, inoltre, Carrà avvia grazie all’incisione un sistematico ripensamento della sua pittura, che lo porta a reinterpretare con acqueforti e litografie i suoi principali capolavori, dalla Simultaneità futurista alle Figlie di Loth, dal metafisico Ovale delle apparizioni al Poeta folle. L’incisione diventa così per l’artista un momento di verifica, ma anche uno struggente album dei ricordi.

La Stagione iniziale (1922-1928)

Le prime incisioni di Carrà – tutte acqueforti, con l’unica eccezione della litografia I saltimbanchi, destinata a una cartella edita a Weimar dal Bauhaus – risalgono al 1922-1923. E’ però nel 1924 che l’artista si dedica sistematicamente all’incisione, grazie agli insegnamenti di Giuseppe Guidi, che quell’anno aveva aperto un laboratorio calcografico nella sua stessa casa, in via Vivaio 16 a Milano. Esegue infatti trentatré acqueforti e stampa i rami che aveva inciso, ma non impresso, nel biennio precedente.   
Carrà adotta un segno sintetico, duro, capace di esprimere il suo mondo di figure e luoghi sottratti al tempo. E’ soprattutto il paesaggio ad attrarlo, che vuole trasformare in “un poema pieno di spazio e di sogno”. Fin dagli inizi, però, l’incisione serve a Carrà anche per rielaborare opere precedenti, in un’incontentabile ricerca espressiva. Questa fervida stagione iniziale ha un’appendice nel 1927-1928, quando Carrà, che in quel periodo aderisce al gruppo del “Selvaggio” (la rivista toscana animata da Maccari, a cui sono vicini Soffici, Rosai, Morandi e altri artisti) esegue litografie e acqueforti caratterizzate da un linguaggio più pittoricistico.

La Stagione delle Litografie (1944-1964)

Nel 1944, dopo un intervallo di sedici anni dalle ultime incisioni, Carrà torna a dedicarsi alla grafica. A differenza degli anni Venti, quando aveva praticato soprattutto l’acquaforte, ora è la litografia a impegnarlo, sia in bianco e nero che a colori.

Le tavole di Carrà si raggruppano quasi sempre in progetti articolati. Nel 1944 pubblica la cartella Segreti, in cui prende vita un paesaggio trasognato (il lago di Como, visto da Corenno Plinio dove l’artista era sfollato nel 1943) immerso in una quiete irreale.

Sempre in questo periodo si dedica intensamente all’illustrazione. Nello stesso 1944 esegue dodici tavole per Versi e prose di Rimbaud, dove compare un mondo di angeli, demoni e segni di morte (riflesso dei tragici momenti della guerra). Nel 1947 illustra L’Après-midi et le Monologue d’un Faune di Mallarmé, tradotto da Ungaretti.

A partire dal 1949, ormai alla soglia dei settant’anni, ripensa invece sistematicamente alla propria opera. Nella cartella Carrà 1912-1921 (Venezia 1950) e nei due album Carrà n. 1 e n. 2 dei primi anni Sessanta riprende opere del periodo futurista, primitivista e metafisico. Tutto il corteo di muse e maschere inquietanti nate quaranta-cinquant’anni prima gli si ripresentano alla memoria con la levità di un dagherrotipo, o con cromatismi leggeri e impalpabili. Come apparizioni.

Arturo Martini, L’attesa, 1935, pirografia su linoleum o celluloide,
cm 17,5×15,3 su carta di cm 35×25

Arturo Martini. L’opera pittorica e grafica

Alla fine degli anni trenta Martini prende sistematicamente a dipingere, accettando la sfida di un linguaggio per lui quasi nuovo, di cui deve assimilare pazientemente la tecnica. In pittura non è il maestro celebrato, ma un principiante che parte quasi da zero e conosce imperfezioni, incertezze, fallimenti. Certo, in passato, soprattutto da giovane, aveva eseguito disegni, incisioni e anche qualche quadro, ma quelle prove non bastano a dargli la padronanza del mestiere e nelle sue lettere alla moglie Brigida rivela tutte le sue ansie, insieme alle sue speranze. “Non mollo l’osso, devo spuntarla, deve nascere la mia pittura” le scrive e più tardi: “Mi par d’aver trovato con questa nuova speranza la vita, perché di scultura non ne potevo più, ero nauseato”.

In autunno, da Vago di Lavagno, nel Veronese scrive: Spero […] poter dipingere dal vero i paesaggi che mi stanno attorno. Domani mi proverò ad uscire con una cassetta di colori, vedremo se capirò qualche cosa, però nella peggiore delle ipotesi studierò dal vero, sfogherò un desiderio che da tanto tempo avevo”. Commuove pensare che chi parla così, come un pittore della domenica, non è un dilettante ma un maestro, il vincitore del gran premio alla Quadriennale, uno degli artisti più famosi d’Italia, se non d’Europa. In quella scommessa difficile, in quel corpo a corpo con la tela, che lo colma di gioia nonostante le difficoltà dell’esecuzione e le incertezze degli esiti, Martini si gioca tutto, anche il benessere faticosamente conquistato dopo anni di fame. “Forse dipingerò sempre anche se questo mi porterà come un tempo alla miseria”.

Il 17 febbraio 1940 alla Galleria Barbaroux di Milano, Martini inaugura la sua prima mostra di pittura. Ventitré quadri, dipinti tutti nel 1939 tra Vago, Burano e Milano. “E’ certo l’avvenimento maggiore della cronaca artistica dell’annata […] Martini ha raggiunto […] i gradini più alti della pittura contemporanea” aggiungeva euforico Guido Piovene, allora critico d’arte del Corriere della Sera. “Il risultato è stato inaspettato, la critica entusiasta […] le vendite al modo che si comperasse pane in periodo di carestia” riconosceva anche Martini. La scommessa della pittura, insomma, era stata vinta. Preceduta in gennaio da un articolo trionfale, sempre di Piovene, sul diffuso supplemento del Corriere (“Martini è un grande scultore, ma da questo momento v’è un grande pittore in più”); governata da una concezione idealistica dell’arte, secondo cui i generi non contano e “i buoni scultori sanno anche disegnare”, la critica non aveva lesinato le lodi per quelle tele che univano il segno approssimativo dell’espressionismo lirico a una solidità appunto da scultore. Anche un osservatore esigente come Savinio giudicava i quadri di Martini “rapidi, poetici, geniali”.

