Roma, Palazzo Bonaparte – Apre la mostra “JAGO. The exhibition”

Dal 12 marzo, Palazzo Bonaparte a Roma ospita la prima grande mostra di JAGO. Jago scolpisce come Michelangelo ed è una rockstar. Amatissimo dal grande pubblico, mito per i giovani e fenomeno social, è l’emblema dell’artista contemporaneo, che unisce talento creativo e capacità comunicative.

Arthemisia propone la sua prima mostra, in contemporanea a quella dedicata all’icona della video-arte, BILL VIOLA. E propone anche il primo esperimento di studio d’artista durante l’esposizione: Jago lavorerà a una nuova opera all’interno delle sale di Palazzo Bonaparte, rendendo partecipe il pubblico della sua creazione.

Una primavera ricca di energia, dedicata all’arte contemporanea, a Palazzo Bonaparte.

JAGO
The exhibition

12 marzo – 3 luglio 2022 Palazzo Bonaparte, Roma

Jago
Habemus hominem, 2009 / 2016 1
Marmo, 60x35x69 cm
Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi (NA)
Photo by Francesco Bertola

Palazzo Bonaparte a Roma ospiterà dal 12 marzo al 3 luglio 2022 la prima grande mostra dedicata a Jago. Jago, pseudonimo di Jacopo Cardillo, nato a Frosinone nel 1987, scultore raffinato dalle reminiscenze michelangiolesche, è conosciuto in tutto il mondo come “The Social Artist” per le sue innate capacità comunicative e il grande successo che riscuote sui social.

Jago unisce un grande talento creativo all’utilizzo dei mezzi di comunicazione più contemporanei. E come tutti i grandi artisti, arriva al cuore del pubblico che lo ama, anzi lo adora. È una rockstar, e trasmette l’amore per l’arte ai giovani.

Le dirette streaming e le documentazioni foto e video raccontano il processo produttivo di ogni sua singola opera, e, mediante questo percorso condiviso, lo scultore rende tutti partecipi della genesi di ogni suo lavoro.

La genialità moderna di Jago viene raccontata per la prima volta in una mostra in cui sono esposte tutte le opere realizzate sino ad oggi, dai piccoli sassi di fiume scolpiti (da Memoria di Sé a Excalibur), fino alle sculture monumentali di più recente realizzazione (la Pietà), passando per le opere più mediatiche quali il Papa (Habemus Hominem).

Curata dalla Professoressa Maria Teresa Benedetti, la mostra vedrà esposte 12 opere di Jago, a connotare gli elementi chiave di un’opera dedicata a istituire un rapporto tra il nostro tempo e la tradizione.

Prima testimonianza è lo scavo sui grandi sassi raccolti nel greto di un fiume alle pendici delle Alpi Apuane, pazientemente scavati nel desiderio di raccontare una storia personale e umana. Pietà e violenza si intrecciano nello sguardo del giovane artista. Sorprendente è la scardinante nudità del Pontefice emerito, mentre l’immagine di una Venere (2018), priva della venustà giovanile, sconcerta e induce a riflettere. D’altro lato incalza l’oggi con la presenza del Figlio Velato (2019), icona simbolica di tragedie senza tempo, cui si connette l’intensa meditazione sul dolore, racchiusa nella drammatica monumentalità della Pietà (2021). Nel contempo l’artista propone un tema svincolato dalla storia, nel replicare la sequenza del battito cardiaco in Apparato Circolatorio (2017).

Palazzo Bonaparte si trasformerà inoltre in uno studio d’artista: durante i mesi di mostra, infatti, Jago lavorerà alla sua prossima imponente scultura all’interno della sede espositiva, rendendo partecipi i visitatori del processo creativo della sua opera.

La mostra JAGO. The Exhibition è prodotta e organizzata da Arthemisia e da Jago Studio.

L’ARTISTA

JAGO è un artista italiano che opera nel campo della scultura, grafica e produzione video.
Nasce a Frosinone (Italia) nel 1987, dove ha frequentato il liceo artistico e poi il Accademia di Belle Arti (lasciata nel 2010).

Dal 2016, anno della sua prima mostra personale nella capitale italiana, ha vissuto e lavorato in Italia, Cina e America. È stato professore ospite al New York Academy of Art, dove ha tenuto una masterclass e diverse lezioni nel 2018. JAGO ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali quali: la Medaglia Pontificia (consegnatagli dal cardinale Ravasi in occasione del premio delle Pontificie Accademie nel 2010), il premio Gala de l’Art di Monte Carlo nel 2013, il premio Pio Catel nel 2015, il Premio del pubblico Arte Fiera nel 2017 e ha inoltre ricevuto l’investitura come Mastro della Pietra al MarmoMacc del 2017.

All’età di 24 anni, su presentazione della storica dell’arte Maria Teresa Benedetti, è stato selezionato dal prof. Vittorio Sgarbi per partecipare alla 54a edizione della Biennale di Venezia, esponendo il busto in marmo di Papa Benedetto XVI (2009) che gli è valso la suddetta Medaglia Pontificia. Questa scultura giovanile è stata poi rielaborata nel 2016, prendendo il nome di “Habemus Hominem” e divenendo una

delle sue opere più significative. L’opera, che raffigura la spoliazione del Papa emerito da suoi paramenti, è stata esposta a Roma, nel 2018, presso il Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese, con un numero record di visitatori (più di 3.500 durante la sola inaugurazione).
A seguito di un’esposizione all’Armory Show di Manhattan, JAGO si trasferisce a New York. Qui inizia la

realizzazione del “Figlio Velato”, opera ispirata al Cristo Velato del Sanmartino, esposta permanentemente all’interno della Cappella dei Bianchi nella Chiesa di San Severo fuori le mura. La ricerca artistica di JAGO occupa una complessa cornice concettuale che, tuttavia, fonda le sue radici nelle tecniche ereditate dai maestri del Rinascimento, tentando di instaurare un rapporto diretto con il pubblico mediante l’utilizzo dei video e dei social network, attraverso i quali condivide il processo produttivo delle sue opere.

Nel 2019, in occasione della missione Beyond dell’ESA (European Space Agency), JAGO è stato il primo artista ad aver inviato una scultura in marmo sulla Stazione Spaziale Internazionale. L’opera, intitolata

“The First Baby” e raffigurante il feto di un bambino, è tornata sulla terra a febbraio 2020 sotto la custodia del capo missione, Luca Parmitano. Da maggio 2020 Jago risiede a Napoli, dove lavora nel suo studio nella Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi e dove, a inizio novembre, ha realizzato l’installazione “Look Down” in Piazza del Plebiscito, mentre il 1 ottobre 2021, installa l’opera “Pietà” nella Basilica di Santa Maria in Montesanto, in Piazza del Popolo a Roma.


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Brescia, Palazzo Martinengo – DONNE NELL’ARTE. Da Tiziano a Boldini

L’esposizione presenta oltre 90 capolavori, che testimoniano come la raffigurazione della donna abbia rivestito un ruolo di primo piano nella storia dell’arte italiana, dagli albori del Rinascimento alla Belle Époque.

BRESCIA
DAL 22 GENNAIO AL 12 GIUGNO 2022

A PALAZZO MARTINENGO

DONNE NELL’ARTE
Da Tiziano a Boldini

Gaetano Bellei, Colpo di vento. Collezione privata

Dame eleganti, madri affettuose, eroine mitologiche, seducenti modelle e instancabili popolane tornano ad abitare le sale di Palazzo Martinengo a Brescia, dal 22 gennaio al 12 giugno 2022.

La mostra DONNE NELL’ARTE. Da Tiziano a Boldini, che documenta quanto la rappresentazione dell’universo femminile abbia giocato un ruolo determinante nella storia dell’arte italiana lungo un periodo di quattro secoli, dagli albori del Rinascimento al Barocco, fino alla Belle Époque, riprende il proprio cammino, dopo lo stop imposto dalla diffusione della pandemia.

“Dopo un primo rinvio – afferma Roberta Bellino, presidente dell’Associazione Amici di Palazzo Martinengo – abbiamo deciso di comune accordo con la Fondazione Provincia di Brescia Eventi e la Provincia di Brescia di chiudere la rassegna, con la promessa di ritrovarci quando la situazione si sarebbe prospettata più tranquilla da un punto di vista sanitario. Eccoci quindi a riproporre un’iniziativa che, in poco più di un mese di apertura, stava riscuotendo un ottimo riscontro di pubblico, con oltre 22.000 visitatori”.

“Tutte le persone – prosegue Roberta Bellino – che avevano acquistato il biglietto d’ingresso in prevendita, potranno utilizzare il tagliando, semplicemente presentandolo alla biglietteria di Palazzo Martinengo”.

DONNE NELL’ARTE. Da Tiziano a Boldini, curata da Davide Dotti, organizzata dall’Associazione Amici di Palazzo Martinengo, col patrocinio della Provincia di Brescia, del Comune di Brescia e della Fondazione Provincia di Brescia Eventi, in partnership con Fondazione Marcegaglia onlus, presenta oltre 90 capolavori di artisti quali Tiziano, Guercino, Pitocchetto, Appiani, Hayez, Corcos, Zandomeneghi e Boldini che, con le loro opere, hanno saputo rappresentare la personalità, la raffinatezza, il carattere, la sensualità e le più sottili sfumature dell’emisfero femminile, ponendo particolare attenzione alla moda, alle acconciature e agli accessori tipici di ogni epoca e contesto geografico.

Grazie alla collaborazione con la Fondazione Marcegaglia Onlus, è possibile approfondire tramite appositi pannelli di sala alcune tematiche di grande attualità sociale e mediatica quali le disparità tra uomini e donne, il lavoro femminile, le violenze domestiche, l’emarginazione sociale e le nuove povertà. Le opere d’arte diverranno quindi formidabili veicoli per sensibilizzare il pubblico – soprattutto quello più giovane – verso argomenti di grande importanza socio-culturale.

