Pierre-Auguste Muysson – L’uomo che una volta sconfisse la Morte

di Pierre-Auguste Muysson

Al freddo pungente della neve, che da qualche ora aveva ricoperto il paese, si aggiungeva l’umido della cripta, rischiarata da una lama di luce che dal lampione filtrava attraverso un’asola sotto la crociera. Lo sguardo perso di Georges incrociò quello del vescovo, che sembrava fissarlo serafico. Se ne stava supino, con il capo reclinato su di una mano e i panneggi della veste perfettamente ordinati. Troppo ordinati, innaturali. Il suo viso tondo, lunare, messo ancor più in evidenza dalla tiara, appariva quasi sorridente. A secondo dello stato d’animo – quando, sin da ragazzino, veniva a fargli visita – quel viso assumeva un paterno sguardo di esortazione o di dubbio o di rimprovero. Questa sera era inspiegabilmente sereno, nonostante lui fosse venuto a manifestargli lo stato d’infermità di sua madre, che lasciava presagire per lei una notte troppo lunga da non farle rivedere la luce del mattino. Cercava parole di conforto, ammesso che il vescovo avesse potuto parlare, ma questa sera, così gelida, gli appariva più marmoreo che mai.

Ogni volta che ne sentiva il bisogno veniva a passarci qualche ora, con quel vescovo di pietra. Scavalcava i tetti delle case abbarbicate alla matrice, si calava lungo un pluviale, sempre più instabile, raggiungeva l’apertura di una finestra dai fregi barocchi e s’immetteva nella cripta. Senza che il parroco se ne accorgesse; perché l’abate Olivier si opponeva tenacemente all’accesso di estranei e attendeva con ansia un restauro che non si realizzava mai e che avrebbe, di fatto, valorizzato il monumento più pregevole della chiesa. Con l’occasione avrebbe fatto collocare una grata per impedire intrusioni.

Ma questa sera, ancora una volta, Georges era lì. Da sempre, o almeno da quando se ne ricordava – e un suo ricordo d’infanzia coincideva con la scomparsa del padre – si era dovuto comportare con la stessa saggezza di un vecchio. Studiare e lavorare. Coltivare la ricchezza dello spirito e badare, nonostante le avversità, all’orto di famiglia che permetteva il sostentamento suo e di sua madre. E ora anche lei sarebbe andata via, come uno dopo l’altro vanno via gli anziani, percorrendo la strada che divide in due l’abitato. Verso nord, per raggiungere il Campo Santo. Verso sud, invece, vanno via i giovani del paese, in direzione della città. Per studiare, per lavorare, per prendere il treno e andare ancora più lontano a cercare chissà quale fortuna.

A leggere un libro che aveva trovato in un cassone sembra che nei primi anni del secolo – inizio Novecento per intenderci – il paese contasse oltre diecimila anime, forse anche di più. Ora a transitare per certe sue strade ci si poteva chiedere se le case fossero mai state abitate. Il libro lo aveva scritto il parroco; quello che c’era prima dell’abate Olivier, prima cioè che se ne andasse pure lui, verso nord. Il vescovo di pietra, invece, era rimasto nella chiesa, perché era qui che si raccoglievano le spoglie mortali dei personaggi illustri. C’era anche il barone, ma la sua tomba faceva bella mostra lungo la navata laterale, perché nella cripta c’era solo il vescovo. Che fosse davvero un vescovo, a memoria, non avrebbe potuto confermarlo; ma cosa importava il suo lignaggio, se ugualmente poteva parlargli e in virtù del suo sguardo, ottenere una risposta? Ma che risposta era mai quell’ammiccare di sottecchi che aveva assunto questa sera.

Come anelli di fumo, le immagini di una vita si intrecciavano nella sua mente. Avevano tutte un denominatore comune: prodigare ogni sforzo nel tentativo di dare a sua madre una vita migliore di quella che la malattia le aveva riservato. Georges avrebbe potuto enumerare i giorni trascorsi accanto al suo letto o le notti sveglio a contare le ore prima del levare del sole. Dio! Se avesse potuto, avrebbe chiesto di parlare persino con la Morte. Avrebbe usato le sue parole migliori e l’avrebbe convinta a fermare il tempo.

Quando mise la testa fuori dalla cripta, il cielo s’era liberato delle nubi ed era scesa la sera. Il paese, illuminato a singhiozzo, gli sembrò di cartone, come quello di un presepe. Fu solo allora che rammentò che era la vigilia di Natale; ma non c’erano pastori nelle strade, né comete nel cielo. 

Si arrampicò di nuovo sul pluviale, passò da un tetto all’altro, si calò nella strada che costeggia l’abside della chiesa, rischiarata dalla luce pallida della luna. Neppure due passi e si sentì chiamare. Era l’abate Olivier, nella penombra, che si apprestava alla canonica con andatura spedita. Cercò di defilarsi, per timore di un rimprovero. Ma si sentì chiamare ancora. Allora Georges si voltò. Il parroco teneva in mano un pacco e glielo porgeva. Nell’avviarsi a casa, lo pregò di fermarsi a palazzo e di consegnarlo al barone, tanto più che aveva chiesto di lui e manifestato l’urgenza di parlargli. Dal canto suo l’abate Olivier espresse, con spiccia cortesia, la sua premura per via dei preparativi necessari alla celebrazione della messa grande di mezzanotte. Sarà stato per la luce fioca o per quel movimento rigido della veste, che si scorgeva sotto il cappotto pesante, ma il volto del parroco gli parve tondo e lunare. Per la prima volta, Georges ravvisò una somiglianza con la statua del vescovo.

Quando fu nello studio del barone – o meglio del nipote del barone, o meglio ancora del signor sindaco – Georges in cuor suo cominciò a scalpitare per il tempo ch’era trascorso da quando aveva lasciato la stanza di sua madre. L’uomo mostrava un portamento lento e altero. Si accostò alla scrivania, cercò il tagliacarte tra i fascicoli che ricoprivano il piano di lavoro e con fare puntiglioso aprì attentamente il pacchetto. Quel che ne cavò fuori sembrò, nel barlume della lampada da tavolo, un antico stendardo; anzi, era proprio l’antico stendardo della confraternita dei Nobili, che il sindaco, cioè il barone, aveva voluto fosse inviato ad abili ricamatrici perché ne riparassero le scuciture. Nel corso della celebrazione della messa di quella mezzanotte sarebbe tornato a figurare fra gli stendardi della confraternita dell’Arte e Mestieri e quella della Misericordia. Il nobile fu colto da un moto di orgoglio e la sua espressione si fece trionfante, perché credeva convintamene che occorresse rinsaldare, nel paese desolato, un’identità estenuata.

Intento ad ammirare i preziosi ricami dorati, s’era però dimenticato del ragazzo, quasi che ogni cosa del mondo girasse intorno allo stendardo. Ricordando che lui stesso lo aveva mandato a chiamare, frugò fra le carte ed aprì una busta. Le cattive notizie non vengono mai sole, pensò ansioso Georges. Il sindaco sottolineò, con aria sussiegosa, che stava parlando in qualità di pubblico amministratore. Si complimentò con il giovane e gli confermò il finanziamento del Circolo da lui presieduto a sostegno dell’iniziativa che aveva intenzione di assumere. Per annunciargli la notizia non aveva voluto attendere di riceverlo nella sede comunale, ma incontrarlo subito, giacché – disse – i giovani capaci e volenterosi come lui rappresentavano la speranza del paese.