Le circa quaranta opere in mostra sono comprese tra il 1921 e il 1945 coprendo tutta la carriera dell’artista, a iniziare dal lavoro a matita su carta Il circo del 1921 circa, importate disegno del momento di “Valori plastici” quando Martini è molto prossimo a Carrà e in genere a una personale rivisitazione della congiuntura metafisica. Ricorda la grafica di Carrà per i corpi bloccati dentro un segno sigillante, e, nel contempo, sembra di cogliervi un’eco di Parade di Picasso, il grandioso sipario eseguito a Roma nella primavera del 1917 quando anche Martini frequentava sporadicamente la capitale. Segue Carnevale del 1924, incisione pubblicata sulla rivista “Galleria” accompagnata da una breve poesiola non-sense sul “Carne-vale”. Si differenzia per levità di tratto dalle coeve xilografie pubblicate sulla stessa rivista, caratterizzate invece da tratti pesanti e scultorei.

Interessante è il Suonatore di Liuto del 1929, prima opera donata da Martini a Egle Rosmini al momento della loro conoscenza, e comunque l’unica con la dedica. Raffigura un giovane uomo in posizione stante, vestito in abiti rinascimentali: forti le assonanze con un affresco, oggi in parte perduto, in una facciata di un palazzo a Treviso, dove ricorre il particolare del vestito diverso nelle due gambe. Importante poi il ciclo di incisioni eseguite a Blevio nell’estate del 1935 su soggetti già trattati anche in scultura – come L’Attesa e Ratto delle Sabine – o già presenti in altre incisioni precedenti – come L’uragano; altre però sono nuove come Il fabbro inserito nell’antro oscuro come un Vulcano moderno o Il Samaritano che sembra partecipare anche fisicamente al dolore del corpo vulnerato del povero. Il fatto che non sussistono riscontri stilistici tra le opere plastiche modellate a Blevio nello stesso frangente e queste opere grafiche (discrasia evidente nel caso del bassorilievo del Ratto delle Sabine in mostra) attesta che Martini accedeva a mezzi espressivi diversi proprio per staccare un registro espressivo dall’altro. In queste incisioni la trama delle linee è fittissima fino a oscurare la superficie, quasi a emulazione della maniera nera.

Nel 1942 realizza 11 disegni preparatori – tutti in mostra – del Viaggio d’Europa per l’illustrazione dell’omonimo racconto di Massimo Bontempelli. Tra questi disegni preparatori e la versione definitiva delle illustrazioni c’è lo stesso rapporto che sussiste tra i bozzetti delle opere monumentali e l’esito finale. Rigidi e puramente orientativi questi “bozzetti” sono serviti a Martini per un primo approccio al soggetto del racconto bontempelliano e, pur testimoniando la presenza di alcuni topoi martiniani – il dormiente, l’incontro di due figure, gli squarci spaziali – e di un generale clima “metafisico”, è evidente il loro carattere provvisorio e di studio.

Del 1944-45 sono il gruppo di incisioni predisposte da Martini per l’illustrazione della traduzione italiana dell’Odissea a cura di Leone Traverso, poi non pubblicata. Eseguite a Venezia, rivelano un lato straordinario della versatile fantasia martiniana, anche qui orientata a sperimentare materiali “poveri” e linguaggi poveri, al limite tra immagine e pura suggestione timbrica. Pubblicate postume soltanto nel 1960 sono tra le prove più convincenti della grafica martiniana.

Accanto a queste prove dell’artista sono esposte dieci sculture come La famiglia degli acrobati, Can can, Adamo ed Eva, Ulisse e il cane, Testa di ragazza, Busto di ragazza e tre tele: Sansone e Dalila, La siestaePaesaggio verde per rafforzare il tema della differenza tra disegno e realizzazione finale delle opere, pezzi unici di grande valore storico e artistico.


INFORMAZIONI
Mostra: “Carrà e Martini. Mito, visione e invenzione. L’opera grafica”
Sede espositiva: Museo del Paesaggio Palazzo Viani Dugnani, Via Ruga 44 – Verbania Pallanza
Periodo di apertura: 13 giugno – 3 ottobre 2021
Inaugurazione: sabato 12 giugno ore 11.30
Orari: da martedì a venerdì dalle 10.00 alle 18.00, sabato e domenica dalle 10.00 alle 19.00. Lunedi chiuso.
Ingresso Intero 5€, Ridotto 3€ (il biglietto dà diritto alla visita della mostra, della pinacoteca e della gipsoteca Troubetzkoy)

Per informazioni
Museo del Paesaggio – Tel +39 0323 557116  segreteria@museodelpaesaggio.it
www.museodelpaesaggio.it

Ufficio Stampa Nazionale:
Lucia Crespi, tel. 02 89415532 – 02 89401645, lucia@luciacrespi.it

Catalogo:
Edito dal Museo del Paesaggio

IMMAGINE DI APERTURA – Arturo Martini, La famiglia degli acrobati, 1936-37, gesso originale, cm 38x21x34

Todi (PG): Richard de Tscharneril – Canto della terra. Un poema fotografico

Dal 12 giugno al 22 agosto 2021, a Todi (PG) nelle tre sedi della Sala delle Pietre e del Museo Pinacoteca in Palazzo del Popolo, e del Torcularium nel Complesso delle Lucrezie, si terrà la mostra di Richard de Tscharner (Berna, 1947), uno dei più apprezzati esponenti della fotografia di paesaggio.

L’esposizione, dal titolo IL CANTO DELLA TERRA: UN POEMA FOTOGRAFICO, curata da William A. Ewing, organizzata da PHOTODI, associazione culturale presieduta da Mario Santoro, in collaborazione con il Museo Pinacoteca di Todi, col patrocinio del Comune di Todi – che ha collaborato mettendo a disposizione i suoi spazi espositivi più prestigiosi -, presenta 59 fotografie che esplorano l’universo creativo del fotografo svizzero.