Il percorso espositivo è suddiviso in otto sezioni tematiche – Sante ed eroine bibliche; Mitologia in rosa e storia antica; Ritratti di donne; Natura morta al femminile; Maternità; Lavoro; Vita quotidiana; Nudo e sensualità.

“Il tema della donna – afferma il curatore Davide Dotti – è così affascinante e coinvolgente che gli artisti, soprattutto tra XVI e XIX secolo, lo hanno indagato da ogni prospettiva iconografica, eternando le “divine creature” in capolavori che tutt’oggi seducono fatalmente il nostro sguardo. Per il visitatore è l’occasione di compiere un emozionante viaggio ricco di sorprese, impreziosito da dipinti inediti scoperti di recente in prestigiose collezioni private, opere mai esposte prima d’ora, e incontri ravvicinati con celebri donne del passato, tra cui la bresciana Francesca (Fanny) Lechi, ritratta nel 1803 dal grande Andrea Appiani in una straordinaria tela che dopo oltre venticinque anni dall’ultima apparizione torna visibile al pubblico”.

Tra i capolavori della mostra, si segnala la Maddalena penitente, un olio su tela di Tiziano, firmato per esteso, proveniente da una collezione privata tedesca, esposto per la prima volta in Italia. A proposito di questo dipinto, Peter Humfrey, una delle massime autorità a livello internazionale di Tiziano e autore del catalogo ragionato delle opere del maestro cadorino, ha scritto che “si tratta di una variante di alta qualità di una delle composizioni più avidamente ricercate di Tiziano. Le altre redazioni autografe sono state dipinte non solo per i suoi più importanti committenti – come il re Filippo II di Spagna – ma anche per altri illustri personaggi del suo tempo, quali Antoine Perrenot de Granvelle – consigliere dell’imperatore Carlo V d’Asburgo nonché viceré del regno di Napoli – e il potente cardinale Alessandro Farnese. Le vigorose pennellate frante e il denso impasto cromatico, suggeriscono una datazione al 1558-1563 circa, in prossimità della realizzazione della versione della Maddalena penitente dipinta per Filippo II nel 1561.

A questa, si aggiunge Coppia di amanti in piedi, un disegno di Gustav Klimt (1862-1918), principale esponente dell’avanguardia viennese, che anticipa le soluzioni stilistiche de Il bacio e de L’Abbraccio del Fregio Stoclet, due tra i capolavori più conosciuti del maestro austriaco.

Traendo ispirazione da testi sacri e libri agiografici, gli artisti hanno licenziato tele oggetto di secolare devozione che raffigurano le più famose sante della cristianità insieme al proprio attributo iconografico: Maddalena col vasetto di unguenti; Caterina con la ruota dentata; Barbara con la torre; Margherita con il drago; Cecilia con gli strumenti musicali. Senza dimenticare le eroine bibliche quali Giuditta, Salomè, Dalila, Susanna e Betsabea, le cui tormentate vicende personali sono narrate nell’Antico Testamento.

Anche la letteratura classica e la mitologia hanno fornito agli artisti infiniti spunti di riflessione, come nel caso delle storie che riguardano divinità (Diana, Venere, Minerva, Giunone), celebri figure mitologiche (Leda, Europa, Onfale, Circe, Dafne) e illustri donne del mondo antico che, con coraggio e drammatica determinazione, hanno preferito la morte al disonore. Si pensi, a tal proposito, alla regina d’Egitto Cleopatra, che decise di togliersi la vita, dopo il suicidio dell’amato Antonio, per non consegnarsi viva nelle mani dell’acerrimo nemico Ottaviano e subire la pubblica umiliazione; a Lucrezia, che si trafisse il petto con il pugnale dopo essere stata avvilita e violentata da Sesto Tarquino; e a Sofonisba, che bevve il veleno inviatogli dal marito Messinissa per non vivere un’esistenza mortificata come schiava dei romani.

Soprattutto nell’ambito della pittura dell’Ottocento, vera protagonista della rassegna, la donna è stata colta nella sua dimensione quotidiana, alle prese con le faccende della vita domestica e del lavoro; nei panni di madre affettuosa che accudisce con amore i propri figli; ma anche in atteggiamenti maliziosi e in situazioni intime per esaltarne la carica sensuale, come testimoniano gli straordinari capolavori di Giovanni Boldini, il più grande artista italiano della Belle Époque.

Giovanni Boldini, Calze nere. Collezione privata

La Fondazione Marcegaglia Onlus, la cui missione è sostenere le donne, motore della crescita e dello sviluppo dell’intera comunità, attraverso progetti di solidarietà e cooperazione, offre alle scuole, 200 percorsi tematici di visita alla mostra, con l’obiettivo di avvicinare sempre più i giovani al mondo dell’arte e, al contempo, sensibilizzarli rispetto a tematiche di grandissima importanza sociale legate all’emisfero femminile.

L’Associazione Amici di Palazzo Martinengo devolverà l’1% del ricavato della biglietteria a Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro con l’obiettivo di sostenere la migliore ricerca per la prevenzione, la diagnosi e la cura dei tumori femminili.

In occasione della mostra di Palazzo Martinengo, dal 12 febbraio al 12 giugno 2022, il Museo Diocesano di Brescia organizza una piccola esposizione, a cura di Davide Dotti, per approfondire la tematica della raffigurazione femminile nella pittura a soggetto sacro. Con il biglietto di “Donne nell’Arte da Tiziano a Boldini”, si potrà visitare gratuitamente il museo e la rassegna allestita negli spazi dell’ex convento di San Giuseppe.

L’esposizione è il sesto appuntamento espositivo dell’Associazione Amici di Palazzo Martinengo che fa seguito ai successi di pubblico e di critica ottenuti con le rassegne Il Cibo nell’Arte dal Seicento a Warhol (2015), Lo Splendore di Venezia. Canaletto, Bellotto, Guardi e i vedutisti dell’Ottocento (2016), Da Hayez a Boldini. Anime e volti della pittura italiana dell’Ottocento (2017) e Picasso, De Chirico, Morandi. Cento capolavori dalle collezioni private bresciane (2018), Gli animali nell’arte dal Rinascimento a Ceruti (2019), visitate da oltre 250.000 persone.

Catalogo Silvana Editoriale.


DONNE NELL’ARTE. Da Tiziano a Boldini
Brescia, Palazzo Martinengo (via dei Musei 30)
22 gennaio – 12 giugno 2022

Orari:
mercoledì, giovedì e venerdì, dalle 9:00 alle 17:00
sabato, domenica e festivi, dalle 10:00 alle 20:00
lunedì e martedì chiuso
La biglietteria chiude un’ora prima

Aperture straordinarie:
Pasqua (17 Aprile), Pasquetta (18 Aprile), 25-26 Aprile, 1 Maggio, 2 Giugno 

Biglietti (audioguida compresa):
intero, €12,00
ridotto, €10,00 (gruppi superiori alle 15 unità, minori di 18 e maggiori di 65 anni, studenti universitari con tesserino, soci Touring Club con tessera, soci FAI con tessera, insegnanti, possessori di carta di credito e bancomat Banco BPM)
ridotto scuole, €6,00
gratuito, minori di 6 anni, disabili con un accompagnatore, giornalisti con tesserino, guide turistiche, due insegnanti per scolaresca, un accompagnatore per gruppo di adulti

Informazioni: tel. 392-7697003; mostre@amicimartinengo.it

Visite guidate gruppi:
€80,00 per gruppi di adulti; €40,00 per le scuole
La prenotazione è obbligatoria per tutte le tipologie di visita guidata
prenotazioni scuole: tel. 392-7697003; prenotazioniscuole@gmail.com
prenotazioni gruppi: tel. 392-7697003; gruppi@amicimartinengo.it

Sito internet:
www.donnenellarte.it

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Clara Cervia | tel. 02.36755700 | clara.cervia@clp1968.it | www.clp1968.it

Roma, Palazzo Bonaparte – BILL VIOLA. Icons of light

Riparte la grande stagione espositiva di Palazzo Bonaparte a Roma con una retrospettiva del più grande video-artista contemporaneo: BILL VIOLA. Dal 5 marzo al 26 giugno 2022 le installazioni più iconiche e suggestive dell’artista statunitense saranno in mostra al piano nobile del Palazzo, che ospiterà in contemporanea al secondo piano la prima grande mostra di JAGO. Arthemisia dedica la primavera romana a due miti dell’arte contemporanea, per una ripartenza piena di energia.

BILL VIOLA.
Icons of light

5 marzo – 26 giugno 2022
Palazzo Bonaparte, Roma

Bill Viola
Martyrs series – Water Martyr, 2014
Color high-definition video on flat panel display mounted vertically on wall
107,6×62,1×6,8 cm 7:10 minutes
Executive producer: Kira Perov Performer: John Hay
Photo by Kira Perov © Bill Viola

BILL VIOLA. Icons of light è il titolo della prossima mostra di Palazzo Bonaparte che, a partire dal 5 marzo 2022, renderà omaggio al più grande artista della video-arte dagli anni 70 a oggi: BILL VIOLA.
Nei raffinati saloni che furono dimora di Madama Letizia Ramolino Bonaparte, madre di Napoleone, i visitatori saranno avvolti dalla magia delle opere di Viola, ipnotizzati dalle immagini di capolavori quali Ascension (2000) e i celeberrimi Water Portraits (2015).
Il progetto espositivo, a cura di Kira Perov, che prevede l’esposizione di 10 lavori di Bill Viola, rappresenta un momento di riflessione sull’iperbole concettuale dell’artista statunitense che, da oltre 40 anni, realizza lavori che si rivolgono costantemente alla dicotomia vita/morte e legati indissolubilmente dai contrasti tra oriente e occidente. I lavori presenti in mostra rappresentano una sintesi emblematica del lavoro di Viola, uno spazio temporale che ritrae quindi anche lo sviluppo storico della stessa video-arte: attraverso le più conosciute videoinstallazioni e videoproiezioni, la retrospettiva narra quelli che possono essere definiti i viaggi più intimi e spirituali dell’artista attraverso il mezzo elettronico.
Una mostra concepita come un percorso emozionale nel quale il pubblico potrà accedere a spazi dall’atmosfera ovattata che ricordano luoghi di profonda intimità, quasi dei sacrari della propria memoria, un visionario spazio di culto dove il visitatore è invitato a stabilire una profonda connessione visiva e spirituale con l’opera d’arte.

