Pierre-Auguste Muysson – L’uomo che una volta sconfisse la Morte

di Pierre-Auguste Muysson

Al freddo pungente della neve, che da qualche ora aveva ricoperto il paese, si aggiungeva l’umido della cripta, rischiarata da una lama di luce che dal lampione filtrava attraverso un’asola sotto la crociera. Lo sguardo perso di Georges incrociò quello del vescovo, che sembrava fissarlo serafico. Se ne stava supino, con il capo reclinato su di una mano e i panneggi della veste perfettamente ordinati. Troppo ordinati, innaturali. Il suo viso tondo, lunare, messo ancor più in evidenza dalla tiara, appariva quasi sorridente. A secondo dello stato d’animo – quando, sin da ragazzino, veniva a fargli visita – quel viso assumeva un paterno sguardo di esortazione o di dubbio o di rimprovero. Questa sera era inspiegabilmente sereno, nonostante lui fosse venuto a manifestargli lo stato d’infermità di sua madre, che lasciava presagire per lei una notte troppo lunga da non farle rivedere la luce del mattino. Cercava parole di conforto, ammesso che il vescovo avesse potuto parlare, ma questa sera, così gelida, gli appariva più marmoreo che mai.

Ogni volta che ne sentiva il bisogno veniva a passarci qualche ora, con quel vescovo di pietra. Scavalcava i tetti delle case abbarbicate alla matrice, si calava lungo un pluviale, sempre più instabile, raggiungeva l’apertura di una finestra dai fregi barocchi e s’immetteva nella cripta. Senza che il parroco se ne accorgesse; perché l’abate Olivier si opponeva tenacemente all’accesso di estranei e attendeva con ansia un restauro che non si realizzava mai e che avrebbe, di fatto, valorizzato il monumento più pregevole della chiesa. Con l’occasione avrebbe fatto collocare una grata per impedire intrusioni.

Ma questa sera, ancora una volta, Georges era lì. Da sempre, o almeno da quando se ne ricordava – e un suo ricordo d’infanzia coincideva con la scomparsa del padre – si era dovuto comportare con la stessa saggezza di un vecchio. Studiare e lavorare. Coltivare la ricchezza dello spirito e badare, nonostante le avversità, all’orto di famiglia che permetteva il sostentamento suo e di sua madre. E ora anche lei sarebbe andata via, come uno dopo l’altro vanno via gli anziani, percorrendo la strada che divide in due l’abitato. Verso nord, per raggiungere il Campo Santo. Verso sud, invece, vanno via i giovani del paese, in direzione della città. Per studiare, per lavorare, per prendere il treno e andare ancora più lontano a cercare chissà quale fortuna.

A leggere un libro che aveva trovato in un cassone sembra che nei primi anni del secolo – inizio Novecento per intenderci – il paese contasse oltre diecimila anime, forse anche di più. Ora a transitare per certe sue strade ci si poteva chiedere se le case fossero mai state abitate. Il libro lo aveva scritto il parroco; quello che c’era prima dell’abate Olivier, prima cioè che se ne andasse pure lui, verso nord. Il vescovo di pietra, invece, era rimasto nella chiesa, perché era qui che si raccoglievano le spoglie mortali dei personaggi illustri. C’era anche il barone, ma la sua tomba faceva bella mostra lungo la navata laterale, perché nella cripta c’era solo il vescovo. Che fosse davvero un vescovo, a memoria, non avrebbe potuto confermarlo; ma cosa importava il suo lignaggio, se ugualmente poteva parlargli e in virtù del suo sguardo, ottenere una risposta? Ma che risposta era mai quell’ammiccare di sottecchi che aveva assunto questa sera.