Richard de Tscharner, Cérémonie des masques, Mali, 2005

TODI (PG) DAL 12 GIUGNO AL 22 AGOSTO 2021
LA MOSTRA DI RICHARD DE TSCHARNER
IL CANTO DELLA TERRA
UN POEMA FOTOGRAFICO

Dal 12 giugno al 22 agosto 2021, a Todi (PG) nelle tre sedi della Sala delle Pietre e del Museo Pinacoteca in Palazzo del Popolo, e del Torcularium nel Complesso delle Lucrezie, si terrà la mostra di Richard de Tscharner (Berna, 1947), uno dei più apprezzati esponenti della fotografia di paesaggio. L’esposizione, dal titoloIl Canto della Terra. Un Poema fotografico, curata da William A. Ewing, organizzata da PHOTODI, associazione culturale presieduta da Mario Santoro, in collaborazione con il Museo Pinacoteca di Todi, col patrocinio del Comune di Todi – che ha collaborato mettendo a disposizione i suo spazi espositivi più prestigiosi -, presenta 59 fotografie che esplorano l’universo creativo del fotografo svizzero.Ispirato da grandi autori quali Ansel Adams e Edward Weston, in più di vent’anni di lavoro, Richard de Tscharner ha viaggiato per oltre 22 paesi, dall’India all’Algeria, dall’Islanda al Perù, dall’Italia agli Stati Uniti, dal Vietnam all’Etiopia, ad altri ancora, spesso in luoghi inaccessibili o di difficile raggiungimento, riportando immagini di paesaggi, rigorosamente su pellicola bianco e nero, il vero colore della fotografia, secondo Robert Frank. Il suo approccio fotografico è squisitamente filosofico e meditativo. Richard de Tscharner ha particolare interesse per gli effetti che le trasformazioni geologiche hanno avuto sull’ecosistema, ovvero per la traccia lasciata dalle forze geologiche, come il fenomeno dell’erosione sulle rocce o quello del vento sulla sabbia dei deserti, che nel tempo hanno dato al nostro pianeta superfici così diverse e magiche. “Il paesaggio – afferma il curatore, William A. Ewing – continua a rivestire un ruolo primario nella pratica fotografica contemporanea, nutrito dal fascino duraturo che proviamo per la superficie del globo su cui viviamo. Negli ultimi vent’anni, Richard de Tscharner ha viaggiato per il mondo, a volte nella sua nativa Svizzera, in Italia e in Francia, – e talvolta in terre remote, al fine di catturare un vivido senso della grandezza e della complessità della ‘pelle’ del nostro pianeta”. “La sua – prosegue William A. Ewing – è una visione a lungo termine della terra e delle forze geologiche che l’hanno trasformata, non nel corso di millenni, ma di eoni. Tuttavia, non ha deciso di catturare ciò che è semplicemente bello o piacevole alla vista, ma immagini che mostrano le cicatrici e le «ferite» subite dalla terra. Il metodo di de Tscharner è lento, deliberatamente: si prende il suo tempo per fare ogni fotografia. Con questo approccio, l’artista soddisfa la sfida che si è posto, riassunta in modo eloquente dal fotografo che ammira di più, Ansel Adams: Una grande fotografia è una piena espressione di ciò che si sente di ciò che viene fotografato nel senso più profondo, ed è, quindi, una vera espressione di ciò che si sente della vita nella sua interezza”

Richard de Tscharner, Tant que l’eau coulera, Sudan, 2010

Appassionato di musica classica, in particolare di Gustav Mahler, de Tscharner ha voluto costruire il percorso espositivo a Todi come un poema sinfonico, composto da tre movimenti, tanti quanti le sedi della mostra.Nella Sala delle Pietre, s’incontreranno alcune immagini di paesaggi in formato panoramico, oltre a quelle dei particolari dei disegni che la natura ha creato sulla superficie delle rocce, dell’acqua e del legno. All’interno del Museo Pinacoteca, prezioso scrigno di arte antica, de Tscharner propone una serie di fotografie di rovine di antiche popolazioni, per ricordare il carattere effimero della nostra civiltà, in contrapposizione con quello ultra millenario della Terra.La sezione al Torcularium, invece, si focalizza sulla presenza umana in aree remote del mondo, dove gli esseri umani hanno conservato un rapporto più stretto con la terra rispetto alla maggior parte degli odierni abitanti delle metropoli.E le parole di Caroline Lang, Presidente di Sotheby’s Svizzera e Vice Presidente di Sotheby’s Europa, ci offrono un ulteriore elemento per avvicinarci al lavoro di de Tscharner: “Da quando lo conosco, Richard è stato un ricercatore di bellezza e armonia. Li trova nello stesso modo sia nella natura che nell’umanità, viaggiando attraverso il tempo e i luoghi. Così come William Blake ci ha esortato a «vedere un mondo in un granello di sabbia e un paradiso in un fiore selvatico …. per tenere l’infinito nel palmo della nostra mano e l’eternità in un’ora», così Richard lo fa attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica, catturando uno scorcio di eternità in un qualsiasi momento.
«Accompagna la mostra una pubblicazione digitale, scaricabile dal sito www.richarddetscharner.ch

IMMAGINE DI APERTURA – Richard de Tscharner, Au-delà de la souffrance, Sri Lanka, 2013

Eugene Pitch – Self-Publishing del Futuro per Scrittori 2.0

IL MONDO DELL’EDITORIA COME LO CONOSCIAMO STA PER ESSERE SPAZZATO VIA. Con l’avvento delle nuove tecnologie, e dell’intelligenza artificiale in particolare, la concezione del self-publishing e dell’editoria in generale cambierà radicalmente. Anzi, ha già cominciato a cambiare. Solo che quasi nessuno se ne è accorto. In questo manifesto sul futuro del self-publishing e dell’editoria, lo scrittore Eugene Pitch ci illustra le incredibili possibilità che si prospettano per gli autori indie che sapranno coglierle e le insidie che minacciano quelli meno accorti.

Di seguito trovi alcuni degli argomenti che saranno trattati in questo libro:
– Come l’audio sovvertirà il modo di acquistare i libri
– L’elefante nella stanza e l’apertura del mercato cinese e le sue conseguenze
– Scrittura automatizzata
– Oltre il libro: nuovi modi di consumare le parole
– Marketing intelligente
– Le cause dell’imminente boom dei contenuti
– La sfida al copyright e come tutelarsi in tempo
– Il destino della carta stampata
– Interviste esclusive a esponenti del mondo editoriale italiano e non solo

Il tema è delicato, ma maledettamente d’attualità. La rivoluzione editoriale è già iniziata. Leggi questo libro e scopri cosa ci riserverà il futuro.

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro 



Treviso – Renato Casaro. L’ultimo cartellonista del Cinema. Treviso, Roma, Hollywood

A Treviso, con una grande mostra in tre diverse sedi cittadine – al nuovo Museo Nazionale Collezione Salce, che per l’occasione apre nella ritrovata Chiesa di Santa Margherita, al Complesso di San Gaetano, l’altra sede del Museo, e ai Musei Civici di Santa Caterina, dal 12 giugno al 31 dicembre – il Ministero della Cultura tramite la Direzione Regionale Musei Veneto, il Comune di Treviso e la Regione del Veneto, rendono omaggio a Renato Casaro (Treviso, 1935) considerato l’ultimo dei grandi cartellonisti di cinema. Un’artista che ha saputo trasporre, disegnandola, l’anima di un film in un manifesto, il tutto mentre lo stesso era ancora in lavorazione, potendo spesso contare solo su qualche fotografia di scena e su un formidabile intuito comunicativo.