Il più bel regalo di Natale che Georges avesse potuto sperare. In altri momenti. Ci aveva confidato, lavorato, fantasticato. Era lo strumento per realizzare il futuro vagheggiato, per superare la stretta dipendenza dalle quotidiane contingenze. Aveva scommesso con sé stesso, e con i suoi scettici compaesani, che avrebbe potuto utilizzare il suo diploma di agrario a beneficio di tutti. Aveva l’avvenire nelle mani. Mentre a passi svelti percorreva la via del ritorno, le botteghe che si affacciavano sulla strada ripresero via via a popolarsi, nella sua fantasia: il salone da barbiere, il negozio di generi alimentari e la dolceria all’angolo del Collegio di Maria. Il paese questa sera assomigliava davvero a un presepe, in cui entravano a far parte, tra le figurine di terracotta, l’asino con le bertole stracolme e persino la sfasciata berlina di cui monsieur Victor andava ancora fiero. Questo pensava Georges, risalendo gli sconnessi gradini che lo separavano da casa. In altri momenti sarebbe stato felice, ma le condizioni di salute di sua madre gli davano il tormento.

La casa di un morente ha un silenzio tutto suo. Sembrò persino che il rumore del portone su strada, nel richiudersi, rintronasse oltremisura. Georges entrò in camera e, appena lo scorse, sua cugina Mathilde gli lasciò il posto a sedere accanto al capezzale ed uscì. L’ammalata stava adagiata su due ampi cuscini bianchi appoggiati alla spalliera del letto di metallo. Il respiro rantolante, lo sguardo assente. Di tanto in tanto prendeva a scuotere la coperta e delirava di aiutarla a liberarsi da nugoli di formiche che la stavano assalendo. Poi tornava tranquilla e ancora assente. Chi veglia un infermo rimane immobile come l’infermo stesso. Così Georges. Unico movimento era quel suo sguardo che lo portava ad osservare particolari mai degnati d’attenzione: il punto con cui era tessuta la coperta, il merletto del lenzuolo sgualcito, i gigli di madreperla che ornavano la testiera del letto in metallo brunito. Si alzò di scatto per richiudere le persiane di castagno che avevano preso all’improvviso a battere per il vento, e si sorprese a riflettersi nello specchio dell’armoire alle spalle. Fu in quell’attimo che Georges si accorse di non essere solo con sua madre nella stanza.

Accanto alla testiera del letto – non ebbe dubbi – eretta e silente era la Morte. Quando la si vede accanto alla testiera, dicevano le storie di paese, era segno evidente che fosse l’ultima ora. Fissava la donna come se ne gestisse il respiro agonizzante. Dio! Se avesse potuto, avrebbe chiesto di parlare persino con la Morte. Non era questo che aveva desiderato nella cripta del vescovo? Non avrebbe voluto esprimerle i sentimenti più intensi per convincerla a fermare il tempo? Ora, al contrario, si sentiva impietrito, ma con il coraggio della disperazione si scosse. Cominciò a formulare parole senza neppure badare a grammatica e sintassi. Avrebbe potuto offrire uno scambio, avrebbe rinunciato al suo regalo di Natale, al suo avvenire, alle sue aspirazioni… La Morte rimase indifferente e lui sentì inutile ogni sforzo. Fu allora, che gli balenò in mente una tradizione medievale che raccontava di un uomo che una volta sconfisse la Morte. Fu un tutt’uno. Georges spinse con forza la sponda e il traballante letto metallico di sua madre ruotò su sé stesso. Abbatté il comodino, frantumò la lampada, volarono in aria gli oggetti.

La Morte, sbigottita, si trovò inaspettatamente ai piedi del letto, svuotata di ogni potere. Lo trafisse con lo sguardo, ma non proferì parola. Era solo questione di tempo – anche su questo il giovane non ebbe dubbi – perché sarebbe tornata di nuovo in quella casa e non solo per sua madre. Un tepore lieve sembrò diffondersi nella stanza, perché il caminetto riattivò spontaneamente la fiamma. Fu allora che Georges trasalì a sentirsi stringere la mano. Sua madre, con voce flebile, gli raccomandava di far presto a cenare, perché le campane già annunciavano la messa di mezzanotte.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Laura Beltrame da Pixabay  

Grazia Deledda – Il dono di Natale

di Grazia Deledda

I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.

Era una festa eccezionale, per loro, quell’anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.

Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.

E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.

Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.

Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d’alberi carichi di neve e di ghiaccioli, appariva come uno di quegli edifici fantastici che disegnano le nuvole.

Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.

Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un’altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.

Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.

— Ben tornato, Felle.

— Oh, Lia! – egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.

Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l’amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d’occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.

— Che ci hai, qui? – domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. – Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, – aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: – e anche noi!

Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.

In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con bucce di arance e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.

La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un’aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.

Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.

— Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po’ di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? – pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.

Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca1.

Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all’esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l’uomo che lo accompagnava. Quest’uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l’indipendenza d’Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista.

E rimasero tutti scambievolmente contenti.

Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d’oro.

Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.

L’ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s’intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.

Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.

Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.

Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d’occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.

Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.

Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.

— La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini – disse a Felle: – anch’essi hanno diritto di godersi la festa.

Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile.

La notte era gelida ma calma, e d’un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.

Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.

All’entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:

— La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.

Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c’erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po’ triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.

Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.

— Oh, ragazzi, su, in fila.

E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.

I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.

Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell’aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.

Dentro la chiesa continuava l’illusione della primavera: l’altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l’ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.

In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d’oro illuminava loro la via.

Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.

Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.

— Gloria, gloria – cantavano i preti sull’altare.
E il popolo rispondeva: — Gloria a Dio nel più alto dei cieli.
E pace in terra agli uomini di buona volontà.
Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.

All’uscita di chiesa sentì un po’ freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l’odore d’arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l’uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d’arancio, perché l’anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.

Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un’asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.

Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.

In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d’avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l’arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.

Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolio della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.

Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.

Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?

Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto, la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.

Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov’era?

— Vieni avanti, e va su a vedere – gli disse l’uomo, indovinando il pensiero di lui.

Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.

E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.

— È il nostro primo fratellino – mormorò Lia. – Mio padre l’ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il “Gloria”. Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.

1 È una sopraveste di pelle d’agnello, nera, con la lana, che tiene molto caldo.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Laura Beltrame da Pixabay 

Milano: Un presepe con 60 personaggi dipinti su carta da Francesco Londonio

Fino al 6 febbraio 2022, il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano presenta uno dei capolavori d’arte sacra del XVIII secolo milanese: il Presepe del Gernetto,così chiamato dal luogo di provenienza, Villa del Gernetto a Lesmo in Brianza, composto da circa 60 personaggi, dipinti su carta o cartoncino sagomati alti dai 35 ai 60 cm.

La maggior parte di essi sono stati dipinti da Francesco Londonio (1723-1783), uno dei più importanti artisti lombardi del Settecento, specializzato proprio in presepi, in scene campestri e raffigurazioni di animali.

MILANO
DAL 25 NOVEMBRE 2021 AL 6 FEBBRAIO 2022
AL MUSEO DIOCESANO CARLO MARIA MARTINI

IL PRESEPE DI CARTA
DI FRANCESCO LONDONIO (1723-1783)

Il presepe di carta di Francesco Londonio

L’opera, entrata nelle collezioni del museo nel 2018, grazie alla donazione di Anna Maria Bagatti Valsecchi, proviene dalla collezione Cavazzi della Somaglia, ed è uno dei pochi presepi settecenteschi lombardi di questo tipo.

L’iniziativa, curata da Nadia Righi e Alessia Devitini, rispettivamente direttrice e conservatrice del Museo Diocesano di Milano, si tiene in occasione delle celebrazioni per il ventesimo anniversario di storia del Museo Diocesano di Milano.

Lo scenografico presepe era destinato, in origine, a essere allestito durante il periodo natalizio occupando un intero salone di Villa del Gernetto, acquistata nel 1772 dal Conte Giacomo Mellerio (1711-1782), presso la quale il Londonio era solito passare lunghi periodi di villeggiatura.