La mostra BILL VIOLA. Icons of light è prodotta e organizzata da Arthemisia.

L’ARTISTA


Bill Viola, nato nel 1951, è un pioniere nello sviluppo del video come mezzo principale di arte contemporanea. Da oltre 40 anni realizza lavori che si rivolgono costantemente alla vita, la morte e il viaggio intermedio. Nato a New York City, Viola si è laureato nel 1973 presso il College of Visual and Performing Arts della Syracuse University, dove ha studiato musica elettronica, performance art e film sperimentali e ha creato il suo primo video funziona con la tempestiva invenzione della videocamera/registratore portatile.
Dopo la laurea, Viola ha trascorso 18 mesi a lavorare a Firenze, immerso nell’arte e architettura Rinascimentale. In seguito, insieme a Kira Perov, sua moglie e collaboratrice, vive in Giappone dal 1980 al 1981, studiando la filosofia buddista Zen e sperimentando l’architettura, la calligrafia, il teatro Noh e molti altri aspetti della cultura giapponese che hanno influenzato il suo lavoro. Viola si trasferisce poi nel sud della California, sebbene lunghi viaggi lo portino alle Isole Salomone nel Pacifico meridionale, i deserti della Tunisia, i monasteri buddisti tibetani, le cerimonie di camminata sul fuoco indù nelle Fiji e siti archeologici dei nativi americani nel sud-ovest degli Stati Uniti.
Viola ha rappresentato gli Stati Uniti nel 1995 alla Venezia Biennale, e due anni dopo, una sua importante rassegna ha viaggiato a livello internazionale, tra cui a LACMA. Attualmente vive a Long Beach, California.


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È tornato ad Atene il frammento del Partenone custodito a Palermo

Accordo fra il Museo dell’Acropoli e il Museo Salinas. Dalla Grecia arrivano in Sicilia una statua della dea Atena e un’antica anfora geometrica. Previste comuni iniziative in partnership Sicilia-Grecia.


Cerimonia di ritorno del frammnento del Partenone da Palermo ad Atene. Courtesy of Acropolis Museum

È un accordo culturale di straordinaria importanza internazionale quello che la Sicilia ha sottoscritto con la Grecia, che prevede il trasferimento ad Atene del frammento di una lastra appartenente al fregio orientale del Partenone, attualmente custodito nel Museo archeologico regionale A. Salinas di Palermo. Si tratta del cosiddetto “Reperto Fagan”, frammento in marmo pentelico che raffigura il piede o della Dea Peitho o di Artemide (Dea della Caccia) seduta in trono. Un gesto, voluto dall’assessore regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Alberto Samonà, condiviso con la Ministra greca della Cultura e dello Sport, Lina Mendoni, che per la cultura ellenica ha un valore fortemente simbolico: la Sicilia, in questo modo, fa, infatti, da apripista sul tema ritorno in Grecia dei reperti dei Partenone, dando il proprio contributo determinante al dibattito in corso da tempo a livello mondiale.
L’accordo, nato dalla proficua interlocuzione fra il Governo regionale – con l’assessore Samonà – e il Governo di Atene – con la Ministra Mendoni – è stato siglato dal Museo Archeologico Regionale “A. Salinas” di Palermo e dal Museo dell’Acropoli di Atene, ai sensi dell’articolo 67 del nostro Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, che prevede il trasferimento pluriennale e lo scambio di reperti archeologici tra le due prestigiose istituzioni museali, rispettivamente dirette da Caterina Greco e da Nikolaos Stampolidis.
Sottoscritto secondo la legge italiana, l’accordo prevede che per un periodo di 4 anni, rinnovabile una sola volta, il Salinas trasferisca al Museo dell’Acropoli di Atene il frammento appartenente al Partenone, attualmente conservato a Palermo perché parte della collezione archeologica del console inglese Robert Fagan, acquistata dalla Regia Università di Palermo nel 1820. In cambio, da Atene arriveranno a Palermo due importantissimi reperti delle collezioni del Museo dell’Acropoli, ciascuno per un periodo di quattro anni: si tratta di un’importante statua acefala di Atena, databile alla fine del V secolo a.C., e di un’anfora geometrica della prima metà dell’VIII secolo a.C. Un’intesa che prevede anche l’organizzazione di iniziative in comune che saranno realizzate in partnership dai due musei su temi d’interesse culturale di respiro internazionale.
La volontà della Sicilia, in realtà, è quella di un ritorno in Grecia a tempo indeterminato del reperto. A questo proposito, la Regione Siciliana, oltre a promuovere l’accordo culturale di valorizzazione reciproca fra le due realtà museali, ha chiesto al Ministero della Cultura della Repubblica Italiana un percorso che porti al felice esito di questa possibilità: la pratica è stata già incardinata ed è attualmente in discussione in seno al “Comitato per il recupero e la restituzione dei Beni Culturali” istituito presso il Ministero.
Il ritorno ad Atene del frammento conferma quel sentimento di fratellanza culturale che lega Sicilia e Grecia, nel riconoscimento delle comuni radici mediterranee e degli antichissimi e profondi legami tra i due Paesi. L’accordo sottoscritto rappresenta, infatti, un sigillo d’eccezione per quella koinè mediterranea che, iniziata al tempo della Grecia classica con le sue colonie nell’Italia meridionale e in Sicilia, ancora oggi connota gli intimi legami culturali tra l’Italia e la Repubblica Greca. Un accordo, che giunge al termine dell’anno in cui si è celebrato l’anniversario dell’avvio della lotta per l’indipendenza della Grecia e a poco più di tre mesi di distanza dalla Decisione del 29 settembre 2021 con cui la Commissione Intergovernativa dell’UNESCO per la Promozione della Restituzione dei Beni Culturali ai Paesi d’Origine (ICPRCP) ha richiamato “il Regno Unito affinché riconsideri la sua posizione e proceda in un dialogo in buona fede con la Grecia” che fin dal 1984 ha richiesto la restituzione delle sculture del Partenone, tuttora conservate presso il British Museum di Londra.

“Il ritorno ad Atene di questo importante reperto del Partenone – sottolinea l’Assessore regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Alberto Samonà – va nella direzione della costruzione di un’Europa della Cultura che affonda le proprie radici nella nostra storia e nella nostra identità: quell’Europa dei popoli che ci vede profondamente uniti alla Grecia, in quanto entrambi portatori di valori antichi e universali. E del resto, le molteplici e pregnanti testimonianze della cultura greca presenti in Sicilia sono la conferma di un legame antico e profondo. Grazie al governo Musumeci, la Sicilia torna al centro di una dimensione mediterranea, in cui il futuro comune passa per il dialogo e le relazioni con i Paesi che si affacciano sul “Mare nostrum”. L’accordo di collaborazione con il Museo dell’Acropoli di Atene ci permetterà, inoltre, di porre in essere iniziative culturali comuni di grande spessore e rilevanza internazionale che daranno la giusta visibilità alla nostra Regione”.
“Vorrei esprimere – sottolinea la ministra della Cultura e dello Sport della Repubblica Greca, Lina Mendoni – la mia più profonda gratitudine alla Giunta Regionale Siciliana e al suo Presidente Nello Musumeci, nonché all’Assessore Regionale ai Beni Culturali e dell’Identità della Sicilia Alberto Samonà. La nostra collaborazione affinché il frammento del Fregio Orientale del Partenone, oggi custodito presso il Museo Archeologico Regionale “A. Salinas” di Palermo, possa essere esposto per un lungo periodo presso il Museo dell’Acropoli insieme al proprio naturale contesto, è stata impeccabile e costruttiva. Soprattutto, desidero qui esprimere la mia gratitudine per gli instancabili e sistematici sforzi del Governo Siciliano e dell’Assessore Alberto Samonà per aver intrapreso la procedura verso l’accordo legale ai sensi del Codice dei Beni Culturali della Repubblica Italiana, affinché questo frammento possa ritornare definitivamente ad Atene. Dal novembre del 2020, quando sono iniziate le discussioni tra di noi, fino ad oggi, – prosegue la ministra Mendoni – l’Assessore Samonà ha sempre dichiarato in ogni modo il suo amore per la Grecia e per la sua Cultura. Nel complesso, l’intenzione e l’aspirazione del Governo Siciliano di rimpatriare definitivamente il Fregio palermitano ad Atene, non fa altro che riconfermare e rinsaldare ancora di più i legami culturali e di fratellanza di lunga data delle due regioni, nonché il riconoscimento di fatto di una comune identità mediterranea. In questo contesto, il Ministero della Cultura e dello Sport ellenico inizia con grande piacere la sua collaborazione con il Museo archeologico regionale “A. Salinas” di Palermo, non solo per l’esposizione presso di esso di importanti antichità provenienti dal Museo dell’Acropoli, ma anche per azioni e iniziative generali future. Con questo gesto, il Governo della Sicilia indica la via per il definitivo ritorno delle Sculture del Partenone ad Atene, la città che le ha create”.
“Desidero esprimere la massima soddisfazione – aggiunge Caterina Greco, Direttore del Museo Archeologico Regionale A. Salinas – per il raggiungimento di un obiettivo che mi ero posta fin dal mio arrivo al museo Salinas, due anni fa. Riportare ad Atene il frammento del fregio del Partenone che solo nel 1893 Walter Amelung riconobbe come un originale attico a torto confuso tra i marmi recuperati dal Fagan durante i suoi scavi a Tindari del 1808, significa infatti non soltanto restituire alla Grecia un pezzetto della sua più illustre storia archeologica, ma anche illuminare di nuova luce la vicenda complessa e affascinante del collezionismo ottocentesco, che contraddistingue i nostri più antichi musei e di cui la testimonianza della presenza a Palermo della “lastra Fagan” rappresenta un episodio tra i più intriganti”.
“L’approdo del Fregio palermitano presso il Museo dell’Acropoli – sottolinea il direttore del Museo dell’Acropoli di Atene, Nikolaos Stampolidis – risulta estremamente importante soprattutto per il modo in cui il Governo della Regione Siciliana, oggi guidato da Presidente Nello Musumeci, ha voluto rendere possibile il ricongiungimento del Fregio Fagan con quelli conservati presso il Museo dell’Acropoli. Questo gesto già di per sé tanto significativo, viene ulteriormente intensificato dalla volontà da parte del Governo Regionale Siciliano, qui rappresentato dall’Assessore alla Cultura ed ai Beni dell’Identità Siciliana Alberto Samonà, che ha voluto, all’interno di un rapporto di fratellanza e di comuni radici culturali che uniscono la Sicilia con l’Ellade, intraprendere presso il Ministero della Cultura italiano la procedura intergovernativa di sdemanializzazione del Fregio palermitano, affinché esso possa rimanere definitivamente sine die ad Atene, presso il Museo dell’Acropoli suo luogo naturale. In tal modo sarà la nostra amatissima sorella Sicilia ad aprire la strada ed a indicare la via per la restituzione alla Grecia anche per gli altri Fregi partenonici custoditi oggi presso altre città europee e soprattutto a Londra ed al Britisch Museum. Questa volontà, che rappresenta un fulgido esempio di civiltà e fratellanza per tutti i popoli, si sposa anche in un felicissimo ed emblematico connubio culturale con la decisione del 29 settembre 2021 espressa dall’Unesco nei riguardi del ritorno in Grecia delle sculture che si trovano presso il Museo londinese”.