L’ultimo imperatore, 1987

Da Sergio Leone ad Amadeus, all’Ultimo Imperatore
Treviso, in tre sedi, celebra con una grande mostra
Renato Casaro, il cartellonista che “firmò” i manifesti
per i capolavori del cinema, da Cinecittà a Hollywood

Ultimo protagonista di un’arte ormai scomparsa, Renato Casaro assurge a simbolo di quella scuola italiana di cartellonisti del cinema, dove perizia tecnica, creatività, genio e istinto erano le garanzie e il valore aggiunto per il successo di innumerevoli film nazionali e internazionali. Da Treviso a Roma a Hollywood – attraversando con la sua arte la seconda metà del secolo scorso – Casaro ci lascia in eredità una mirabile galleria di manifesti, testimonianza fondamentale per la storia del cinema. A curare la mostra sono Roberto Festi e Eugenio Manzato, con la collaborazione di Maurizio Baroni, tre specialisti del settore, che hanno analizzato l’enorme archivio di Casaro (più di mille i manifesti e le locandine da lui realizzate), selezionando testimonianze di un percorso artistico durato cinquant’anni.
Il sodalizio di Casaro con il cinema inizia quando, ancora ragazzo, crea le grandi sagome, pezzi unici dipinti a mano, che venivano collocate all’ingresso del Cinema Teatro Garibaldi e del Cinema Esperia di Treviso. A 19 anni, nel 1954, parte per Roma dove trova lavoro nello studio di Augusto Favalli e dove rimane per circa un anno e mezzo imparando le tecniche e i “trucchi del mestiere”. Criminali contro il mondo (1955) è il suo primo manifesto ufficiale. Nel 1957, sempre a Roma, apre uno studio a proprio nome.
Artigiano di genio, sin dagli esordi Casaro misura la sua arte con quanto Cinecittà e il cinema internazionale andavano proponendo. Via via il suo stile conquista grandi registi e Hollywood: Jean-Jacques Annaud, Dario Argento, Marco Bellocchio, Ingmar Bergman, Bernardo Bertolucci, Luc Besson, John Boorman, Tinto Brass, Liliana Cavani, Francis Ford Coppola, Milos Forman, Costa-Gavras, Pietro Germi, Claude Lelouch, Ugo Liberatore, Sergio Leone, Sidney Lumet, Anthony Mann, Mario Monicelli, Francesco Rosi, Alberto Sordi, John Sturges, Giuseppe Tornatore, François Truffaut, Carlo Vanzina, Carlo Verdone…
La mostra documenta 170 film e lo fa partendo dal “prodotto finito”, ovvero dai manifesti a due e quattro fogli, destinati alle sale cinematografiche o all’affissione. Sono oltre un centinaio i pezzi selezionati e restaurati per l’occasione, alcuni dei quali acquisiti per questa esposizione. I rari e introvabili fogli del decennio 1955-1965, mai apparsi in una mostra, presentano un artista in rapida formazione che, grazie al fertile ambiente romano – dove Cinecittà è in quegli anni una delle industrie più prolifiche – riesce a dare il meglio di sé in ogni genere: storico, peplum, commedia, noir e il nascente e dirompente fenomeno del “Western all’italiana”. Ed è sorprendente vedere accostati, nella grande “terrazza” del Santa Margherita, Trinità e Rambo o gli indimenticabili manifesti di capolavori quali I magnifici sette, C’era una volta in America, Amadeus, Il nome della rosa, Il tè nel deserto, L’ultimo imperatore.
Strutturata con una progressione cronologica – ma con una scansione anche tematica che segnala i generi più “frequentati” da Casaro – la mostra, sia nella sede di Santa Margherita che in quella di Santa Caterina, accosta ai grandi e multicolori affissi, una selezionata serie di bozzetti studio e gli “originali” – l’opera finita che serviva per stampare il manifesto – provenienti dall’archivio dell’artista e da importanti collezioni pubbliche e private.
Questo permette di comprendere al meglio la crescita professionale e la cifra stilistica dell’artista ma anche le innovazioni tecniche che Casaro adotta e sviluppa negli anni: dalla istintiva pennellata degli esordi, alle composizioni in parte fotografiche degli anni Settanta, sino alla raffinate maquettes ad aerografo che lo rendono celebre, in particolare nei ritratti degli attori protagonisti, tra gli anni Ottanta e Novanta, quando il manifesto disegnato giunge al tramonto. Una perizia che gli vale la collaborazione con le maggiori case di produzioni americane (Fox, United Artists, MGM, Columbia).
Nelle tre sedi della mostra è presente un inedito video, prodotto da FilmWork che, per flash, mostra al pubblico trailer e spezzoni di film dei quali Casaro ha curato il corredo iconografico e alcune sue riflessioni su un’invidiabile e per per certi versi unica carriera professionale.
Nei sede dei Musei Civici di Santa Caterina si sviluppa la sezione Treviso, Roma, Hollywood, una carrellata di opere che si abbinano e si completano con quelle presentate, con il titolo L’ultimo cartellonista, nella innovativa sede di Santa Margherita dove è stata allestita anche una sezione didattica e dove i visitatori più giovani potranno, in totale autonomia, creare un loro manifesto di cinema. E ancora, un sezione dedicata agli ipovedenti con la riproduzione tridimensionale del celebre affisso Il tè nel deserto.
Una terza sezione, dal titolo Dall’idea al manifesto, è allestita negli spazi del complesso di San Gaetano. Qui il pubblico può scoprire l’intera filiera per la creazione di un manifesto: dai contatti con le case di produzione o di distribuzione ai primi schizzi a matita; dal bozzetto di prova – spesso con le varianti richieste, o imposte, dalla committenza – a quello esecutivo, sino allo studio per l’inserimento del lettering (un tempo manuale, in seguito fotomeccanico) e alla stampa. Sei film simbolo di Casaro raccontano, con una forte valenza didattica, tutto il mondo tecnico e artistico che sta dietro la creazione di un manifesto.
Gli oltre trecento pezzi presentati nelle tre esposizioni sono pubblicati nel prestigioso volume realizzato per questa mostra da Grafiche Antiga (pp. 412 in edizione monolingue italiana e inglese) e curato da Roberto Festi che riporta – oltre a tutte le opere presenti in mostra – testi critici e di approfondimento, immagini d’epoca, fotografie di scena e un primo analitico repertorio delle sue opere.