Nel corso dell’Ottocento, gli eredi Mellerio, quando fu chiara l’importanza e la rarità del complesso, fecero montare le sagome entro cornici ovali o rettangolari che furono usate come decoro stabile per i saloni della residenza brianzola.

Il Presepe del Gernetto, noto alla critica, è citato nella storiografia e in tutte le pubblicazioni dedicate a Francesco Londonio e al presepe in Lombardia.

La mostra è anche lo spunto per riflettere sulle origini del presepe e sulla sua storia e su una tradizione diventata così popolare e, in particolare, sui cosiddetti “presepi di carta”, che si diffondono a partire dal XVII secolo, con figure dipinte a tempera o a olio su carta, cartone e su tavole di legno, e più tardi anche stampate. Queste sagome, di per sé bidimensionali, una volta collocate nello spazio in un contesto realizzato ad hoc acquistavano una teatralità e una sorta di tridimensionalità, anche grazie alla presenza di un’ambientazione, di uno sfondo, di un sistema di quinte teatrali, divenendo di fatto un vero e proprio presepe. A Francesco Londonio spetta un ruolo d’indubbio primo piano tra i maggior artefici e promotori di questa tradizione in Italia. Più tardi la tipologia dei “presepi di carta” si diffonde anche a mezzo stampa raggiungendo una diffusione molto ampia.

Le scene principali del presepe sono state restaurate nell’ambito della XIX edizione del programma Restituzioni di Intesa Sanpaolo.

Altre figure sono state restaurate grazie alla generosità dell’Associazione Volontari del Museo Diocesano.

Accompagna la mostra un catalogo Silvana Editoriale.


IL PRESEPE DI CARTA DI FRANCESCO LONDONIO (1723-1783)
Milano, Museo Diocesano Carlo Maria Martini (p.zza Sant’Eustorgio, 3)
25 novembre 2021 – 6 febbraio 2022

Orari:
martedì- domenica, 10-18
Chiuso lunedì

Biglietti:
intero, € 8,00
Ridotto e gruppi, € 6,00
Scuole e oratori, € 4,00

Informazioni: T. +39 02 89420019; www.chiostrisanteustorgio.it

Ufficio stampa
CLP Relazioni Pubbliche | Anna Defrancesco | T. +39 02 36755700 | M. +39 349 6107625  anna.defrancesco@clp1968.it | www.clp1968.it

IMMAGINE DI APERTURA – Il presepe di carta di Francesco Londonio, Re magio

Bassano del Grappa (Vi) – La Ebe di Canova “restituita alla sua primitiva bellezza”

Ebe, simbolo dell’eterna giovinezza, coppiera degli Dei, è risorta dalle ceneri. O più correttamente dai frammenti che, all’indomani del bombardamento alleato su Bassano del 24 aprile 1945, venero raccolti come reliquie. Reliquie di un gesso tra i più belli e affascinanti tra quelli realizzati dal celebre scultore di Possagno.

04 Dicembre 2021 – 30 Maggio 2022
Bassano del Grappa (Vi), Museo Civico

EBE CANOVA

http://www.museibassano.it

Angelo Zaffonato (inc.), Richard Cosway (dis.), Ebe, acquaforte e maniera a granito. Bassano del Grappa, Museo Civico, Gabinetto disegni e stampe

Questi frammenti sono rimasti nei depositi dei Musei Civici per più di 70 anni, abbandonati all’oblio perché la loro ricomposizione è stata a lungo ritenuta impossibile. Poi, la messa a punto di nuove tecnologie applicate al restauro ha permesso alla mitica Ebe di Bassano del Grappa di ritrovare la sua forma e la sua grazia. A ridarle vita ha provveduto un innovativo intervento conservativo, interamente finanziato dal Rotary Bassano e dal Rotary Asolo Pedemontana del Grappa. All’impresa ha collaborato anche il Comune di Forlì, proprietario della versione marmorea di Ebe cui il gesso bassanese è collegato. Per celebrare l’evento, la Città di Bassano del Grappa, tramite i Musei Civici diretti da Barbara Guidi, ha deciso di proporre il capolavoro ritrovato quale protagonista di una mostra, molto puntuale, sulla rivisitazione canoviana della figura mitologica di Ebe cui lo scultore di Possagno ha saputo dare sembianze tanto perfette da rimanere indelebilmente impressa nell’immaginario collettivo.

Sfuggente ma al contempo intrigante, il mito di Ebe ha conosciuto, attraverso i secoli, un’alterna fortuna nella cultura occidentale. Citata da Omero e da Esiodo, a Ebe, figlia di Zeus e di Era, spettava il ruolo di enofora, l’ancella delle divinità. Il misterioso nettare che mesceva donava l’immortalità e l’eterna giovinezza. Dopo il matrimonio con Eracle, il suo ruolo di coppiera degli dèi fu assegnato a Ganimede. Profondo conoscitore del classico, nutrito della cultura antiquaria che nel Settecento rinveniva e classificava con dedizione i preziosi reperti antichi, Canova seppe condensare il mito di questa divinità adolescente in un’immagine emblematica, quella della gioventù colta all’apice della sua fiorente bellezza, in quel fugace momento di perfezione che anticipa l’età adulta. Ne realizzò due differenti versioni. La prima, in cui la giovane dea, che si appresta a mescere l’ambrosia, atterra su una spumosa nuvola; l’altra, colta mentre appoggia leggiadramente i piedi alla base di un tronco d’albero. Entrambe le versioni, trasposte in marmo, sono il vanto di quattro importanti collezioni pubbliche e private d’Europa: dagli Staatlichen Museen di Berlino all’Ermitage di San Pietroburgo, dalla Collezione Devonshire a Chatsworth ai Musei di San Domenico di Forlì.

Nel Salone Canoviano del Museo bassanese, la Ebe “restituita alla sua primitiva bellezza” sarà posta vis a vis con la prima versione in gesso del medesimo soggetto, patrimonio della padovana Collezione Papafava. I due capolavori saranno al centro di un percorso suggestivo che evocherà l’alterna fortuna del mito di Ebe nelle arti figurative.

Un mito che dalle rappresentazioni che animano i crateri della Magna Grecia e le pitture antiche, troverà nuova linfa nell’opera di alcuni importanti pittori del Rinascimento quali Parmigianino e Rosso Fiorentino le cui invenzioni furono sapientemente tradotte in raffinate incisioni; fino a giungere, alla fine del XVIII secolo, alla sorprendente invenzione canoviana, ispirata anche dai preziosi volumi illustrati della sua personale biblioteca che saranno esposti in mostra. Un’immagine, quella di Ebe, che accompagnerà tutta la carriera dello scultore e che trova eco tanto nel tema delle figure danzanti protagoniste dei disegni e dei monocromi su tela grezza, quanto nei ritratti delle più celebri donne del suo tempo acconciate alla moda (Leopoldina Esterhazy-Liechtenstein, Elisa Baciocchi Bonaparte e Carolina Murat), fino alle teste ideali, genere di successo in cui lo scultore veneto sperimenta sottili e infinite variazioni del “bello ideale”. Un capitolo è infine riservato all’illustrazione del complesso intervento di restauro che ha ridato dignità alla Ebe bassanese.

La mostra e la pubblicazione che l’accompagna – che, oltre alla collaborazione della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza, vede il contributo di autorevoli studiosi e dei curatori dei musei che conservano le molteplici versioni della popolare opera canoviana – intendono così celebrare la restituzione di questa importante testimonianza artistica alla pubblica fruizione.