La storia dell’arrivo in Italia del “reperto Fagan” e i tentativi di riconsegna alla Grecia

Il reperto archeologico, giunto all’inizio del XIX secolo nelle mani del console inglese Robert Fagan in circostanze non del tutto chiarite, alla morte di questi fu lasciato in eredità alla moglie che, successivamente, lo vendette tra il 1818 e il 1820 al Regio Museo dell’Università di Palermo, di cui il Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas” è l’odierno epigono.
Già in passato si sono avute interlocuzioni volte al ritorno ad Atene del frammento del fregio del Partenone e in particolare tra il 2002 e il 2003, in occasione della visita di Stato in Grecia del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e in vista della realizzazione delle Olimpiadi ad Atene del 2004, fu aperto il dibattito sulla “restituzione” del manufatto. E ancora nel 2008, in occasione dell’inaugurazione del Nuovo Museo dell’Acropoli di Atene, si ripresero le trattative tra il Ministero Ellenico della Cultura e il Ministero Italiano dei Beni Culturali, attraverso la mediazione dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che si era detto favorevole al ritorno del frammento in Grecia; ma anche in quell’occasione si raggiunse solo il risultato di prestare il frammento del Partenone ad Atene per un anno e mezzo, dal settembre 2008 al marzo 2010. Dopo il suo ritorno in Sicilia, negli anni successivi sulla vicenda della riconsegna permanente del reperto calò un velo e non se ne parlò più, se non riservatamente fra gli addetti ai lavori.
Per questa ragione, l’accordo sottoscritto tra i due musei coglie oggi un risultato di estrema rilevanza: perché dimostra concretamente la volontà della Sicilia di procedere sulla strada intrapresa, favorendo il definitivo ritorno ad Atene del frammento del fregio partenonico; e perché suggella la stretta collaborazione culturale tra due prestigiose istituzioni museali, entrambe di lunga ed antica tradizione.

La Statua di Atena e l’anfora che arriveranno al Museo Salinas da Atene

La statua (Akr. 3027), alta cm 60 e in marmo pentelico, raffigura la dea Atena vestita con un peplo segnato da una cintura portata sulla vita. Indossa un’egida stretta disposta trasversalmente sul petto, originariamente decorata con una gòrgone al centro, andata perduta. La figura sostiene il peso del proprio corpo sulla gamba destra, mentre con il braccio sinistro si appoggia probabilmente ad una lancia; la posa flessuosa e la resa morbida e avvolgente dell’abbigliamento sono tipiche dello stile attico dell’ultimo venticinquennio del V secolo a.C., influenzato dai modelli partenonici (c.d. “Stilericco”).
L’anfora (1961 ΝΑΚ 196), integra e di grandi dimensioni (alt. cm 41,5), è un importante esemplare della categoria della ceramica geometrica, una produzione caratteristica delle fabbriche ateniesi della prima età arcaica, che segna l’emergere di Atene fra le varie polis della Grecia. Si tratta di un’anfora utilizzata come cinerario, rinvenuta nel 1961 nella tomba 5 scoperta presso le pendici meridionali dell’acropoli, e rappresenta una vaso tipico del Geometrico Medio II, con corpo ovoide, alto collo svasato che termina con l’orlo rivolto verso l’esterno, e due piccole anse verticali sulla spalla. La decorazione, in gran parte a vernice nera, comprende sul collo una fascia recante un meandro delineato tra strisce orizzontali, mentre sulla pancia del vaso è dipinto un grande riquadro metopale con triangoli allineati; la parte inferiore del corpo e le anse sono decorate con sottili strisce parallele. La forma e lo stile inconfondibile, tipico di questa fase della ceramica attica, ne denotano la cronologia molto antica, risalente alla prima metà dell’VIII sec. a.C. (800-760 a. C.): un periodo, cioè, in cui non era ancora iniziata la colonizzazione greca della Sicilia, da cui solo successivamente derivò l’afflusso di materiali greci nella nostra isola.
L’arrivo in Sicilia di questi due significativi reperti delle collezioni del Museo dell’Acropoli, segna un decisivo cambio di passo nelle relazioni culturali tra la Sicilia e la Grecia, improntato alla piena pariteticità degli scambi culturali e a un reciproco rapporto di collaborazione che prevede anche lo sviluppo di iniziative comuni quali mostre, conferenze, ricerche scientifiche. È, infatti, la prima volta che dal famoso museo ateniese giungono in Sicilia e al Salinas, per un’esposizione di lungo periodo, testimonianze originali della storia della città che ha profondamente segnato, con la sua arte, l’intera cultura occidentale.


Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana – Museo A. Salinas

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IMMAGINE DI APERTURA Il Frammento del Partenone custodito a Palermo tornato ad Atene. Courtesy of Acropolis Museum

Kandinsky e Il Cavaliere Azzurro: “Il cavallo porta il cavaliere, ma il cavaliere guida il cavallo”

di Sergio Bertolami

33 – Der Blaue Reiter di Wassily Kandinsky e Franz Marc

Il Cavaliere Azzurro – questa è la traduzione di Der Blaue Reiter – richiama alla memoria un quadro che porta lo stesso titolo, un olio su tela di 50×60 centimetri, dipinto di Wassily Kandinsky nel 1903. Due anni prima della fondazione della Brücke. All’epoca Wassily ha 37 anni e da sette si è trasferito a Monaco da Mosca. È un giovane maturo, deciso a intraprendere la strada della pittura, studiando arte all’Akademie der Bildenden Künste, consapevole di rinunciare alla sua laurea in giurisprudenza, all’offerta d’insegnare materie giuridiche all’Università di Dorpat in Estonia e a una promettente carriera di avvocato. Il 1903 è un anno particolare, perché conosce una giovane artista che è anche una sua alunna, Gabriele Münter, e per lei divorzierà dalla moglie, sua cugina Anna Chimyakina, più grande di sette anni, conosciuta all’Università. Soprattutto in quell’anno particolare realizza quel dipinto divenuto un’icona dell’arte moderna. In origine è chiamato semplicemente Der Reiter (Il Cavaliere), ma verrà ribattezzato per sottolineare l’aspetto premonitore e inconscio che prelude alla nascita di uno dei maggiori movimenti d’avanguardia europei. Raffigura un misterioso messaggero coperto di mantello e cappuccio azzurro, al galoppo su di un cavallo bianco, mentre attraversa un prato verdissimo che ha per sfondo una foresta di betulle e monti in lontananza del medesimo azzurro. C’è chi scrive che il dipinto di per sé non significa niente, ma ha rappresentato un’importante pietra miliare nella transizione artistica di Kandinsky dall’impressionismo (la cui matrice è evidente in quest’opera) all’arte astratta. Giudizio incauto, visto che Kandinsky, dei cavalieri, ha fatto un tema dominante della sua opera iniziale. Problema dei critici è che, con Kandinsky, non possono inventare niente, perché è un pittore che usa anche scrivere, e molto bene: «Con gli anni ho imparato che il lavoro con il batticuore, un senso di oppressione al petto e di angoscia in tutto il corpo, con dolori intercostali, non basta. Può salvare l’artista, ma non la sua opera. Il cavallo porta il cavaliere con forza e velocità, ma il cavaliere guida il cavallo. Il talento trascina l’artista con forza e rapidità verso grandi altezze, ma l’artista conduce il suo talento». Il cavallo rappresenta il talento di Kandinsky, dunque, e Kandinsky il san Giorgio del Novecento. Questo per sua ammissione, scritto nero su bianco in Regard sur le passé (Sguardi sul passato, 1913) dove raccoglie le immagini del proprio mondo autobiografico e immaginativo. La sua memoria, asserisce, è composta soprattutto di colori; della sua stessa infanzia ricorda particolarmente i colori che, con il tempo, hanno preso il posto degli oggetti le cui immagini tendono a sbiadirsi: «I primi colori che mi fecero grande impressione sono il verde chiaro e brillante, il bianco, il rosso carminio, il nero e il giallo ocra. Avevo allora tre anni. Quei colori appartenevano a oggetti che non rivedo più chiaramente, come rivedo, invece, i colori».