Info: Collezione Salce – MiBAC T www.collezionesalce.beniculturali.it
Musei Civici di Treviso www.museicivicitreviso.it

IMMAGINE DI APERTURAAmadeus, 1984, USA, Drammatico, Originale. Archivio Casaro

Messina Biblioteca Regionale: La metafisica dell’anima – Presentazione del volume di Antonello Pizzimenti

La Biblioteca concepita quale “Agorà”, ove il fluire della cultura e lo scambio di opinioni non sia esclusivamente d’èlite, ma piuttosto luogo principe nel quale la diversità divenga ricchezza e ogni pensiero possa trovare condivisione e libero dibattito, è questa l’idea che questo Istituto desidera portare avanti per mettere sempre più in valore il prezioso posseduto. E così, al di là dei routinari servizi offerti di consultazione e prestito per la fruizione dei libri, la Biblioteca Regionale “Giacomo Longo” ha già da lungo tempo incentivato, in specie negli ultimi anni, una intensa e stimolante attività di promozione per sensibilizzare l’eterogenea utenza, organizzando e ospitando eventi diversificati, anche per le tematiche trattate, quali:esposizioni bibliografiche e documentarie, memorial, convegni, giornate dedicate, percorsi di lettura, presentazioni di libri, e fra queste ultime si distinguono poi quelle in prima assoluta.

Biblioteca Regionale Universitaria “Giacomo Longo” di Messina

”La metafisica dell’anima”
Incontro di presentazione del volume di Antonello Pizzimenti

in diretta live, sulla pagina Facebook della Biblioteca
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Venerdì 11 giugno 2021, alle ore 17, verrà presentato, in prima assoluta,“La metafisica dell’anima” di Antonello Pizzimenti, testo che vanta già diverse premiazioni: finalista al Premio Giuseppe Antonio Borgese nel giugno 2019 in Catania (da inedito), targa Montefiore in Montefiore Conca (Rm) nel settembre 2020, riconoscimento al premio “Approdi d’autore”, che avverrà nel luglio 2021.

L’incontro, che si svolgerà esclusivamente in modalità web sulla pagina facebook istituzionale, si aprirà con i Saluti Istituzionali e l’Introduzione della Direttrice della Biblioteca Regionale Tommasa Siragusa, alla quale seguiranno i contributi della relatrice, la giornalista Letizia Passarello e del filosofo, letterato, saggista, poeta e critico Carmelo Eduardo Maimone, già autore di molteplici e poliedrici testi. Interverrà l’autore avvalendosi dell’ausilio di slides. Passi tratti dal testo saranno, altresì, drammatizzati a cura dell’attore messinese Francesco Micari. Sarà, infine, dedicato un breve spazio al dibattito. L’autore risponderà agli interrogativi posti anche a commento dell’evento sulla pagina Facebook.

Il giovane e promettente scrittore Antonio Pizzimenti, genovese di nascita, si è trasferito a Messina, luogo di origine dei genitori, al termine delle scuole superiori e dopo una breve parentesi nel giornalismo sportivo. Le sue esperienze di vita e il suo sentire, si sovrappongono a quelle vissute dall’Artista che fin dai “banchi di scuola” aveva esercitato su di lui un forte fascino, il Maestro Giorgio De Chirico. Per tale ragione ha iniziato e portato a termine un testo unico nel suo genere e in grado di “calamitare”l’attenzione del lettore, trasportandolo nell’universo di De Chirico e della Sua Arte, fungendo da magica guida per svelare segreti di piazze, torri, treni, gioco degli scacchi, enigmatiche figure… luoghi tutti dell’anima.

De Chirico, colui che è stato definito “Pictor optimus” per la tecnica cristallina, è considerato il Padre della Pittura Metafisica, quale reazione alle avanguardie cubiste e futuriste ed è per primo Apollinaire a usare la terminologia, parlando di dipinti enigmatici e stranamente “metafisici” oltre, cioè, la fisica. Una pittura dunque caratterizzata da uno stato di malinconia dinanzi al mistero della vita e all’enigma. Necessita esplorare ciò che sta alla base, senza avere pretesa di giungere all’essenza delle cose (idee inafferrabili, dagli scritti di Platone).

Vivremo con l’autore percorsi di “metafisica dell’anima”, alla scoperta delle raffigurazioni dei dipinti di De Chirico e lo accompagneremo nelle Sue Piazze misteriose,fra le Sue Muse inquietanti,le vedute di città, ove lo spazio pubblico tracciato con rigore geometrico, disabitato dall’uomo, è popolato da oggetti estraniati dal loro contesto che emergono con la loro forza iconica divenendo irreali per gli accostamenti improbabili.

Fuori da ogni buon senso e da ogni logica, la “pittura metafisica” di De Chirico abbandona gli schemi della pittura realistica, divenendo arguto riflesso dell’inconscio.Il dipinto diviene un accostarsi di elementi che, alla vista della ragione, sembrano fra loro disconnessi, ma non lo sono, se si dà alla sua lettura un taglio filosofico-psicologico. Tutto acquista significato se realtà e fantasia sono complementari al sogno e alle immagini oniriche. “Sognare una persona – dirà De Chirico – è prova della sua esistenza metafisica”. Nella sua arte rivelatrice, l’ironia si fonde con la tradizione classica, il misterioso con il razionale. Al suo esordio le opere erano di “stampo” Böckliniano e Klingeriano… e, pur se De Chirico volle evitare gli eccessi dell’avanguardia, non voleva proporre un’arte incapace di recidere i legami con il passato e si discostò pertanto dalle ricerche naturalistiche di Severini.

Ed ecco… la forza fantastica della pittura metafisica di De Chirico, il suo andare controcorrente, i simboli stranianti, i personaggi sfuggenti, le complesse allegorie, il suo classicismo stravolto di statue antiche e di manichini dalle linee geometriche, quella solitudine espressa nei suoi dipinti, specchio della sua anima schiva, una solitudine che abbraccia l’universo, l’intero soffio di vita cosmica.

È una concezione che nasce nell’Artista dalla frequentazione di letture filosofiche di stampo metafisico e, specialmente, la predilezione per gli scritti di Nietzsche e Schopenhauer, che gli insegnarono il non-senso della vita e come possa trasmutarsi in arte.

Ancora una volta, l’autore di “La metafisica dell’anima” e l’artista per eccellenza della “Pittura metafisica” si incontrano, sulla via della filosofia, entrambi si lasciano guidare dalle loro Muse per dar vita alle loro creazioni.

L’allestimento di un’esposizione, corredata da una ricca bibliogafia, presenterà poi ai followers uno spaccato delle pubblicazioni disponibili in Biblioteca sull’artista Giorgio De Chirico, espressione di un’ “arte severa e cerebrale, ascetica e lirica”, che ha aperto la strada al Surrealismo di René Magritte e di Max Ernst. Troveranno, altresì, spazio quelle che sono state le letture predilette dall’artista, i testi di filosofia, e, in particolare, Schopenhauer, Nietzsche e Heidegger.