EBE CANOVA
Museo Civico di Bassano del Grappa 4.12.2021 – 30.5.2022
Piazza Garibaldi 34 Bassano del Grappa (VI)
www.museibassano.it

Uffici stampa
Studio ESSECI – Sergio Campagnolo Roberta Barbaro
T. +39 049 663499
E. roberta@studioesseci.net

Chiara Padovan
Comune di Bassano del Grappa T. +39 0424 519373
E. ufficiostampa@comune.bassano.vi.it

Comunicazione Musei Civici
T. +39 0424 519919
E. museo@comune.bassano.vi.it

IMMAGINE DI APERTURA Antonio Canova, Ebe, 1817, gesso Bassano del Grappa, Museo Civico. Foto: © Slowphoto Studio

Su Sky Arte IL MIO NOME È LEGGENDA. Quarto episodio: Astrid Lindgren – Pippi Calzelunghe

presenta

IL MIO NOME È LEGGENDA

Quarto episodio: Astrid Lindgren – Pippi Calzelunghe
“Non voglio crescere“

In onda martedì 21 dicembre 2021 alle 21.15 su Sky Arte 
Disponibile anche in streaming su NOW

Quarto episodio: Astrid Lindgren – Pippi Calzelunghe

Tutti conosciamo Pippi Calzelunghe come una ragazzina bizzarra e divertente. Eppure, non molti sanno che Astrid Lindgren, la scrittrice che ideò questo celebre personaggio, trasse ispirazione proprio da sé stessa. Di questo parlerà il quarto episodio de Il mio nome è Leggenda, la nuova produzione originale Sky Arte con Matilda De Angelis ideata e realizzata da Bottega Finzioni. La puntata andrà in onda martedì 21 dicembre 2021 alle 21:15 su Sky Arte, e sarà disponibile anche on demand in streaming su NOW.

Astrid Lindgren vendette più di 165 milioni di libri che hanno come protagonista Pippi Calzelunghe: una bambina che vive da sola con una scimmietta e un cavallo. Ha le trecce rosse che stanno dritte in orizzontale, un viso coperto di lentiggini e un sacco pieno di monete d’oro. Non va a scuola e sua mamma, diventata un angelo, la controlla e protegge dal cielo. Il suo papà, invece, è un pirata buono sempre in giro per il mondo. Pippi divenne uno dei personaggi più famosi della letteratura per l’infanzia, anche grazie ad una serie televisiva di successo prodotta alla fine degli anni Sessanta.

All’origine di tutto ciò c’è la mente creativa di Astrid Lindgren, nata in Svezia nel 1907. La sua numerosa famiglia era modesta e molto religiosa. Trascorrevano le giornate coltivando la terra e giocando all’aria aperta, anche nelle fredde giornate d’inverno. Da qui riprenderà l’ambientazione per i suoi libri. Astrid è molto brava nelle materie letterarie e nella scrittura, e nonostante l’ambiente rigido e religioso vive con leggerezza.

A sedici anni entra nel giornale del paese, dove lavora come correttrice di bozze e può leggere qualche articolo. Qui si innamora del suo capo, un uomo sposato. A soli 18 anni rimane incinta: non è la prima ragazza madre dell’epoca, ma questo non la protegge dallo scandalo. Si trasferisce quindi a Stoccolma, dove frequenta una scuola per segretarie e decide di affidare suo figlio appena nato, Lasse, ad una famiglia danese, sperando di poterlo riprendere con sé quanto prima.

Ma la madre affidataria di Lasse si ammala gravemente. Astrid, sebbene sia sola e povera, decide di riprendere il figlio, riconquistando con fatica il suo amore.

Astrid affermò in seguito che senza il dolore per la separazione forzata dal figlio non sarebbe mai diventata l’autrice che conosciamo. Sposerà Sture Lindgren e nel 1934 darà alla luce una bambina, Karin. Proprio durante una malattia della figlia, Astrid inizierà a raccontarle favole. Nel 1941 darà vita a Pippi Calzelunghe: una ragazzina forte e coraggiosa, con un animo ribelle, che vive con un cavallo e una scimmietta e i suoi amici, Tommy e Annika.

Inizialmente gli editori temono che Pippi Calzelunghe avrebbe istigato i bambini alla ribellione, ma quattro anni dopo le prime storie vengono pubblicate. Da qui tutta una serie di successi, popolati da personaggi liberi e vitali in cui i bambini si rivedono. In un’intervista Astrid disse Ricodo bene com’è essere bambini, come un bambino senta e come reagisca”.

Il segreto di Astrid Lindgen sta nell’aver amato uno per uno i suoi lettori, aver donato loro un po’ di magia e di coraggio, diventando per loro un esempio. Femminista, sostenitrice del movimento operaio, in prima linea nella lotta per il riconoscimento dei diritti dei bambini, Lindgren è ancora oggi un’icona di modernità e libertà.

La quarta puntata de Il mio nome è Leggenda vedrà inoltre la partecipazione del mass-mediologo Roberto Grandi e dell’antropologo Davide Domenici.

Il mio nome è Leggenda è una produzione originale Sky Arte, ideata e realizzata da Bottega Finzioni. Un programma di Michele Cogo, Giuseppe Cassaro, Gianmarco Guazzo e Antonio Monti, scritto da Michele Cogo e dagli ex-allievi di Bottega Finzioni Gianmarco Guazzo, Alberta Lepri e Silvia Pelati, con la produzione esecutiva di Giuseppe Cassaro e la regia di Antonio Monti. Hanno partecipato in forma di partnership il Comune di Bologna e Bologna Welcome, mettendo a disposizione una delle location più suggestive della città: il Salone del Podestà a Palazzo Re Enzo.  

“Non voglio crescere“ – testi di Michele Cogo e Alberta Lepri.

Nota dell’autrice Alberta Lepri:

“Non voglio crescere”, la puntata dedicata alla storia personale di Astrid Lindgren, autrice di “Pippi Calzelunghe”, è un tuffo nella nostra infanzia. L’età d’oro dove potevamo diventare mille persone diverse, prima di diventarne una sola e rimpiangere quel tempo in cui non dovevamo scegliere.


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IMMAGINE DI APERTURA dal programma di Sky Arte con Matilda De Angelis

Pisa, Museo della Grafica – Incontro con Guido Strazza uno dei più grandi artisti contemporanei

Il Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi è lieto di invitarvi all’evento in diretta streaming:

PER GUIDO STRAZZA
Auguri a un Maestro

Martedì 21 dicembre ore 17:00

All’incontro con Guido Strazza, uno dei più grandi artisti contemporanei, nel giorno del suo compleanno, parteciperanno, Luca Arnaudo (Museo Civico di Cuneo), Carlo Birrozzi (Direttore dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione), Lara Conte (Università di Roma Tre), Daniele Ferrara (Direttore Regionale Musei Veneto), Luigi Ficacci, Micol Forti (Curatore Collezione Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani), Barbara Jatta (Direttore dei Musei Vaticani), Renata Cristina Mazzantini (curatrice Quirinale Contemporaneo), Gianfranco Notargiacomo, Claudia Palma (Direttrice degli Archivi della Galleria Nazionale d’Arte Moderna), Lucia Tongiorgi Tomasi (Accademia dei Lincei), Alessandro Tosi (Università di Pisa).