Wassily Kandinsky, Il cavaliere azzurro, 1903

Il Cavaliere Azzurro è anche il nome del gruppo artistico nato nel 1911 dalla sua fervida fantasia, e che aggiunge, da quel momento in poi, una tessera significativa all’Espressionismo tedesco. Perché le premesse ideologiche del movimento, che si proponeva di comunicare in modo immediato stati d’animo e sentimenti, erano già state chiarite da Kirchner nel manifesto del 1905. Ma ora, accanto all’Espressionismo psicologico della Brücke (Il Ponte) – rimasto soltanto un fenomeno tedesco col suo linguaggio aspro e contestatario incentrato sulla deformazione dell’immagine per evidenziare gli aspetti esecrabili della realtà – si affermerà l’Espressionismo astratto del Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro). La diffusione sarà internazionale. E dire che il nome è una trovata di Franz Marc e Kandinsky, come racconta lui stesso, mentre sedevano a un tavolino del caffè-giardino di Sindelsdorf: «Entrambi amavamo l’azzurro, Marc i cavalli, io i cavalieri. Così il nome venne da sé». Secondo Kandinsky, l’emblema del Cavaliere Azzurro, folgorazione casuale durante quella conversazione con Marc, potrebbe essere visto come una sorta di programma breve – come breve e misurato era il manifesto xilografico di Kirchner per Die Brücke – un programma rappresentato dal colore azzurro (che è come un blu cosmico che tende ai toni più chiari) in connessione con la quieta naturalezza del cavallo e il dinamico incalzare del cavaliere per attraversare il confine. Quel confine che finora ha separato le arti, dal momento che uno degli sforzi più importanti di Kandinsky è trasmettere l’idea che l’arte è sinestetica, trascende cioè i confini tra le sue varie forme. L’idea di sinestesia non è distante da tutti noi; viene espressa inconsapevolmente nel linguaggio quotidiano quando ci riferiamo ad uno “sguardo silenzioso”, a un “dolce suono”, una “luce calda o fredda”, quando dinanzi ad un quadro affermiamo di “sentire il colore” o ascoltando una musica di “vedere lo stormire delle fronde o il gorgogliare di un ruscello”. Nello stesso modo, il colore può avere un timbro, così come una musica può avere un tono.

Citazione di Eugène Delacroix

In che modo spiegare tutto questo, e tanto altro ancora, al pubblico di una mostra? Aspettare che un critico lo faccia interpretando un artista? «La maggior parte dei testi sull’arte sono scritti da persone che non sono affatto degli artisti, quindi tutti i termini e i giudizi sono sbagliati». La citazione perentoria, del pittore romantico Eugène Delacroix, campeggia isolata in una pagina dell’Almanacco del Cavaliere Azzurro. Suona come protesta contro tutta la critica d’arte del tempo e sembra volere uccidere la ricerca storico-artistica. La misura di tutte le cose, secondo il gruppo del nuovo movimento Der Blaue Reiter, non è nelle osservazioni di presunti esperti, bensì nelle mani stesse degli artisti. La nota di biasimo è rafforzata da una litografia che mostra San Giorgio a cavallo, mentre conficca la sua lancia nella gola del drago. Cavalieri cristiani e figure equestri occupano buona parte delle illustrazioni del volume. L’innamoramento per questi temi rappresenta in Kandinsky la strada verso una vita semplice, non convenzionale, in armonia con la natura e il mondo rurale, quello dell’Alta Baviera.

Wassily Kandinsky, Ritratto di Gabriele Münter, 1903

La storia inizia nel 1908, quando Kandinsky e Gabriele Münter, che fanno coppia ma non sono sposati, incontrano, durante le vacanze a Murnau, Marianne von Werefkin e Alexej von Jawlensky, anche loro legati da un “matrimonio selvaggio”. L’anno successivo, Gabriele decide di acquistare una casa a Murnau, ancora oggi esistente, fra le cui mura trascorrere, lei e Wassily, soprattutto le estati, tornandoci ogni anno fino al 1914. La soluzione va intesa come una scelta di vita, che influenzerà tutto il periodo immediatamente precedente lo scoppio della guerra. Esprime nello stesso tempo amore per la natura e critica verso le costrizioni della città, ma rappresenta anche la volontà di provare a sperimentare una stabile esistenza affettiva. In dodici anni, trascorsi insieme, i due non arriveranno mai al matrimonio. Annota Wassily: «Il carattere di Gabriele non poteva andare d’accordo con il mio … e io non ero disposto a fare concessioni». L’interesse di Kandinsky e Münter per l’arte popolare, in particolare per la pittura su vetro dell’Alta Baviera, è comunque un momento di visione comune. Scaturisce dal convincimento che tutte le arti debbano condividere uguali diritti, come è possibile riscontrare dai documenti pubblicati più tardi nell’Almanacco.

La casa di Gabriele Münter a Murnau, la cosiddetta “Casa Russa”.

L’amicizia tra Gabriele Münter e Marianne Werefkin, come tra Alexej von Jawlensky e Wassily Kandinsky produrrà anche una collaborazione artistica e una reciproca influenza. Anzitutto nella rappresentazione del luminoso paesaggio lacustre dell’Alta Baviera, dominato dalla catena alpina, reso attraverso il trattamento del colore luminoso, brillante e acceso, con superfici a spatola di chiaro dinamismo. Gabriele Münter descrive questa ricerca come un passaggio «dal dipingere la natura – più o meno impressionista – al sentire un contenuto – all’astrarre – nel senso di dare un estratto» di quel contenuto. È questo un concetto nevralgico. Sotto l’impulso di Kandinsky il gruppo di amici intende intraprendere nuove vie espressive, verso la creazione di spazi immateriali, verso l’astrazione lirica e fantastica della realtà. Così i quattro, nel 1909, insieme a Adolf Erbslöh, Oscar Wittenstein, Alexander Kanoldt, Hermann Schlittge, Alfred Kubin, e molti altri, danno vita all’associazione Neue Künstlervereinigung München (NKVM, ovvero Nuova associazione di artisti di Monaco), della quale Wassily Kandinsky, viene eletto presidente. Già prima di organizzare le mostre del 1909 e del 1910, introduce nello statuto della NKVM la cosiddetta “clausola dei quattro metri quadrati”, scaturita da una discussione col pittore Charles Johann Palmié: «Ogni membro titolare ha il diritto di esporre due opere, non soggette al giudizio della giuria, purché non superino una superficie totale di 4 metri quadrati».

Wassily Kandinsky, Murnau: case sull’Obermarkt, 1908 

All’interno dell’associazione monacense, tuttavia, non si respira un’aria tranquilla. Si creano dubbi e disaccordi, perché la maggior parte dei membri non approva la progressiva tendenza all’astrazione manifestata da Kandinsky. Quando le forze conservatrici della NKVM scatenano la loro aperta opposizione verso la pittura sempre più irreale di Kandinsky, richiedendo opere «più comprensibili», il pittore a gennaio del 1911 lascia la presidenza. Gli subentrano prima Erbslöh poi Franz Marc. Gli attacchi nell’ambiente rimangono violenti: «O si suppone che la maggior parte dei membri e degli ospiti dell’associazione sia inguaribilmente malata di mente, o si ha a che fare con degli impudenti bluffatori, che non ignorano la necessità di sensazionalismo dei nostri tempi, cercando solo di sfruttare la situazione». La scissione si verifica quando in preparazione della terza esposizione, verso la fine del 1911, il quadro di Kandinsky intitolato Composizione VGiudizio Universale, è respinto adducendo il pretesto che la somma delle misure delle opere che il pittore vorrebbe presentare supera le prescrizioni dello statuto. Kandinsky lascia l’associazione, e Franz Marc, Alfred Kubin, Gabriele Münter escono con lui per formare il nucleo centrale del Blaue Reiter.

Wassily Kandinsky, Primo acquerello astratto, 1910

Qualche mese prima, per l’esattezza il 19 giugno 1911, Wassily Kandinsky in una lettera a Franz Marc aveva menzionato per la prima volta l’idea di una pubblicazione da eseguire insieme. Non poteva immaginare che un anno dopo avrebbero avviato quella che immaginavano come una serie di volumi intestati Almanach Der Blaue Reiter. In verità, la serie si ridurrà ad un numero unico, il quale però è diventato così famoso da essere considerato uno dei più importanti scritti programmatici dell’arte del XX secolo. «Beh, ho un nuovo programma», riferisce Kandinsky nella lettera a Marc. «Piper sarà la casa editrice e noi due dovremmo essere i curatori. Una sorta di Almanacco annuale con riproduzioni e articoli soltanto di artisti. […] Il volume dovrà rispecchiare l’intero anno, e una catena rivolta al passato e una orientata al futuro dovrebbero dare vita a questa specie di specchio. […] Presenteremo i burattini egiziani delle ombre accanto a uno scarabocchio infantile, un disegno ad inchiostro cinese accanto a Rousseau il doganiere, un giornale popolare accanto a Picasso, e molto altro! A poco a poco diventeremo letterati e musicisti. Il volume potrebbe intitolarsi Die Kette (La catena) o qualcosa di simile».

Wassily Kandinsky, Composizione V (Giudizio Universale), 1911

In questa bozza di progetto, Kandinsky precorre l’idea di mettere uno accanto all’altro artisti di differenti paesi ed espone il principio fondamentale del libro: la giustapposizione comparativa di opere d’arte afferenti a culture, geografie ed epoche diverse, una combinazione di arte elitaria e arte popolare, senza dimenticare le sculture del Camerun, del Messico o della Nuova Caledonia oppure la pittura europea sia antica che moderna. Una bozza di progetto che troverà riscontro nella pubblicazione del 1912, con sedici testi, 141 illustrazioni e tre spartiti musicali. Un esempio concreto del nuovo canone artistico. Contemporaneamente al volume d’arte, Kandinsky e Marc organizzano in tutta fretta la loro prima mostra. Dal 1910, Franz Marc e Maria Franck (che sposerà l’anno seguente) vivevano insieme a Sindelsdorf, a 15 chilometri da Murnau. Per cui tutti questi preparativi hanno sede nella casa di Murnau di Gabriele Münter, dove si intessono stimolanti discussioni per tutto l’autunno del 1911, fra Wassily e Franz, Maria e Gabriele, nonché altri artisti loro amici, come Heinrich Campendonk e i cugini August e Helmuth Macke.