Come anelli di fumo, le immagini di una vita si intrecciavano nella sua mente. Avevano tutte un denominatore comune: prodigare ogni sforzo nel tentativo di dare a sua madre una vita migliore di quella che la malattia le aveva riservato. Georges avrebbe potuto enumerare i giorni trascorsi accanto al suo letto o le notti sveglio a contare le ore prima del levare del sole. Dio! Se avesse potuto, avrebbe chiesto di parlare persino con la Morte. Avrebbe usato le sue parole migliori e l’avrebbe convinta a fermare il tempo.

Quando mise la testa fuori dalla cripta, il cielo s’era liberato delle nubi ed era scesa la sera. Il paese, illuminato a singhiozzo, gli sembrò di cartone, come quello di un presepe. Fu solo allora che rammentò che era la vigilia di Natale; ma non c’erano pastori nelle strade, né comete nel cielo. 

Si arrampicò di nuovo sul pluviale, passò da un tetto all’altro, si calò nella strada che costeggia l’abside della chiesa, rischiarata dalla luce pallida della luna. Neppure due passi e si sentì chiamare. Era l’abate Olivier, nella penombra, che si apprestava alla canonica con andatura spedita. Cercò di defilarsi, per timore di un rimprovero. Ma si sentì chiamare ancora. Allora Georges si voltò. Il parroco teneva in mano un pacco e glielo porgeva. Nell’avviarsi a casa, lo pregò di fermarsi a palazzo e di consegnarlo al barone, tanto più che aveva chiesto di lui e manifestato l’urgenza di parlargli. Dal canto suo l’abate Olivier espresse, con spiccia cortesia, la sua premura per via dei preparativi necessari alla celebrazione della messa grande di mezzanotte. Sarà stato per la luce fioca o per quel movimento rigido della veste, che si scorgeva sotto il cappotto pesante, ma il volto del parroco gli parve tondo e lunare. Per la prima volta, Georges ravvisò una somiglianza con la statua del vescovo.

Quando fu nello studio del barone – o meglio del nipote del barone, o meglio ancora del signor sindaco – Georges in cuor suo cominciò a scalpitare per il tempo ch’era trascorso da quando aveva lasciato la stanza di sua madre. L’uomo mostrava un portamento lento e altero. Si accostò alla scrivania, cercò il tagliacarte tra i fascicoli che ricoprivano il piano di lavoro e con fare puntiglioso aprì attentamente il pacchetto. Quel che ne cavò fuori sembrò, nel barlume della lampada da tavolo, un antico stendardo; anzi, era proprio l’antico stendardo della confraternita dei Nobili, che il sindaco, cioè il barone, aveva voluto fosse inviato ad abili ricamatrici perché ne riparassero le scuciture. Nel corso della celebrazione della messa di quella mezzanotte sarebbe tornato a figurare fra gli stendardi della confraternita dell’Arte e Mestieri e quella della Misericordia. Il nobile fu colto da un moto di orgoglio e la sua espressione si fece trionfante, perché credeva convintamene che occorresse rinsaldare, nel paese desolato, un’identità estenuata.

Intento ad ammirare i preziosi ricami dorati, s’era però dimenticato del ragazzo, quasi che ogni cosa del mondo girasse intorno allo stendardo. Ricordando che lui stesso lo aveva mandato a chiamare, frugò fra le carte ed aprì una busta. Le cattive notizie non vengono mai sole, pensò ansioso Georges. Il sindaco sottolineò, con aria sussiegosa, che stava parlando in qualità di pubblico amministratore. Si complimentò con il giovane e gli confermò il finanziamento del Circolo da lui presieduto a sostegno dell’iniziativa che aveva intenzione di assumere. Per annunciargli la notizia non aveva voluto attendere di riceverlo nella sede comunale, ma incontrarlo subito, giacché – disse – i giovani capaci e volenterosi come lui rappresentavano la speranza del paese.