Sarà possibile partecipare all’evento collegandosi a:
YouTube Sistema Museale di Ateneo: 
https://www.youtube.com/watch?v=nDYE5nwPvT0

Pagina Facebook Museo della Grafica 

Pagina Facebook MediaEventi


Per ulteriori informazioni:
Sito web museodellagrafica

Museo della Grafica – Lungarno Galilei, 9 – Pisa
Tel. 050/2216060 (62-66-67)
E-mail: museodellagrafica@adm.unipi.it
www.museodellagrafica.sma.unipi.itì

IMMAGINE DI APERTURA – Invito

Biblioteca Regionale Universitaria di Messina – Omaggio alla Scrittrice e Educatrice Rosita Orifici Rabe

Nel rispetto di ogni misura anti-Covid, e, naturalmente previa esibizione di Green Pass, la Biblioteca Regionale Universitaria “Giacomo Longo” di Messina, mercoledì 21 dicembre, alle ore 17, sarà lieta di ospitare, presso il Salone Eventi, la presentazione, in prima assoluta, della silloge poetica “Il Tempo della Memoria” di Rosita Orifici Rabe.

Omaggio alla Scrittrice e Educatrice Rosita Orifici Rabe

Il Tempo della Memoria.
Canti alla Vita e altre Opere

Salone Eventi mercoledì 21 dicembre 2021 ore 17

L’iniziativa culturale si aprirà con i saluti istituzionali e l’introduzione della Direttrice della Biblioteca Regionale, Dott.ssa Tommasa Siragusa, alla quale seguiranno, secondo una prestabilita scaletta, i contributi di Mons.Cesare Di Pietro, Vescovo Ausiliare della Diocesi di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela; del Prof. Domenico Venuti, Presidente dell’Associazione Nazionale del Fante-Sede di Messina; del Prof. Giuseppe Rando, già Ordinario di Letteratura italiana UNIME. Interverrà l’Artista messinese Maria Lidia Simone, creatrice dell’opera pittorica “La Venere dell’Amore”, copertina di “Il Tempo della Memoria”. Sarà presente l’Autrice.

Nel rispetto di ogni misura anti-Covid, e, naturalmente previa esibizione di Green Pass, la Biblioteca Regionale Universitaria “Giacomo Longo” di Messina, mercoledì 21 dicembre, alle ore 17, sarà lieta di ospitare, presso il Salone Eventi, la presentazione, in prima assoluta, della silloge poetica “Il Tempo della Memoria” di Rosita Orifici Rabe.

Si ripercorreranno le tappe della Sua vita di Educatrice esemplare e quella di apprezzata Scrittrice pluripremiata.

Saranno rese, inoltre, letture tratte dall’ultima silloge poetica della Orifici Rabe, per spronare alla riflessione e al susseguente confronto gli intervenuti. Le premesse al testo, la prefazione e l’introduzione, sono ascritte a illustri relatori, rispettivamente a S.E. Don Biagio Amata, al Cav. Gianni Ianuale e al Dr. Carmine Iossa.

La poesia, come in generale la scrittura dell’Autrice, è Meraviglia, espressione artistica illuminata dall’Anima, filtro escatologico d’Amore, soave regno metafisico. Le Sue versificazioni poetiche costituiscono, dunque, sinfonia dello spirito, per contribuire all’elevazione dei lettori e guidarli lungo il camminamento ispirato a valori caratterizzati quali altamente cristiani, sempre a fianco dei sofferenti e degli ultimi della terra.

Rosita Orifici Rabe

Dolce,empatica,comunicativa,dall’animo capace di reagire alle ingiustizie con indomita serenità. Un cuore plasmato dalla Fede che batte d’Amore per tutto l’immeso universo di affetti familiari, amicali e comunque in grado di includere altre esistenze. L’Autrice sa riscrivere,mai scevra di intensa Luce interiore,gli accadimenti dolci-amari della Vita.

Nativa di Castroreale Terme (Messina), nel 1935, trascorre gli anni della fanciullezza e della giovinezza a Barcellona (Messina), fino al compimento del diciottesimo anno d’età che, nel 1953, la vede convolare a nozze con l’amato Teodoro e trasferirsi a Messina. Un legame profondo e saldo, immutato, se non accresciuto nel tempo, quello suggellato con il marito, compagno di vita con il quale ha già festeggiato le “Nozze di Pietra”. Alla figura amorevole di sposa e madre, dal 1965 associa, quale valore aggiunto, quella di educatrice, che abbraccia, non come semplice occupazione lavorativa, ma come vera missione da vivere con intensità e totale dedizione nei confronti dei piccolissimi alunni delle scuole materne, dapprima in provincia di Messina e poi in città. Intorno al 1990, intraprende il percorso da bibliotecaria presso l’Istituto scolastico peloritano “Enzo Drago”. Anche in questo contesto, emerge la sua sensibiltà di educatrice fino a portarla a farsi carico delle ferite dei giovanissimi e ad intervenire con decisione su tutte quelle negatività che li avrebbero portati con sicurezza alla devianza, aiutandoli a ricucire rapporti familiari e sociali.

La radicata mitezza ha permeato tutta la Sua carriera di Educatrice scolastica e Pedagoga, e il profondo desiderio del dono di sé l’ha spinta e la spingerà a essere “Scrittrice ad oltranza”. Ha all’attivo quattro libri:“Una maestra racconta”,“L’ABC della vita”,“Album di un’anima poeta”,“Il volto dell’anima” e un nutrito numero pubblicazioni in antologie, rassegne dei contemporanei e dispense poetiche. La Rabe è socia di importanti associazioni culturali italiane e ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi nazionali.

Post dell’evento sono presenti sulle pagine social della Biblioteca:
https://www.facebook.com/bibliotecaregionaledimessina/?ref=bookmarks https://www.instagram.com/bibliotecaregionalemessina/?hl=it

e nei giorni a seguire sarà disponibile il video.

Per INFO: Ufficio Relazioni con il Pubblico tel.090674564 urpbibliome@regione.sicilia.it

IMMAGINE DI APERTURA – Locandina

Ernst Kirchner – Riportare ordine nel caos circostante: questo è il mio compito

di Sergio Bertolami

32/1 – I protagonisti

Ernst Ludwig Kirchner (Aschaffenburg 1880 – Frauenkirch, presso Davos, 1938). È spesso considerato il rappresentante più tipico del gruppo Die Brücke, la personalità più interessante, il più dotato di talento e creatività. Senza dubbio è la guida spirituale del sodalizio artistico, il riferimento teorico, il principale organizzatore. Alla base del suo carattere è una irrequietezza esistenziale che lo porta a sperimentare nuove forme d’arte, esplorare percorsi alternativi. Tutto ciò è testimoniato dalla ricca produzione, che gli ha permesso di realizzare oltre mille tele e un numero maggiore fra disegni, acquerelli, incisioni, illustrazioni per libri e, in quanto architetto, anche decorazioni d’interni. Pur credendo in un lavoro di gruppo, normalmente preferiva dipingere in solitudine, alla ricerca di una libertà espressiva scissa da qualsiasi vincolo. A cominciare dai vincoli imposti dai critici, dai mercanti d’arte e dai collezionisti.

Ernst Kirchner, Autoritratto con pipa, 1905

Visse l’infanzia nella bassa Baviera, dov’era nato il 6 maggio del 1880. Fino a nove anni risiedette a Francoforte per poi trasferirsi a Perlen, presso Lucerna, dove il padre, Ernst Daniel Kirchner – professore di chimica ed esperto in tecnologie industriali – assunse la direzione di una cartiera. Per questo motivo il giovane Ernst fu sempre spinto dalla famiglia a disegnare e dipingere. Il padre venne chiamato a Chemnitz, per insegnare tecniche sulla fabbricazione delle carte, e qui a Chemnitz Kirchner proseguì gli studi e ottenne il diploma del Realgymnasium. Quindi, si recò a Dresda per frequentare i corsi universitari alla Technische Hoschüle, desideroso di assecondare il percorso delineato dal padre. Sin dall’inizio a Dresda alternò interessi non solo verso l’architettura, ma anche verso le tecniche d’incisione, come la xilografia e le stampe. Fonte di ispirazione era il bidimensionalismo giapponese. Inoltre, poteva ammirare le opere dei moderni, come quelle di Seurat, di Gauguin e ancor meglio di Van Gogh, col suo linearismo ondoso e vibrante. Nel 1905 Kirchner abbandona definitivamente l’idea di abbracciare la professione di architetto e il 7 giugno, solo tre settimane prima dell’esame di laurea, fonda l’associazione artistica denominata Die Brücke (Il Ponte). Nel 1906 utilizza lo studio del collega Heckel al numero 60 della Berliner Straße. Nello medesimo anno il gruppo allestisce la prima mostra ufficiale negli spazi espositivi della fabbrica di lampade di Seifert, nel quartiere Löbtau.