Prima mostra Der Blaue Reiter alla Galleria Thannhauser, Monaco di Baviera, 1911, foto di Gabriele Münter
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Il 18 dicembre 1911 puntualmente la mostra è presentata nella Galleria Thannhauser col titolo di Prima mostra degli editori del “Blaue Reiter”. L’Almanacco, invece, è pubblicato a Monaco di Baviera a maggio del 1912, destinato esclusivamente dagli artisti che lo hanno redatto agli artisti e ai cultori illuminati che lo leggeranno. Vi compaiono saggi di Marc, Kandinsky e Macke e, in chiusura, spartiti musicali di Scriabin e Schoenberg. Accompagnano i testi, riproduzioni di dipinti e illustrazioni di maestri come El Greco, Van Gogh, Matisse, Picasso, Rousseau, non manca il gruppo della Brücke con Kirchner ed Heckel e chiaramente il gruppo del Blaue Reiter. Immagini che si confrontano con xilografie, intagli e arazzi medievali, dipinti dell’arte vetraria bavarese, ombre egizie, bronzi del Benin e disegni fanciulleschi, manufatti realizzati fuori d’Europa, provenienti dall’America Latina, dall’Alaska, dal Giappone e dall’Africa. Una manifestazione imponente e straordinaria di cultura aperta e tollerante, resa ancora più eccezionale se si pensa che solo due anni più tardi il mondo sarà lacerato con l’esplosione della Prima guerra mondiale. La prima edizione raggiunge le 1200 copie e va esaurita in breve tempo. Cosicché proprio in quell’anno tragico 1914, l’editore Richard Piper pubblica una seconda edizione dell’opera, esattamente identica alla prima.

Copertina dell’Almanacco del cavaliere azzurro pubblicato nel 1912

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Eleonora Carraro – Comunicazione digitale e creatività. Uno studio empirico

Alle soglie della Quarta Rivoluzione Industriale, la creatività è da più parti ritenuta una competenza indispensabile per destreggiarsi nel complesso contesto attuale e affermare la distintiva peculiarità dell’uomo sulle macchine. L’auspicata piena manifestazione dell’abilità immaginativa, però, non potrà che conoscere espressione nello scenario odierno, caratterizzato dalla presenza pervasiva delle tecnologie digitali. Sono dunque meritevoli di approfondimento le opportunità e le limitazioni che il cyberspazio viene offrendo circa l’estrinsecazione del potenziale creativo umano. Il libro di Eleonora Carraro, frutto della tesi magistrale insignita del “Premio Gemelli” e vincitrice dell’ulteriore riconoscimento “Vita e Pensiero”, si propone di affrontare l’indagine in chiave duplice, teorica ed empirica. Nei capitoli dal primo al terzo, infatti, si ripercorrono e sistematizzano le evidenze offerte dalla letteratura specialistica in tema di media digitali e creatività. Nella quarta e ultima sezione, invece, si dà conto della ricerca empirica condotta su di un campione di studenti universitari, ponendo in ultimo l’accento sulla complessità dell’argomento e sulle sue rilevanti implicazioni sociali. Prefazione di Patrizia Milesi, docente di Strategie comunicative per le organizzazioni e Comunicazione e Persuasione presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica. Nota introduttiva di Antonella Sciarrone Alibrandi, rettore vicario dell’Ateneo e Presidente Alumni Cattolica – Associazione Necchi. Eleonora Carraro (Monza, 1994) nel 2019 ha conseguito la laurea in Gestione del Lavoro e Comunicazione per le Organizzazioni presso la facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Attualmente opera presso una società di consulenza dove si occupa di amministrazione del personale.Nel 2020 ha ricevuto il “Premio Agostino Gemelli” e l’ulteriore riconoscimento della casa editrice Vita e Pensiero che ha selezionato la sua tesi per la pubblicazione.

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro 

Abano Terme (Pd), Villa Bassi Rathgeb – ROBERT CAPA. Fotografie oltre la guerra

È un Capa “altro”, quello che questa grande mostra propone. E lo dichiara già dal sottotitolo, quel “fotografie oltre la guerra”, frase emblematica dello stesso Capa, che pone l’attenzione proprio sui reportage poco noti del grande fotografo”. La annunciano Federico Barbierato e Cristina Pollazzi, rispettivamente Sindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Abano Terme.

15 Gennaio 2022 – 05 Giugno 2022
Abano Terme (Pd), Villa Bassi Rathgeb

ROBERT CAPA
Fotografie oltre la guerra

Mostra a cura di Marco Minuz

Henri Matisse in his studio, Nice, France, August 1949 © Robert Capa © International Center of Photography / Magnum Photos

Reportage poco noti, ma non meno importanti e potenti. Semplicemente sopraffatti dall’immagine di lui come straordinario interprete dei grandi conflitti. E’ una mostra, quella curata da Marco Minuz e promossa dal Comune di Abano Terme a Villa Bassi Rathgeb dal 15 gennaio al 5 giugno 2022, che vuole far uscire Capa dallo stereotipo di “miglior fotoreporter di guerra del mondo”, come ebbe a definirlo, nel 1938 la prestigiosa rivista inglese Picture Post. L’obiettivo è invece puntare tutta l’attenzione sulla sua fotografia lontana dalla guerra.

“Non vi è dubbio – riconosce il curatore – che l’esperienza bellica sia stata al centro della sua attività di fotografo: la guerra civile spagnola, la resistenza cinese di fronte all’invasione del Giappone, la seconda guerra mondiale e quella francese in Indocina (1954), durante il quale morì, ucciso da una mina antiuomo, a soli 40 anni. Acquisendo, in queste azioni, una fama che gli permise di pubblicare nelle più importanti riviste internazionali, fra le quali Life e Picture Post, con quello stile di fotografare potente e toccante allo stesso tempo, senza alcuna retorica e con un’urgenza tale da spingersi a scattare a pochi metri dai campi di battaglia, fin dentro il cuore dei conflitti; celebre, in tal senso, la sua dichiarazione: Se non hai fatto una buona fotografia, vuol dire che non ti sei avvicinato a sufficienza alla realtà. Queste sue fotografie sono ormai patrimonio della cultura iconografica del secolo scorso”.

Ma il lavoro di Robert Capa non si limitò solo esclusivamente a testimoniare eventi drammatici, ma spaziò anche in altre dimensioni non riconducibili alla sofferenza della guerra. Proprio da qui prende avvio l’originale progetto espositivo a Villa Bassi Rathgeb di Abano Terme che vuole esplorare, attraverso circa un centinaio di fotografie, parti del lavoro di questo celebre fotografo ancora poco conosciute.
“Robert Capa. Fotografie oltre la guerra” esplora il rapporto del fotografo con il mondo della cultura dell’epoca con ritratti di celebri personaggi come Picasso, Hemingway e Matisse, mostrando così la sua capacità di penetrare in fondo nella vita delle persone immortalate.
Affascinante la sezione dedicata ai suoi reportage dedicati a film d’epoca. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale è l’attrice svedese ad introdurre Capa sul set del Notorius di Alfred Hitchcock, dove si cimenta per la prima volta in veste di fotografo di scena. Nell’arco di pochissimi anni Capa si confronta con mostri sacri del calibro di Humphrey Bogart e John Houston; immortala la bellezza di Gina Lollobrigida e l’intensità di Anna Magnani. Maturerà poi la scelta, congeniale alla sua sensibilità e all’oggetto privilegiato della sua ricerca artistica, di confrontarsi con i grandi maestri del neorealismo. Straordinarie dunque le immagini colte sul set di Riso Amaro, con ritratti mozzafiato di Silvana Mangano e Doris Dowling.

Pablo Picasso with Françoise Gilot and his nephew Javier Vilato. Golfe-Juan, France, August 1948 © Robert Capa © International Center of Photography / Magnum Photos

Completa il percorso la sezione dedicata alla collaborazione tra lo scrittore americano Steinbeck e Robert Capa che darà avvio al progetto “Diario russo”.
Nel 1947 John Steinbeck e Robert Capa decisero di partire insieme per un viaggio alla scoperta di quel nemico che era stato l’alleato più forte nella seconda guerra mondiale: l’Unione Sovietica. Ne emerse un resoconto onesto e privo di ideologia sulla vita quotidiana di un popolo che non poteva essere più lontano dall’American way of life. Le pagine del diario e le fotografie che raccontano la vita a Mosca, Kiev, Stalingrado e nella Georgia sono il distillato di un viaggio straordinario e un documento storico unico di un’epoca, salutato dal New York Times come “un libro magnifico”.
Un reportage culturale sulla gente comune di uno dei paesi meno esplorati dai giornalisti e reporter mondiali. Una lezione di umanità ed empatia che ci ricorda l’importanza di conoscere concretamente luoghi e persone per superare pregiudizi e ignoranza.
La mostra prosegue con una serie di fotografie realizzate in Francia nel 1938 e dedicate all’edizione del Tour de France di quell’anno, dove l’attenzione del fotografo si focalizzerà sempre prevalentemente sul pubblico rispetto alle gesta sportive degli atleti.
Una sezione è dedicata alla nascita dello Stato d’Israele. Robert Capa, ungherese di origine ebraica, emigrato in Germania e poi in Francia e negli Stati Uniti, fondatore dell’agenzia Magnum Photos, era giunto sul posto per documentare la prima guerra arabo-israeliana del 1948. A pochi anni dalla Shoah, con la vita che riprende nonostante le violenze ancora in corso, l’obiettivo di Capa documenta le fasi iniziali della costituzione del nuovo Stato.
Complessivamente la mostra promossa dal Comune di Abano, Assessorato alla Cultura, prodotta e organizzata da Suazes con il supporto organizzativo di Coopculture, dipana un centinaio di fotografie, in dialogo con gli ambienti storici di Villa Bassi Rathgeb.