Il più bel regalo di Natale che Georges avesse potuto sperare. In altri momenti. Ci aveva confidato, lavorato, fantasticato. Era lo strumento per realizzare il futuro vagheggiato, per superare la stretta dipendenza dalle quotidiane contingenze. Aveva scommesso con sé stesso, e con i suoi scettici compaesani, che avrebbe potuto utilizzare il suo diploma di agrario a beneficio di tutti. Aveva l’avvenire nelle mani. Mentre a passi svelti percorreva la via del ritorno, le botteghe che si affacciavano sulla strada ripresero via via a popolarsi, nella sua fantasia: il salone da barbiere, il negozio di generi alimentari e la dolceria all’angolo del Collegio di Maria. Il paese questa sera assomigliava davvero a un presepe, in cui entravano a far parte, tra le figurine di terracotta, l’asino con le bertole stracolme e persino la sfasciata berlina di cui monsieur Victor andava ancora fiero. Questo pensava Georges, risalendo gli sconnessi gradini che lo separavano da casa. In altri momenti sarebbe stato felice, ma le condizioni di salute di sua madre gli davano il tormento.

La casa di un morente ha un silenzio tutto suo. Sembrò persino che il rumore del portone su strada, nel richiudersi, rintronasse oltremisura. Georges entrò in camera e, appena lo scorse, sua cugina Mathilde gli lasciò il posto a sedere accanto al capezzale ed uscì. L’ammalata stava adagiata su due ampi cuscini bianchi appoggiati alla spalliera del letto di metallo. Il respiro rantolante, lo sguardo assente. Di tanto in tanto prendeva a scuotere la coperta e delirava di aiutarla a liberarsi da nugoli di formiche che la stavano assalendo. Poi tornava tranquilla e ancora assente. Chi veglia un infermo rimane immobile come l’infermo stesso. Così Georges. Unico movimento era quel suo sguardo che lo portava ad osservare particolari mai degnati d’attenzione: il punto con cui era tessuta la coperta, il merletto del lenzuolo sgualcito, i gigli di madreperla che ornavano la testiera del letto in metallo brunito. Si alzò di scatto per richiudere le persiane di castagno che avevano preso all’improvviso a battere per il vento, e si sorprese a riflettersi nello specchio dell’armoire alle spalle. Fu in quell’attimo che Georges si accorse di non essere solo con sua madre nella stanza.

Accanto alla testiera del letto – non ebbe dubbi – eretta e silente era la Morte. Quando la si vede accanto alla testiera, dicevano le storie di paese, era segno evidente che fosse l’ultima ora. Fissava la donna come se ne gestisse il respiro agonizzante. Dio! Se avesse potuto, avrebbe chiesto di parlare persino con la Morte. Non era questo che aveva desiderato nella cripta del vescovo? Non avrebbe voluto esprimerle i sentimenti più intensi per convincerla a fermare il tempo? Ora, al contrario, si sentiva impietrito, ma con il coraggio della disperazione si scosse. Cominciò a formulare parole senza neppure badare a grammatica e sintassi. Avrebbe potuto offrire uno scambio, avrebbe rinunciato al suo regalo di Natale, al suo avvenire, alle sue aspirazioni… La Morte rimase indifferente e lui sentì inutile ogni sforzo. Fu allora, che gli balenò in mente una tradizione medievale che raccontava di un uomo che una volta sconfisse la Morte. Fu un tutt’uno. Georges spinse con forza la sponda e il traballante letto metallico di sua madre ruotò su sé stesso. Abbatté il comodino, frantumò la lampada, volarono in aria gli oggetti.

La Morte, sbigottita, si trovò inaspettatamente ai piedi del letto, svuotata di ogni potere. Lo trafisse con lo sguardo, ma non proferì parola. Era solo questione di tempo – anche su questo il giovane non ebbe dubbi – perché sarebbe tornata di nuovo in quella casa e non solo per sua madre. Un tepore lieve sembrò diffondersi nella stanza, perché il caminetto riattivò spontaneamente la fiamma. Fu allora che Georges trasalì a sentirsi stringere la mano. Sua madre, con voce flebile, gli raccomandava di far presto a cenare, perché le campane già annunciavano la messa di mezzanotte.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Laura Beltrame da Pixabay