Ernst Kirchner, Danzatrice, 1911

Inizia un’attività di ricerca e di riflessione artistica. Nel 1908 visita varie mostre dove sono esposte opere Vincent van Gogh e dei Fauves. Durante l’estate si reca per la prima volta sull’isola di Fehmarn, nel mar Baltico. Nel gennaio del 1909 alla Galleria Paul Cassirer visita la prima personale di Matisse in Germania, a distanza di un mese, una mostra di Cézanne. Il Museo Etnografico di Dresda riapre i battenti a marzo del 1910 e Kirchner scrive agli amici Pechstein e Heckel: «Qui il museo etnografico è nuovamente aperto, anche se solo in piccola parte, ma è un godimento e ti si allargano i polmoni a vedere i famosi bronzi del Benin; alcuni oggetti dei pueblos messicani sono ancora esposti e anche sculture negre». Nelle sale osserva una trave dell’Isola di Palau e molti fra i reperti arrivati al museo, frutto di una spedizione tedesca intrapresa nei mari del Sud fra il 1908 e il 1910. «Una trave davvero meravigliosa… le cui raffigurazioni rivelano un linguaggio formale identico al mio». Questo primitivismo è, a tutti gli effetti, il terreno di fondazione per costruire un linguaggio personale, che possiamo vedere evolversi e definirsi nel tempo. Nel 1909, a corto di denaro, è costretto a trovare nuovi locali. L’avvocato e collezionista Gustav Schiefler descrive così il nuovo atelier dell’artista: «Le stanze erano decorate in modo fantastico con tessuti colorati che aveva realizzato usando la tecnica batik, con tutti i tipi di attrezzature esotiche e sculture in legno di sua mano. Un ambiente primitivo, nato per necessità, tuttavia fortemente segnato dal suo gusto. Qui ha condotto uno stile di vita disordinato, se paragonato agli standard borghesi, semplice in termini materiali, ma molto ambizioso nella sua sensibilità artistica. Lavorava febbrilmente, senza badare all’ora del giorno».

Ernst Kirchner, Persone che entrano in mare, 1912

Legato a questi concetti è anche uno dei temi più sentiti di questo periodo: i nudi femminili in rapporto con la natura. In contrapposizione con i nudi accademici, i suoi lavori rappresentano espressivamente il sovrapporsi di diverse forme di primitivismo, con preciso riferimento all’Urzustand, letteralmente lo “stato originale”, la condizione umana primaria, arcaica, iniziale. Persone che entrano in mare è un dipinto del 1912. Il fascino di queste escursioni era una fuga spensierata dalla ristretta mentalità cittadina. Kirchner e i suoi amici consideravano i laghi di Moritzburg come un’area nella quale i confini inibitori tra arte e vita svanivano lasciandoli liberi di esprimersi. «Liberati dalla folla urbana, gli uomini e le donne nei dipinti di Kirchner si divertono sotto gli alberi, nuotano nudi nel mare, giocano con archi e frecce o fanno l’amore all’aria aperta, sciolti dai vincoli e dai tabù della civiltà… Spogliati dei loro vestiti e dei loro ornamenti civilizzati, artisti e modelle erano tutt’uno con la natura e conducevano la vita dei moderni primitivi» (Jill Lloyd, German Expressionism: Primitivism and Modernity). Uno stile esistenziale che in Germania era definito Künstler Boheme ovvero vita da Boheme artistica, che sconvolgeva il consolidato concetto sociale di “moralità”, quando ipocritamente erano in molti a sapere che all’epoca numerosi nudisti frequentavano le rive del Moritzburger Teiche, un’area di boschi e bacini lacustri a nord di Dresda in Sassonia. Per Kirchner l’essere umano rappresentato nelle sue opere appare in tutta la sua neutralità, come un elemento della natura, come un nudo immerso nella vastità di un paesaggio in cui cresce come una pianta o un fiore.

Ernst Kirchner, Coppia di visitatori in studio con Dodo e Marzella, 1910

Tra le modelle si ricordano Marzella e Fränzi, che posano anche per Pechstein e Heckel. Un’altra modella è Dodo (la sua ragazza dell’epoca), visibile in opere tra il 1908 e il 1911. Marzella e Fränzi sono le figlie della vedova di un artista che viveva vicino a Kirchner. Sono spesso raffigurate, sia vestite che nude, all’interno dello studio ed anche associate a vari manufatti di ispirazione africana scolpiti dall’artista. In una rappresentazione vediamo un’elegante coppia borghese mentre prende del tè nello studio dell’artista, che in pochi tratti di penna fonde tre piani di immagini: nel primo piano spiccano i visitatori alla moda che conversano, al centro ci sono Marzella e Dodo nude e sullo sfondo si scorge il dipinto di Kirchner Danza del funambolo. Anche Fränzi compare in diverse opere, come Fränzi davanti a una sedia intagliata, dove il volto della ragazza è restituito da colori nient’affatto naturalistici, dietro a lei uno schienale in legno intagliato realizzato dall’artista. Sono composizioni pittoriche libere da pregiudizi che permettono a Kirchner e gli altri artisti della Brücke di conquistare presto un vago successo all’interno di una minuscola cerchia di collezionisti. Dopo una mostra a settembre del 1910 alla Galerie Arnold, una delle più importanti gallerie d’arte moderna di Dresda, ora potevano considerarsi realmente i nuovi esponenti dell’avanguardia tedesca.

Ernst Kirchner, Fränzi davanti a una sedia intagliata, 1910

Il linguaggio personale di Kirchner si evolverà, esplorando nuovi temi, dopo il 1911, quando si trasferisce a Berlino. La ragione principale di tale decisione è la ricerca di una affermazione definitiva della sua arte. Insieme alla sua nuova fiamma, Erna Schilling (1884-1945), dalla quale non si separerà più, Kirchner ricrea l’atmosfera del suo atelier di Dresda, addobbando il nuovo monolocale con arazzi primitivisti, pitture murali e sculture africanizzate da lui stesso scolpite. L’atelier di Berlino è anche concepito come spazio per una sua nuova impresa chiamata MUIM-Institut (che sta per Moderner Unterricht in Malerei, Insegnamento Moderno In Pittura), una scuola d’arte privata fondata col suo amico della Brücke Max Pechstein. L’idea riscuoterà talmente scarsi consensi da richiamare soltanto due studenti, peraltro amici intimi di Kirchner. Nel frattempo, le controversie e le divergenze di opinioni porteranno presto il gruppo della Brücke allo scioglimento. Nel 1913, infatti, il resoconto sull’attività dell’associazione, redatto da Kirchner, provoca lo scontento dei soci, che preferiscono mettere fine all’esperienza comune. Da ora in poi, l’artista affronterà una serie di traversie che lo formeranno nel profondo. I temi dell’uomo immerso nella natura, una volta che si trova a vivere l’atmosfera berlinese lasceranno spazio alle molte scene ambientate nelle strade della grande metropoli.