Per info orari e biglietti: http://www.museovillabassiabano.it/

UFFICIO STAMPA
Studio ESSECI – Sergio Campagnolo
Tel. 049 663499
Contatto: Roberta Barbaro, Email: roberta@studioesseci.net

IMMAGINE DI APERTURA Robert Capa photographed by Ruth Orkin. Paris, France, 1951 © Ruth Orkin, courtesy Magnum Photos

Genova, Palazzo Ducale – MONET. Capolavori dal Musée Marmottan Monet di Parigi

CLAUDE MONET arriva a Genova. Dall’11 febbraio Palazzo Ducale ospiterà negli spazi del Munizioniere i capolavori del più importante rappresentate dell’Impressionismo. Tutti provenienti dal Musée Marmottan Monet di Parigi, i 50 capolavori in mostra rappresentano alcune delle punte di diamante della produzione artistica di Monet e raccontano l’intera parabola artistica del Maestro impressionista, letta attraverso le opere a cui Monet teneva di più, le “sue” opere, quelle che l’artista ha conservato gelosamente nella sua casa di Giverny fino alla morte, quelle da cui non ha mai voluto separarsi.

Dall’11 febbraio 2022 Palazzo Ducale di Genova ospiterà una straordinaria mostra dedicata a Monet, con cinquanta capolavori dell’artista più amato tra gli Impressionisti.

MONET
Capolavori dal

Musée Marmottan Monet di Parigi

11 febbraio – 22 maggio 2022
Palazzo Ducale, Genova

Claude Monet (1840-1926)
Lo stagno delle ninfee, 1917-1919 circa
Olio su tela, 130×120 cm
Parigi, Musée Marmottan Monet,
lascito Michel Monet, 1966
Inv. 5165
© Musée Marmottan Monet, Paris / Bridgeman Images

L’eccezionalità di questa mostra risiede nell’amore e nell’intimità che emanano le opere esposte, allestite in maniera del tutto inedita e suggestiva nelle varie sale del Munizioniere di Palazzo Ducale, luogo pieno di fascino che consentirà un viaggio del tutto nuovo nel mondo di Monet.

Nelle sue tele di luce evanescente, Monet ha sempre unito il suo amore per la natura con l’arte e, facendo del pennello una propaggine della sua mano, ha creato e riprodotto giardini ovunque abbia vissuto. Sebbene trascorresse molto del suo tempo a Parigi e viaggiasse molto in Francia e all’estero, Monet preferì la campagna e visse per più di cinquant’anni lungo la Senna, accrescendo sempre più il suo interesse per il giardinaggio, per le aiuole che allietavano le sue prime case ad Argenteuil e per i suoi magnifici giardini a Giverny, che divennero un piacere per gli occhi, un luogo rilassante per contemplare la natura e fonte di ispirazione.

Proprio Giverny, la sua casa dopo il 1883, può essere considerata come il luogo di consapevolezza e rinascita per lo stesso artista; una sequenza di nuovi elementi dettati da una brillante innovazione formale, geografica e di ricerca stilistica che lo ha portato a interessarsi sempre di più soggetti impregnati di nuova lirica e colori vivaci.

Ad accogliere il pubblico come in un onirico giardino lussureggiante, appositamente creato, ci saranno opere come le sue amatissime e iconiche Ninfee (1916-1919 ca.), Iris (1924-1925 ca.), Emerocallidi (1914-1917 ca.), Salice piangente (1918-1919 ca.), le varie versioni de Il ponte giapponese e la sua ultima e magica opera Le rose (1925-1926 ca.).

Ma non solo. Verdeggianti salici piangenti, viali di rose e solitari ponticelli giapponesi dai colori impalpabili fanno da cornice a una natura ritratta in ogni suo più sfuggente attimo, variazione di luce, tempo o stagione.

Promossa dal Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, prodotta e organizzata da Arthemisia e in collaborazione con il Musée Marmottan Monet di Parigi, la mostra è curata da Marianne Mathieu, studiosa di Monet e direttrice scientifica dello stesso museo parigino.

Il Musée Marmottan Monet – il cui vastissimo patrimonio artistico è raccontato nel percorso della mostra – possiede il nucleo più grande al mondo di opere di Monet, frutto di una generosa donazione di Michel, suo figlio, avvenuta nel 1966 verso il museo parigino – che prenderà proprio il nome di “Marmottan Monet”.


Sito
www.palazzoducale.genova.it
www.monetgenova.it

Orario apertura
Lunedì dalle ore 11,00 alle ore 19,00
Martedì, mercoledì, giovedì dalle ore 9,00 alle ore 19,00
Venerdì dalle ore 9.00 alle ore 21.00
Sabato e domenica dalle ore 10,00 alle ore 19,00
La biglietteria chiude 1 h prima

Biglietti
Intero
€ 15,00 Audioguida inclusa
Ridotto € 13,00 Audioguida inclusa

Informazioni e prenotazioni scuole
T. +39 010 8171604
prenotazioniscuole@palazzoducale.genova.it
didattica@palazzoducale.genova.it

Informazioni e prenotazioni gruppi adulti
T. +39 010 986391

Hashtag ufficiale
#MonetGenova

Uffici Stampa
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Camilla Talfani | ctalfani@palazzoducale.genova.it
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Cagliari, Basilica San Saturnino – Apostoli. Mostra personale di Antonio Porru

Fino al 30 gennaio 2022 la Basilica di San Saturnino -Rete Musei Civici Cagliariospita la mostra personale Apostoli di Antonio Porru, accompagnata dai testi critici di Gabriele Simongini, Giorgio Pellegrini, Nico Stringa, Alessandro Sitzia.
Antonio Porru presenta, dunque, la sua seconda importante mostra dopo ben venti anni dall’ultima all’Exmà di Cagliari, per esplicita scelta personale. In esposizione una serie di oltre 90 opere, raccolte in sei gruppi -Apostoli, Cieli, Terre, 1652 peste a Sanluri 2020 Pandemia, Testimoni, Terrecotte-, che dialogano profondamente con lo spazio architettonico: dodici ritratti replicati sei volte e inseriti in un retable di sei pannelli e dodici raffigurazioni di grande formato.

Apostoli
Mostra personale di Antonio Porru

Testi critici di Gabriele Simongini, Giorgio Pellegrini, Nico Stringa, Alessandro Sitzia

Basilica San Saturnino – Rete Musei Civici Cagliari
Piazza San Cosimo – Cagliari

Fino al 30 gennaio 2022

Copertina del Catalogo

Durante il vernissage il maestro Gavino Murgia si è esibito in un intervento musicale appositamente dedicato al progetto e all’esposizione. “Questo è un mondo in cui ciascuno di noi, conoscendo i propri limiti, conoscendo i pericoli della superficialità ed i terrori della fatica, deve attaccarsi a ciò che gli sta più vicino, a ciò che egli conosce, a ciò che può fare, ai suoi amici, alle sue tradizioni, ai suoi amori, per non finire disciolto in una confusione universale, senza sapere nulla, senza amare nulla. Come un lampo, vedendo gli “Apostoli” laici e i ritratti di Antonio Porru mi è tornata alla mente questa riflessione di Robert Oppenheimer […] E proprio questo ho trovato di fulminante nelle opere di Porru, la verità intensa ed ineludibile, anche se fragile, di un’autenticità che si personifica e ci guarda ad occhi spalancati con i visi di familiari, amici, conoscenti che danno vita, complessivamente, ad una sorta di confortante scialuppa di salvataggio nella caotica e spesso insensata tempesta che ogni giorno ci travolge. […] La vocazione artistica di Porru è popolare, nel senso più alto del termine e tale da accomunarlo, mutatis mutandis, a tre grandi artisti sardi come Costantino Nivola, Maria Lai e Pinuccio Sciola. […] Nel caso di Porru questa vocazione popolare si esprime con la massima efficacia, da “cantastorie”, nei graffiti realizzati in tanti paesi della Sardegna, fra cui spicca quello di Sanluri, intitolato “Sinopie di un secolo incerto”, con i dodici “Apostoli” che, come apparizioni, emergono con la testa, le braccia e le gambe dai muri calcinati del Museo del Pane che diventa il loro corpo “bianco”. L’interno si proietta all’esterno e quelle figure, sedute, manifestano una immediata propensione al dialogo e alla condivisione diventando messaggeri di autenticità tanto che si potrebbe immaginare qualcosa del genere per tutte le case del paese. Così tutte le opere raccolte nei sette gruppi che innervano la mostra sembrano in realtà frammenti di una sola grande opera murale e corale in cui trova immagine un’umanità concreta e primigenia, colta in tutta la sua sincerità.

Del resto a Porru non interessa essere originale quanto piuttosto mirare all’originario così come è primigenio per vocazione anche il segno inciso, potente ed essenziale ma anche leggero e lirico, che costituisce la matrice di queste opere più graffite che dipinte, nell’uso di tecniche e materiali semplici ed ascetici quali terra, carboncino, tempera o terracotta. È, questa, un’umanità che resiste al drastico, sconvolgente mutamento antropologico del nostro stare nel mondo sotto il dominio delle corporazioni hi-tech che ci cullano con la promessa di ogni meraviglia e di ogni soluzione per una vita migliore, appagante e cool, in una società ossessionata dal profitto, dal presente e dalla sua ininterrotta partecipazione mediatica e virtuale.