La Biblioteca attende i propri fruitori in collegamento virtuale.
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Per INFO:
Ufficio Relazioni con il Pubblico tel.090674564
urpbibliome@regione.sicilia.it



Pisa: Tomás Saraceno – Conurbazioni nebulose/Conurbações nefelibatas

Il Museo della Grafica (Comune di Pisa, Università di Pisa), la Faculda de de Arquitetura e Urbanismo da Universida de de São Paulo (FAU USP) e l’European Gravitational Observatory(EGO), in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di São Paulo, presentano

TOMÁS SARACENO
CONURBAZIONI NEBULOSE/

CONURBAÇÕES NEFELIBATAS

dialogo con Stavros Katsanevas

con la partecipazione di Luciano Migliaccio, Giselle Beiguelman, Lucia Tongiorgi Tomasi, Alessandro Tosi
Mercoledì 9 giugno ore 15:00

Tomás Saraceno, uno dei più importanti e originali protagonisti dell’arte contemporanea, dialoga con il fisico Stavros Katsanevas, direttore di EGO (European Gravitational Observatory), tra arte, scienza e architettura. Partecipano all’incontro Luciano Migliaccio (FAU USP), Giselle Beiguelman (FAU USP), Lucia Tongiorgi Tomasi (Accademia dei Lincei), Alessandro Tosi (Università di Pisa, direttore del Museo dellaGrafica). L’evento, secondo appuntamento di Connessioni. Architetture immaginarie tra passato e futuro/ Conexões. Arquiteturas Imaginárias entre o Passado e o Futuro, ciclo di incontri con grandi artisti del passato e del presente, è organizzato con la collaborazione tecnica del Polo Multimediale dell’Università di Pisa e si può seguire in diretta streaming sul canale YouTube del Sistema Museale di Ateneo e sulle pagine Facebook del Museo della Grafica e di MediaEventi.

Per partecipare, è possibile collegarsi a:
YouTube Sistema Museale di Ateneo: https://youtu.be/JayMgVvEDmA
Pagina Facebook Museo della Grafica
Pagina Facebook Media Eventi

IMMAGINE DI APERTURA – Invito all’Evento

Alessandro Falzani – L’automa segreto di Vaucanson

Parigi, anno 1779. Il re Luigi XVI indice una festa a corte dove sono invitati esponenti politici di alto rango internazionale. Il suo amico, nonché famoso inventore Jacques de Vaucanson, ha l’incarico di dilettare gli invitati con la sua ultima creazione: il flautista. Durante tale cerimonia, che riserva obiettivi ben più importanti, Jacques fa la conoscenza di un misterioso uomo; da quel preciso istante la vita dell’inventore cambierà per sempre.

Deserto del Nevada, anno 2020. Un assalto improvviso ad una segretissima base americana crea caos all’interno della Cia. Nonostante una strenua difesa, ad opera di un manipolo di coraggiosi soldati, viene prelevato un reperto importantissimo ancora in fase di studio sperimentale e la base viene quasi distrutta.

Vaticano, stessi giorni. Le famose fondamenta segrete, sin ora custodite gelosamente dalla Chiesa, vengono aperte al pubblico per inspiegabile ordine del nuovo segretario di stato e di Sua Santità in persona. Ciò che il codice Tesla aveva ardentemente celato ai posteri rischia di finire nelle mani sbagliate. Tutto sta convergendo verso il disegno finale, un destino che nessuna agenzia di controspionaggio pare in grado di fermare.

L’automa segreto di Vaucanson è il terzo volume di CODEX. La saga Codex ha raggiunto il milione di lettori negli store… grazie.

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro 



Con le stampe esotiche artisti e pubblico si appassionano per l’arte giapponese

di Sergio Bertolami

21 – Il Giapponismo nella seconda metà dell’Ottocento.

L’Art Nouveau è sostanzialmente legata alle arti dell’Estremo Oriente, che nella seconda metà dell’Ottocento tornarono ad incidere sulle inclinazioni degli artisti e del pubblico più ampio. Non perché dal secolo XVIII – durante il quale avevano profondamente sedotto le élite – erano state poi sprezzate o disconosciute, ma perché in verità erano ormai del tutto cadute nell’oblio. Quello che però sarà chiamato Giapponismo non è mutuato soltanto da un fatto di gusto estetico, ma ha diretti riscontri politici ed economici. La riscoperta prese avvio, infatti, con la Convenzione di Kanagawa, un trattato di amicizia e pace tra Giappone e Stati Uniti, sottoscritto il 31 marzo 1854. Un trattato che mise fine a due secoli di isolazionismo e alla nascita dell’Impero nipponico. Dal 1641, infatti, solo le navi cinesi e quelle olandesi della Compagnia delle Indie orientali avevano diritto di approdare in un unico porto giapponese, Nagasaki. Per la precisione a Dejima (letteralmente isola d’uscita), una piccola piattaforma artificiale a ventaglio, appositamente costruita all’ingresso della città portuale. Fino ad allora solo pochi prodotti, nonostante i divieti di esportazione, riuscivano a filtrare in Europa. I servizi in porcellana o gli opuscoli illustrati e le xilografie giapponesi, per il loro costo eccessivo, erano acquistabili soltanto dalla ristretta cerchia aristocratica. Ora, invece, il trattato rompeva, a tutti gli effetti, le maglie di un ferreo isolamento che durava da duecento anni. Per la verità, il trattato aveva per oggetto il salvataggio marittimo e non il libero scambio commerciale. Era stato imposto al Giappone sotto la minaccia di cannoneggiamenti da parte della Marina statunitense, in seguito ai maltrattamenti subiti dagli equipaggi balenieri americani naufragati al largo della costa nipponica. Vi si specificava chiaramente: «Il porto di Simoda [Yedo], nel principato di Idzu, e il porto di Hakodade, nel principato di Matsmai [Hokkaido], sono concessi dai giapponesi come porti per l’accoglienza delle navi americane, dove potranno essere rifornite con legna, acqua, provviste, carbone e altri articoli di loro necessità, da richiedere secondo le disponibilità giapponesi». Per assolvere ai compiti di accoglienza dei naufraghi – salvati lungo le coste e successivamente trasferiti nei porti di Simoda e di Hakodade – furono nominati, dal Governo degli Stati Uniti, consoli ed agenti. Per quella che fu considerata un’ingerenza esterna, il trattato divenne causa di gravi conflitti politici interni. Ne conseguì una guerra civile, risolta soltanto nel 1869 con la restaurazione del potere imperiale Meiji e la fine dello shogunato Tokugawa. L’accordo fu seguito da analoghe convenzioni, questa volta commerciali, con gli Stati Uniti ed anche con Inghilterra, Francia, Russia e naturalmente Olanda. Volendo richiamare un fatto già detto in precedenza, ecco il motivo per cui nel 1870 Martin Michael Bair, cognato di Siegfried Bing, fu nominato console nella nuova capitale, che da Edo (entrata della baia) trasformò il nome in Tokyo (capitale d’Oriente). La strada della modernizzazione si stava aprendo anche nel lontano arcipelago.