Ernst Kirchner, Scena di strada berlinese, 1913

Questo ambiente urbano, del tutto nuovo per lui, lo attrae, tanto quanto lo respinge. In dodici dipinti ad olio Kirchner rappresenta Scene di strada, dai forti contrasti coloristici, caratteristici della sua produzione berlinese. All’epoca, la città si presentava già come una metropoli sempre più in espansione. Un centro vivace anche sotto il profilo artistico e culturale. Il gruppo della Brücke fa il suo esordio con una collettiva alla galleria Gurlitt, ma, anche dopo l’epilogo delle attività comuni, Berlino continua ad esercitare forti attrazioni su Kirchner, proprio per la sua vita convulsa. Nel 1931 in Omnibus scriverà un articolo autobiografico Über Leben und Arbeit (Sulla vita e sul lavoro), affermando: «Le luci della città moderna e il movimento delle sue strade sono per me un continuo stimolo che sempre si rinnova». Ecco, dunque, che ai nudi gioiosi e spontanei, raffigurati sulle coste dei mari del Nord o dei laghetti di Moritzburg, subentra la calca cittadina, che restituisce all’autore un senso panico, opprimente e claustrofobico. Un dinamismo che ritrova, per certi versi, nelle due mostre alla galleria Sturm di Walden del 1912, dove può osservare da vicino le opere dei futuristi italiani (Boccioni, Carrà, Russolo, Severini) imperniate proprio sulla città moderna. Nel suo diario scriverà, ponendo come titolo Le mie immagini di strada: «sono nate fra il 1911 e il 1914, in uno dei periodi di maggiore solitudine della mia vita, quando un’inquietudine tormentosa di giorno e di notte continuamente mi faceva uscire di casa, nelle lunghe strade piene di gente e di vetture».

Ernst Kirchner, Cinque donne per strada, 1913

Naturalmente prende appunti, schizzi, che tramuta in disegni, pastelli, incisioni a stampa. Diventa un testimone, del tutto soggettivo, della frenesia urbana, identificata nei nomi dei viali principali o delle loro traverse. Cinque donne per strada, è il primo quadro della serie. Si vedono cinque donne elegantemente vestite, donne da marciapiede, pronte ad attrarre clienti: una scena notturna della capitale subito prima della guerra, nell’autunno del 1913. A sinistra dell’immagine è appena rappresentata una ruota d’automobile, simbolo della mobilità in tempi moderni. In Scena di strada berlinese, alle spalle dei personaggi in primo piano, raffigura, invece, un servizio tramviario: un omnibus trainato da due cavalli sul quale i viaggiatori stanno prendendo posto ed altri che si accalcano sul predellino per salirvi. Individui disinteressati gli uni degli altri. Sul piano frontale spiccano quattro figure: due signori di spalle (uno gira distrattamente il capo, mostrando la sigaretta che pende dalle labbra) e due eleganti signore. Fin troppo vistose. Indossano cappelli con piume e soprabiti lunghi fino alle caviglie: sono due cocotte, nome dai molteplici sinonimi che oggi potremmo trasporre con escort d’alto bordo. Il contrasto è netto in questa città moderna: da una parte l’atmosfera esagitata, caotica, vociante e sferragliante, dall’altra la solitudine e l’alienazione dei più, quell’incomunicabilità anche fra la moltitudine, che ritroveremo frequentemente espresse nelle opere di molti altri autori nel procedere del Novecento. Ma il contrasto si ripercuote anche nell’animo dell’artista che scriverà nel 1916: «Siamo come le cocotte che ho dipinto, travolte, destinate a scomparire. Tuttavia, cerco sempre di riportare equilibrio nei miei pensieri e di creare un’immagine del tempo, ponendo ordine nel caos circostante: questo è il mio compito». Si può comprendere chiaramente come i temi di Kirchner ruotino sempre intorno alle persone e nel compenetrarsi con esse mostra tutta la sua angoscia. In queste rappresentazioni la critica alla società del proprio tempo diventa estremamente esplicita.

Ernst Kirchner, Autoritratto da soldato, 1915

A Berlino Kirchner prende a frequentare gli ambienti letterari dell’avanguardia, come il Neue Club, un cabaret fondato da Kurt Hiller e Jakob van Hoddis nei cortili di Hackesche Höfe. Oppure, la cerchia degli intellettuali facenti capo alla Weltbühne, nata col nome di Die Schaubühne come rivista di puro teatro, che dal 1913 aveva cambiato nome per occuparsi di politica, arte e affari. Kirchner espone nella sua prima mostra personale, proprio a ridosso dello scoppio nel 1914 della Grande guerra. È richiamato alle armi, assegnato al 75° reggimento di artiglieria, ma il suo spirito libertario e irriducibile gli impedisce di attenersi alla disciplina militare. Più che come un dramma collettivo, vive il conflitto come un dramma personale: «enormi compiti ci aspettano; personalmente non potrò parteciparvi molto; sopporto tutto, meno questa sistematica distruzione che ora è di moda e della quale diventerò probabilmente vittima, sia che lo voglia o no». Ben presto è congedato per inidoneità al servizio militare. L’esperienza bellica sconvolge intensamente Kirchner, che a dicembre del 1915 è ricoverato nel sanatorio di Königstein, dove i medici lo reputano inguaribile. Il crollo fisico e mentale lo spinge verso la droga, dalla quale si libererà con fatica. A poco a poco, riesce a recuperare la fantasia creativa.

Ernst kirchner, Ritratto di Erna Schilling, 1913

Gli sta accanto Erna Schilling, compagna della sua vita. Erna si occupa anche degli affari dell’artista, supplendo agli alti e bassi del suo esaurimento nervoso e badando al patrimonio finanziario ora in crescita, grazie alla vendita dei quadri. Dal 1923 la coppia si trasferisce nella “Wildbodenhaus” a Davos Frauenkirch (in Svizzera). Le montagne e la vita semplice dei pastori lo rincuorano. Ritrova lo spirito di gioventù. Scrive nel suo diario: «La nostra nuova casetta è una vera gioia per noi. Vivremo qui comodamente e in un grande nuovo ordine. Questo sarà davvero un punto di svolta nella mia vita. Tutto deve essere accomodato e la casetta arredata nel modo più semplice e sobrio possibile, pur restando bella e intima».

Locandina dell’esposizione sull'”Arte degenerata” (Entartete Kunst), Berlino, 1938

Nel 1926 rientra per la prima volta in Germania. Riceve l’incarico per un grande dipinto murale nel Museum Folkwang di Essen. L’artista elabora numerosi schizzi e studi, ma nel 1933, per via dei contrasti con la direzione e la situazione politica tedesca, il progetto di decorazione viene abbandonato. Due anni prima era stato nominato membro dell’Accademia Prussiana delle Arti di Berlino. Quando, però, i nazionalsocialisti prendono il potere in Germania, per l’artista diviene impossibile vendere i suoi quadri. Kirchner rimane inizialmente membro dell’Accademia, ma la sua arte risulta invisa al potere e nel luglio 1937 è infine destituito. Centinaia di opere sue vengono sequestrate e rimosse dai musei: sono ben 639, delle quali 25 dirottate a Monaco di Baviera, per essere esposte in una mostra diffamatoria di “Arte degenerata”, organizzata per propaganda dal partito nazionalsocialista, che dal 1933 al 1945 è l’unico partito ammesso in Germania. L’esposizione, voluta da Hitler, è inaugurata nel luglio 1937 e rimane aperta fino al mese di novembre dello stesso anno. Le difficili condizioni economiche, aggravate dalla malattia, che lo costringe a letto per lunghi mesi, acuiscono i problemi.