Gli “Apostoli” in particolare, col solo sguardo e con la loro semplice presenza autenticamente umana, danno testimonianza concreta della fatica, del Iavoro, dell’impegno quotidiano di coloro che realmente sono le colonne portanti della famiglia e della società o perlomeno di quel che ne resta oggi. Non a caso, nelle opere in mostra, gli “Apostoli” sono rappresentati a figura intera quasi per sottolineare la solidità del loro ruolo mentre in quasi tutti gli altri ritratti emergono solo la testa e il busto e talvolta, come nella serie a tempera e carboncino del 2020, a quelle figure viene dato un andamento regolare, quasi oggettuale, tanto che alcuni sembrano assumere quasi la forma di vasi antropomorfi. […] Così, in un mondo dove sembra pericoloso perfino abbracciarsi e stringersi la mano e in cui i legami umani sono stati sostituiti dalle connessioni digitali, vien voglia di toccare queste opere così vitali, di sentirne le rughe e l’epidermide materica ma anche quel senso del tempo e della memoria (“La memoria è l’anima”, diceva Umberto Eco) che si portano addosso insieme ad una sorta di misterioso destino esistenziale. [..]” (dal testo critico di Gabriele Simongini)

Biografia

Antonio Porru nasce a Sanluri (Cagliari) nel 1950. Sin da piccolo la sua passione è il disegno. Nel 1966 frequenta la scuola d’arte di Oristano. Nel 1969 si diploma, rifiuta varie proposte di lavoro e la possibilità di intraprendere la carriera di insegnante: la sua passione per la pittura e per l’arte non gli consente di cedere a compromessi. Nel 1973 frequenta un laboratorio sulla terra cotta organizzato da un frate francescano, Padre Ambrogio Fozzi, nel convento di Santa Lucia di San Gavino. L’esperienza sarà di grande importanza per la sua formazione; la terra lo appassiona e non lascerà più questa materia che utilizzerà in vari modi sperimentando la sua potenza espressiva. Nel 1981 dà vita con scritti e illustrazioni a un giornalino dal titolo “Sellori”, nome antico del paese di Sanluri, in cui affronta tematiche politico-sociali. Nei primi anni ottanta costruisce di sana pianta la sua casa in località “CuccuruS.Rita”, non lontano dal suo paese e si trasferisce con la sua compagna Rita. Seguirà un periodo di intenso lavoro, specialmente con i bassorilievi, ma anche con le sculture a tutto tondo, sempre in terracotta. Alla fine degli anni ottanta frequenta il suo vecchio professore di disegno della scuola d’arte, il pittore Antonio Amore (amico di Balla e di Guttuso). I due diventano amici e condividono per un decennio lo studio laboratorio di Sanluri. Negli anni successivi realizza diverse opere per il suo paese, pannelli in terra cotta, bassorilievi, stele in pietra e graffiti. La prima mostra di rilievo avviene nel 2002 all’Exmà di Cagliari. Nel 2010 vince a Oristano il 1° premio “Città della ceramica”. Viene chiamato a partecipare alla mostra dislocata nella città di Sassari, per la prestigiosa Biennale di Venezia, curata da Sgarbi. Nel 2014 la Facoltà di teologia di Cagliari gli commissiona un lavoro importante: una terracotta da sistemare nell’aula magna. Con questo grande pannello si chiude forse definitivamente il periodo dei bassorilievi. Nel 2015 il preside del Liceo Dettori di Cagliari gli commissiona un grande graffito per il 150° della sua fondazione. Negli ultimi anni la sua attività si concentra nella realizzazione di ritratti di grandi dimensioni di persone che fanno parte della sua quotidianità. Sue opere sono presenti nella collezione della Fondazione Banco di Sardegna, oltre che in molte collezioni private.


INFO

Apostoli
Mostra personale di
Antonio Porru
Testi critici di Gabriele Simongini, Giorgio Pellegrini, Nico Stringa, Alessandro Sitzia Catalogo in mostra – Maretti Editore
Partner: Fondazione di Sardegna, Central Formaggi

Inaugurazione 24 novembre 2021 ore 17.00
Con esibizione musicale del maestro Gavino Murgia
Basilica San Saturnino
Piazza San Cosimo – Cagliari

Fino al 30 gennaio 2022
Orari:
da lunedì al sabato dalle 8:30 alle 13:30 – altre aperture verranno presto comunicate
tel. 3454779953 – 3333806558 – 0703428266
mail drm-sar.basilicasansaturnino@beniculturali.it

Ufficio Stampa
Roberta Melasecca
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Pescara, GArt Gallery: Claudio Di Carlo -Detto Fatto – mostra / installazione / happening

Claudio Di Carlo, ospite del nuovo spazio espositivo pescarese GArt Gallery diretto da Francesco Di Matteo, presenta Detto Fatto, mostra/installazione/happening a cura di Maria Arcidiacono. Una nuova mostra in continuità con I pasticcini li porto io, tenutasi a Roma nel 2020.

Claudio Di Carlo
Detto Fatto

mostra/installazione/happening
a cura di Maria Arcidiacono

GArt Gallery
Via Piero Gobetti 114 – Pescara

Fino al 15 gennaio 2022

di Maria Arcidiacono

Si tratta del secondo appuntamento di un ciclo che, in questa occasione, vedrà protagoniste ben novantanove opere sulle quali convergono molti dei temi che hanno attraversato il percorso creativo dell’artista, arricchiti da nuovi lavori ispirati a pellicole cinematografiche, alcune delle quali individuate con veri e propri intenti autobiografici. Il tutto servito sui classici vassoi da pasticcini, sapientemente trasformati in supporti solidissimi e parzialmente muniti della propria cornice dorata.

Per volontà dell’artista, il pubblico si troverà partecipe di un vero e proprio happening, orchestrato dallo stesso Di Carlo, che predilige da sempre un coinvolgimento collettivo nei suoi progetti espositivi, musicali e culturali: dalle elaborazioni grafiche di Alessandro Gabini alla performance con Francesca Perti e Andrea Buccella, dal contributo di Andrea Moscianese, con una sua composizione, alle riprese video di Enrico Coppola, mentre spetterà al tocco artistico del pasticcere Tony Renzi apporre la classica – e non solo metaforica – ciliegina sulla torta. 

Nei mesi scorsi, capolavori e divi della settima arte hanno invaso lo studio dell’artista, evocati a testimoniare narrazioni simili al reale, selezionati da un regista che ha conferito concretezza pittorica alla loro fragile evanescenza. Vedendo scorrere le immagini di questa pellicola, potremmo sorprenderci a sfogliare un diario d’artista: appunti e istantanee recentissime che nel loro insieme convergono paradossalmente a costituire una sorta di antologica. 

Rinsaldando la propria libertà d’artista, il suo essere viaggiatore instancabile e curioso – anche quando si è fermato stabilmente in una delle città nelle quali ha abitato – Claudio Di Carlo ci apre le porte su un immaginario senza tempo, ricco di latitudini sconosciute con le quali ci invita a familiarizzare. Il suo paesaggio politico percorre un’ampia parabola che va dall’ideale libertario alla realpolitik del tempo presente, con uno sguardo fieramente privo di conformismi e condizionamenti che vuole mantenere viva la propria indipendenza militante.

Tra il luccichio di questi frammenti, trovano immancabilmente spazio quegli attimi ravvicinati di un erotismo svelato e sotteso, dettagli di una sensualità sfrontata, ingigantita e venerata, mentre un autoritratto su tela, il centesimo lavoro in mostra, emerge dal passato, quasi a vigilare sul mantenimento di propositi mai dimenticati che troveranno un’eco nella performance inaugurale. 

Rivendicando la propria peculiare e disincantata modalità di essere artista, Claudio Di Carlo mette in atto un’affettuosa e ‘dolce’ resa dei conti con la propria città e con se stesso, raccontando in molteplici tappe la lunga esperienza di un viaggio non ancora concluso.

Claudio Di Carlo nasce a Pescara: pittore, produttore, art director, vive e lavora tra Amburgo, Pescara e Roma. La sua vita d’artista, di natura poliedrica, inizia a Pescara, negli anni ’70, e si dirama fra la comune di Ovada e le strade d’Europa. Arte, politica e poetica sono le sue linee guida: indipendente per vocazione. Punto di riferimento artistico la galleria “Convergenze” a Pescara diretta da Peppino D’Emilio, Claudio Di Carlo ha sempre posto il proprio sguardo sulle forme dello sconfinamento. È un artista proteiforme che ha attraversato la pluralità delle esperienze controculturali e artistiche degli anni Settanta e Ottanta. Cresciuto nell’humus dell’anarchismo etico-politico, si è occupato di musica underground e di teatro di ricerca. Ha progettato spazi culturali, creato gruppi di intervento artistici, spettacoli multimediali, prodotto gruppi rap/rock, inventato e organizzato Festival, happening e performance; si occupa anche di musica elettronica. Il suo lavoro spazia, dunque, dalla fondazione dei gruppi Punk-rock Koma e R.A.F. (Frazione Armata Rock) nel 1977 al suo recente “Omaggio a Rossini – Già la luna è in mezzo al mare”, lavoro esposto a Pesaro in Casa Rossini, alla musica elettronica del suo attuale gruppo “Hypervectorial System”, con il compositore Gabriel Maldonado. Le sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private in tutto il mondo e diversi sono i critici che seguono il suo lavoro. Dopo l’esperienza romana dell’Ice Badile Studio con 11 anni condivisi con gli artisti Daniela Papadia, Emilio Leofreddi, Andrea Orsini, Ivan Barlafante, torna a sperimentare la sopravvivenza dell’essere senza uno studio, fino al 2020 dove apre il kKstudio a Pescara. 


INFO

Claudio Di Carlo
Detto Fatto
mostra/installazione/happening
A cura di Maria Arcidiacono
Con: Andrea Buccella, Enrico Coppola, Francesco Di Matteo, Alessandro Gabini, Andrea Moscianese, Francesca Perti, Tony Renzi

Inaugurazione sabato 18 dicembre 2021 ore 18.00-21.00

GArt Gallery
Via Piero Gobetti 114 – Pescara
Tel. +39 349 7913885
info@gartgallery.it
www.gartgallery.it 


Fino al 15 gennaio 2022
Orari: dal lunedì al sabato ore 17:30-20:00

Ufficio Stampa 
Roberta Melasecca Melasecca PressOffice – Interno 14 next

roberta.melasecca@gmail.com
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IMMAGINE DI APERTURA – Locandina