Mappa illustrata di Nagasaki Maruyama Okyo, Nagasaki Museum of History and Culture Collection

Con questo avvio di libero scambio commerciale fra Oriente ed Occidente, manufatti giapponesi cominciarono a circolare in Europa in maniera più cospicua, finendo col comparire persino nelle vetrine e sui banchi dei negozi di curiosità. Le “giapponeserie” si diffusero come nel secolo precedente avevano fatto le “cineserie”. In questo caso la mania per tutto ciò che era insolito e raro, raffinato e suggestivo, iniziò con la raccolta di porcellane, lacche, piccole sculture e bronzi, sete, kimoni, soprattutto stampe Ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante) dei grandi maestri Hokusai, Hiroshige, Utamaro, Kunisada, Eisen. Giunsero anche i Mangwa (immagini casuali), album di schizzi a tema. Si racconta che Félix Bracquemond, interessato più che mai alla tecnica dell’incisione, fu forse il primo artista parigino a prendere spunto dall’arte giapponese, riproponendo quelle esotiche figure su di un servizio di porcellana, decorato nel 1867 per Eugene Rousseau. Fu, infatti, nella bottega del suo stampatore, Auguste Delâtre, al 171 di rue Saint-Jacques, che nel 1856 trovò un Mangwa di Katsushika Hokusai. Le sue pagine erano servite casualmente ad avvolgere la spedizione di fragili porcellane. Riproducevano gli schizzi sparsi che il pittore aveva catturato col suo pennello: paesaggi, uccelli, animali, piante ed alberi, scene di vita quotidiana. Il minuscolo fascicolo, che Delâtre aveva ricomposto da quei fogli, produsse un’impressione vivissima in Bracquemond. Riuscì ad acquisirlo soltanto un paio d’anni dopo, grazie ad uno scambio con delle incisioni di Eugène Lavieille che conservava. Bracquemond ne fece quasi un breviario. Portava quel libretto di schizzi in tasca e lo mostrava a tutti, per giudicare dalla sorpresa degli interlocutori l’ammirazione e la curiosità che suscitava.

Hokusai manga vol.15

A giugno del 1862 il pittore si unì con un gruppo di giovani artisti alla Société des aquafortistes, fondata dall’editore Alfred Cadart con la collaborazione dello stesso tipografo Delâtre. L’associazione voleva rinnovare il modo di produrre le incisioni moderne. Sempre nel 1862, si aprì anche La Porte Chinoise al 220 di rue de Rivoli, vicino al Louvre. Una boutique di paccottiglia orientale condotta da Madame De Soye, che fece crescere l’entusiasmo. Qualche nome dei suoi clienti? Whistler e Fantin-Latour, i Goncourts e Baudelaires, Bracquemond e Millet, Manet, Degas, Monet, Zola, Champfleury, e si potrebbe continuare. Baudelaire scriveva a sua madre: «Ho ricevuto un pacco di giapponeserie, le ho condivise con alcuni amici». Un visitatore dello studio di Whistler riferiva ad un amico: «Qui, sono quasi in paradiso. Crederesti di essere stato a Nagasaki o al Palazzo d’Estate, Cina, Giappone, è splendido». L’inglese Dante Gabriel Rossetti, mentre cercava articoli giapponesi a Parigi, venne a sapere che «tutti i costumi erano acquistati da un artista francese, Tissot, che sembra stia facendo tre quadri giapponesi, descritti a me dalla proprietaria del negozio come le tre meraviglie del mondo».

James Tissot, La Japonaise au bain (c.1865 ), Musée de Dijon, Francia. 
 

Il gusto per l’arte giapponese era inizialmente limitato ai circoli ristretti di intenditori, letterati e artisti. Fu l’Esposizione Universale del 1867 a diffondere davvero questa attrazione, dedicando ampi spazi all’Estremo Oriente. Col prorompere del gusto, nacque anche il termine Japonisme, coniato dall’incisore Philippe Burty nel 1873. All’inaugurazione dell’Esposizione, fra le tante cronache, si poteva leggere di tutto. Ad esempio, un pezzo che rendeva noto di un artista della Maison Christofle che aveva avuto l’idea di applicare lo stile di decorazione giapponese ai gioielli di oreficeria, ai flaconi, alle scatole di caramelle. In un altro articolo si leggeva che il gioielliere Martz aveva ideato degli smalti orientali, traendo ispirazione da alcuni album di Hokusai, Toyokuni e Kuniyoshi che si era procurato. Bracquemond, il quale rivendicava il merito di aver “scoperto” il primo libro illustrato proveniente dal Giappone – e non era chiaramente il primo –, fondò “Jinglar” un’associazione che mensilmente si riuniva a cena chez Solon, ovvero dal direttore della Manifattura di Sèvres. Tra i proseliti del nuovo gusto c’erano Zacharie Astruc, Fantin-Latour, Philippe Burty, l’incisore Jacquemard. In questi incontri mangiavano riso con le bacchette; spegnevano i sigari in posacenere orientali; tutto era ispirato al Giappone, compreso il servizio da tavolo inciso da Bracquemond. Jules de Goncourt terminava una lettera a Philippe Burty inneggiando: «Japonaiserie for ever». Dal canto suo anche Edmond de Goncourt, nei suoi scritti, rivendicava per sé e suo fratello il primato di questo interesse verso il Sol Levante. Dal momento che Edmond non visitò mai l’Estremo Oriente, le sue osservazioni evidentemente si basavano sulle opere d’arte che studiava e che raccoglieva in una interessante collezione privata. Poteva pure contare sui giapponesi che incontrava a Parigi. Fra questi, Hayashi Tadamasa, un commerciante che, stabilitosi a Parigi, è oggi riconosciuto come figura importante per l’importazione e diffusione dell’arte e della cultura giapponese in Europa. Nel 1878, in occasione dell’Esposizione Universale di quell’anno, Tadamasa era giunto a Parigi al seguito del mercante e antiquario Kenzaburô Wakaï, per il quale faceva da venditore e interprete. Presentò porcellane i cui prezzi si quadruplicarono in un batter d’occhio.

The Kiryu Kosho Kaisya Standing Industry and Trading Company (1873-1891)

L’allestimento di una fattoria giapponese sembrava essere una delle “meraviglie della mostra” e la Kiryo Kosho Kaisha, rifornì di merci il padiglione giapponese. Le finalità di quella che rappresentava la prima società di produzione e commercio giapponese erano esplicite: «La nostra azienda, Kiriu Kosho Kuwaisha, è stata fondata con lo scopo di incoraggiare le industrie giapponesi e promuoverne la massima perfezione possibile». Tadamasa rimase a Parigi, dapprima per vendere la merce restante alla chiusura dell’Esposizione, ma finì con aprire un negozio e così diventò, con Siegfried Bing, uno dei migliori mercanti d’arte giapponese a Parigi. Da lui acquistavano i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, le voci più entusiaste verso il Giapponismo. Non furono probabilmente i primi a comprendere le raffinatezze di quest’arte esotica, ma Edmond – Jules era scomparso nel 1870 – espresse in due pubblicazioni la sua passione: nel 1891, pubblicò la prima monografia storica su Kitagawa Utamaro, seguita nel 1896 da un’altra monografia su Katsushika Hokusai.