Ernst Kirchner, Gregge di pecore, 1938

Dal 1932 è nuovamente dipendente dalla morfina e in una lettera all’amico Erwin Friedrich Baumann, architetto e scultore, gli descrive il pericolo della droga. Ricaduto nei propri drammi psicologici, come ai tempi della guerra, Kirchner vede un’unica soluzione plausibile, per affermare il proprio ideale di artista libero. Muore suicida a Davos il 5 giugno 1938, con un colpo al cuore. La sua pistola viene trovata a un metro di distanza dal corpo. Tuttavia, il colpo è così preciso da destare sospetti. Secondo il referto medico ufficiale «Il cuore è stato centrato così bene che la morte è risultata immediata»; ma l’esperto di armi Andreas Hartl, afferma per contro che tutto ciò era assai difficile, con il modello FN Browning 1910, a causa del dispositivo di sicurezza sull’impugnatura dell’arma. Per certo sappiamo che al momento del suicidio, secondo la sua compagna, sul cavalletto c’era il dipinto Schafherde (Gregge di pecore, 1938). «La sua casa sul Wildboden è difficilmente riconoscibile: nessuna porta, nessun fiore, nessuna visione chiara, finestre di studio cieche. Un grande gregge di pecore, intorno alla casa, blocca la via d’uscita, la via della libertà» (Albert Schretzenmayr).

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Kirchner, Bleyl, Heckel, Schmidt-Rottluff: i magnifici quattro dell’Espressionismo tedesco

di Sergio Bertolami

32 – I protagonisti

Il primo decennio del Novecento vede il manifestarsi delle “avanguardie”, gruppi di artisti o singole individualità, che operano in rottura drastica con la tradizione, fanno circolare manifesti e diffondono programmi, accompagnati da pubbliche manifestazioni considerate dal perbenismo comune come provocatorie. Nelle arti figurative, tra le avanguardie artistiche stiamo considerando l’Espressionismo, con le più importanti esperienze esercitate da Die Brücke e Der Blaue Reiter. Nelle pagine a seguire si potranno leggere almeno i tratti essenziali del Fauvismo e Cubismo. Ci accorgeremo come progressivamente queste correnti saranno sempre più accomunate da una forte tendenza non figurativa, tanto da convergere nell’astrattismo, distinguendo, così, De Stijl, Costruttivismo, Futurismo, Raggismo, Dadaismo, Surrealismo. La letteratura in proposito è notevole e variegata, per questo è consigliabile leggerla direttamente, anziché accontentarsi delle sintesi approssimative che si trovano dappertutto. Il fil rouge, che qui seguiremo, cercherà di essere utile come indirizzo agli approfondimenti.
 
Al momento, rimaniamo concentrati sull’Espressionismo, che, come si è visto, si sviluppa a partire dal 1905, e continuiamo a descrivere gli ambiti della cultura artistica tedesca. In pittura i precursori possono farsi risalire a Ensor o Munch, che fra i primi hanno rappresentato il mondo reale direttamente attraverso il filtro della propria personalità. Caratteristica principale è che gli espressionisti tedeschi manifestano una visione del mondo quasi sempre tormentata, tragica e desolante. Tra i maggiori rappresentanti ho citato, finora, solo quelli appartenenti al gruppo della Brücke, che a partire dal 1913 decidono di sciogliersi e continuare a esprimere in modo autonomo le proprie esperienze. Nelle note seguenti, comincerò col parlare dei quattro studenti di architettura, che dettero vita a Dresda nel 1905 proprio al sodalizio della Brücke: Ernst Kirchner (1880-1938), Fritz Bleyl (1880-1966), Erich Heckel (1883-1970), Karl Schmidt-Rottluff (1884-1976). L’idea, infatti, è realizzare delle schede individuali, attraverso le quali descrivere i tratti salienti delle singole personalità e inserire almeno le loro opere più significative. Questa scelta permetterà di seguire negli articoli lo svolgersi delle tematiche artistiche, che per loro natura si intrecciano e si evolvono, mentre le schede dei protagonisti permetteranno di soffermarci su particolarità e dettagli.






IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

#ENELINCIRCOLO – A Bologna l’iniziativa che promuove l’economia circolare in chiave sostenibile

Per il periodo natalizio Cronopios, con il sostegno di Enel Energia e la collaborazione del Comune di Bologna, porterà nella città di Bologna l’innovativo progetto di economia circolare: oggetti in disuso saranno trasformati in opere d’arte.

Dal 20 dicembre al 9 gennaio allestiti all’interno degli Spazi Enel della città centri di raccolta, dove sarà possibile partecipare all’iniziativa consegnando i propri oggetti in disuso. Nel centro città un percorso espositivo delle opere dell’artista Dario Tironi realizzate con oggetti di scarto raccolti nelle precedenti tappe dell’iniziativa

A Bologna l’iniziativa che promuove l’economia circolare in chiave sostenibile

Si chiama #ENELINCIRCOLO ed è il nuovo ed innovativo progetto di economia circolare che Enel Energia dedica, durante il periodo delle feste natalizie, alla città di Bologna.

L’iniziativa, promossa da Cronopios con il sostegno di Enel Energia e la collaborazione del Comune di Bologna e ispirata ai principi della sostenibilità e del riciclo, prevede la possibilità di portare oggetti in disuso presso i sei negozi Spazi Enel della città emiliana personalizzati per l’occasione. All’interno degli store sono stati infatti posizionati dei mini silos dove i cittadini bolognesi potranno lasciare oggetti “inutili” che non usano più: soprammobili, giocattoli, dispositivi elettronici e molto altro, saranno ritirati dal personale dei negozi per poi tornare a nuova vita, trasformandosi in vere e proprie opere d’arte per aiutare a riflettere sulle tematiche ambientali ponendo l’accento, oltre che sul recupero del materiale quale fonte di energia, anche sulla circolarità dell’energia umana.

Dopo la raccolta è prevista, infatti, la fase creativa: i materiali di scarto saranno affidati alle mani e all’estro dell’artista Dario Tironi che li utilizzerà per realizzare vere e proprie opere d’arte. 

I cittadini di Bologna potranno conoscere da vicino la bontà del progetto attraverso un vero e proprio percorso espositivo, a cielo aperto, scandito dalle opere di Dario Tironi, realizzate con gli oggetti di scarto raccolti nelle precedenti tappe dell’iniziativa. Le opere esposte nel Cortile Guido Fanti di Palazzo d’Accursio, a Corte Isolani, nella Galleria Cavour e nello Spazio Enel di Piazza Liber Paradisus, saranno accompagnate da un totem illustrativo e da un sopporto didascalico, che inviterà i cittadini a recarsi presso gli Spazi Enel per partecipare attivamente al progetto che, dal 20 dicembre al 9 gennaio, coinvolgerà il capoluogo emiliano. Per i possessori della Card Cultura che si recheranno presso gli Spazi Enel per portare un oggetto, inoltre, sarà omaggiato il catalogo dell’iniziativa (fino ad esaurimento scorte). 

“#Enelincircolo – commenta Lucia Cortini, Responsabile Mercato Enel Emilia Romagna Marche – è un progetto unico ed innovativo nel suo genere in cui crediamo fortemente. Si tratta di un’iniziativa dedicata al riciclo e pensata per promuovere l’economia circolare, un modello virtuoso e concreto che, oltre ad avere effetti sulla tutela dell’ambiente, produce vantaggi in termini di competitività, innovazione e occupazione. Gli stessi principi che ispirano e caratterizzano il nostro lavoro quotidiano”.

Gli Spazi Enel Partner in cui è possibile aderire all’iniziativa, nel totale rispetto delle misure di sicurezza, sono quelli di via Massarenti 458 B, via E. Ponente 86E, via M. D’Azeglio 96B, via A. Costa 31 A, via San Donato 21 e p.zza Liber Paradisus 16. Ulteriori dettagli su enel.it.


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