Ospiti a una cena annuale della London Japan Society, 1900. Fotografia. (Fonte Japan Society, Londra)
Biglietto d’invito che annuncia una conferenza di Siegfried Bing alla Japan Society di Londra (Fonte Japan Society, Londra)

Bing propose Edmond de Goncourt per l’ingresso alla The Japan Society di Londra, il 10 marzo 1893, anche se, in verità, il loro rapporto era spesso teso, a causa dell’idea di Edmond di ritenersi il principale fautore dell’arte giapponese in Francia, quasi l’esperto assoluto. Si accapigliavano in strenui dibattiti riguardo ad alcuni passi del libro su Hokusai. Fin dall’inizio delle attività di Bing come negoziante d’arte, Goncourt era comunque un suo assiduo frequentatore. Dal momento che Bing ne riconosceva la fama di scrittore, con uno schietto impegno di lunga data riguardo al Giappone, pensò bene di candidarlo come socio della prestigiosa Società londinese.

A sinistra: Hiroshige, Cento vedute di Edo, n. 30, Pruneraie à Kameido (1857), a destra: Van Gogh, Japonerie. Plum Blossoms (1887), Museo Van Gogh, Amsterdam.

Qualche anno fa, lo storico Jean Chesneaux – esperto di Asia orientale – si rammaricava che analogamente al Giappone di oggigiorno che ha preso in prestito le nostre arti meccaniche, la nostra arte militare, le nostre scienze, così gli europei dell’Ottocento ghermivano le arti decorative giapponesi. «Non era più una moda, era un’infatuazione, una follia». Chesneaux, in verità, stigmatizzava soprattutto l’imitazione volgare. Questo perché le opere giapponesi conquistavano anche i dilettanti, si allargavano sempre più nel gusto popolare, inquietando il mondo della cultura. Dal 1878 al 1895 l’ossessione continuò ad espandersi. Tuttavia, fra gli specialisti iniziarono le prime ricerche sistematiche: l’inglese W. Anderson nel 1879 e 1886, Théodore Duret nel 1882, Louis Gonse nel 1883, Madsen nel 1885 e naturalmente Edmond de Goncourt negli anni Novanta. Questo per dire delle pubblicazioni e non dilungarsi sulle mostre. Giova però citarne qualcuna. Nel 1887, una piccola vetrina a Parigi fu dedicata alle sole stampe giapponesi. Al caffè Le Tambourin di avenue de Clichy, la organizzò uno sconosciuto olandese, Vincent Van Gogh, che passò inosservato. Era completamente irretito da quelle stampe, che ne comprò centinaia. In una lettera da Arles del 15 Luglio 1888 Vincent esortava il fratello Théo ad acquistare xilografie nella galleria di Siegfried Bing, con la quale aveva un conto aperto: «Ti prego conserva il deposito di Bing, i vantaggi sono troppo grandi».

Exposition de la Gravure Japonaise (Mostra di stampe giapponesi) di Jules Chéret, Chaix et Malherbe 1890. Dalle collezioni dei musei de Young e Legion of Honor di San Francisco, CA.

Nel 1888 Bing stesso offrì all’ammirazione del pubblico, nel suo negozio, centosessanta pezzi della sua “meravigliosa collezione”. Ma le mostre si ripeterono ancora, perché due anni dopo, una superba retrospettiva storica ebbe luogo addirittura nella sede ufficiale della cultura accademica francese. In tale circostanza, Mary Cassatt, statunitense, scriveva a Berthe Morisot, ambedue pittrici impressioniste: «Devi vedere le stampe giapponesi. Vieni appena puoi all’École des Beaux-Arts». L’ampia presentazione era stata organizzata proprio da Siegfried Bing, e fu particolarmente significativa sia per il numero degli esemplari – vi erano presentate più di 700 stampe – che per la qualità degli espositori. Georges Clemenceau, futuro primo ministro, era tra questi. Nonostante l’impegno culturale, le Japoneries si trovavano ormai dappertutto. Anche nei bazar. La merce scadente aveva invaso i banchi dei grandi magazzini: il Petit Saint-Thomas aveva preso a diffonderla in provincia. Siegfried Bing, da quell’abile uomo di affari qual era, vide il pericolo in tempo. Trasformando La Maison Bing, mise a segno il suo ennesimo successo. La rinnovata galleria d’arte si chiamò L’Art Nouveau.

Il padiglione giapponese Midori no Sato

Poco si sa del primissimo padiglione giapponese fondato in Francia (1886), quello del giardino di Hugues Krafft chiamato Midori no Sato, scomparso pochi decenni fa. Gli scavi effettuati nel sito ci hanno permesso di trovare le fondamenta del padiglione e di tentarne la ricostruzione.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Perché i film amano i libri per bambini? … E altro ancora

“Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

THE NEW YORKER

Perché i film amano i libri per bambini?

Si potrebbe pensare che ogni nuovo film per bambini sia stato realizzato con riferimento ai testi classici, invece emergono ancora, incessantemente, sempre nuovi adattamenti. L’anno scorso abbiamo preso visione di una nuova versione del racconto “Il giardino segreto”, così come l’interpretazione opportunamente sinistra di Matteo Garrone su “Pinocchio”. Ma ci sono tante altre storie riadattate.



LOS ANGELES TIMES

Lezioni di mamme e nonne in tre nuovi libri sulla cucina cinese

Negli ultimi due mesi sono stati pubblicati tre fantastici libri di cucina che contestualizzano cosa significa cucinare cibi cinesi, ma da una prospettiva diversa, quella di una seconda generazione. Presi insieme, questi libri, forniscono un’istantanea di come gli autori descrivano in dettaglio l’assimilazione nella cultura occidentale pur mantenendo i collegamenti con le culture e le tradizioni delle generazioni passate.



LITERARY HUB

“TIARA”

di BOLU BABALOLA

Il racconto è tratto dalla raccolta di Bolu Babalola, Love in Color , una rivisitazione della storia e della mitologia. Babalola è uno scrittore di libri e sceneggiature. Scrive soprattutto storie di donne dinamiche con voci distinte che amano e sono amate con audacia.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di OpenClipart-Vectors e fevzizirhlioglu da Pixabay