Roma: OPEN BOX2-In memoria di te | Finissage e Presentazione catalogo

Domenica 13 febbraio 2022 alle ore 11.00, in occasione del finissage, verrà presentato il catalogo di OPEN BOX2 – In memoria di te, con le installazioni di Emilio Leofreddi, Giovanna Martinelli, Mauro Magni, Sandro Scarmiglia, Luca Valentino, a cura di AdA-Cultura e Francesca Perti. La seconda edizione di OPENBOX è stata ideata da AdA Associazione Amici dell’Aventino e promossa in collaborazione con il Municipio Roma I centro.

OPEN BOX2
In memoria di te

Installazioni di Emilio Leofreddi, Giovanna Martinelli, Mauro Magni, Sandro Scarmiglia, Luca Valentino

A cura di AdA-Cultura e Francesca Perti

Finissage e Presentazione catalogo
13 febbraio 2022 ore 11.00

Giardino di Sant’Alessio – Roma

In concomitanza con il centenario della nascita di Nino Manfredi, attore e illustre residente, che con il regista Luigi Magni strinse un proficuo sodalizio artistico e cinematografico, AdA vuole dedicare questa mostra, In memoria di te, agli illustri personaggi che sono vissuti o hanno lavorato all’Aventino e in particolare agli esponenti del cinema Italiano e ai quali la municipalità di Roma ha intitolato, sul colle Aventino, un giardino, dei viali e un belvedere nel parco Savello. Aventinenses, gli abitanti dell’Aventino. “Mescolando vicende leggendarie e memorie storiche, la storia dell’Aventino si snoda lungo ventotto secoli, durante i quali personalità celeberrime hanno lasciato il segno della loro esistenza e della loro operosità. A partire da Remo, che secondo la tradizione avrebbe scelto il colle per osservare il volo di sei avvoltoi che ne avrebbero decretato la sconfitta e la conseguente morte”. (dal testo di Daniela Gallavotti Cavallero)

Il progetto espositivo è incentrato sul dialogo tra la scultura contemporanea e gli spazi verdi adottati da AdA, e persegue le finalità statutarie dell’Associazione Amici dell’Aventino di custodia e valorizzazione dei luoghi dell’Aventino. Un progetto pilota che, in questi tempi di “chiusure e clausure”, dà il via alla trasformazione dei giardini dell’Aventino in gallerie d’arte all’aperto, in “open boxes”, e che vuole dare la possibilità ad artisti di esporre le proprie opere per un periodo limitato in un contesto paesaggistico e storico unico.

Mauro Magni, In memoria di te

Nel Giardino di Sant’Alessio, Mauro Magni dedica allo zio Luigi, In memoria di te: lettere scritte in negativo su fondo oro in un’installazione composta da 90 sampietrini di selce in forma di ∞, simbolo della ciclicità delle cose, della preziosità e della sacralità della memoria, che incita lo spettatore affinché faccia pratica “del ricordare”, per avere consapevolezza delle proprie origini, per affrontare al meglio il presente in prospettiva del futuro.

Giovanna Martinelli, Spunti di vista

Giovanna Martinelli con suoi Spunti di vista rende omaggio a G.B. Piranesi e alle uniche opere architettoniche da lui realizzate, ambedue sull’Aventino: la piazza dei Cavalieri di Malta e la chiesa di S. Maria del Priorato. Guardando attraverso i foro nei grandi rettangoli tridimensionali “disegnati” con scatolari in ferro, si ammira la Cupola di San Pietro isolata dal panorama circostante e l’immagine della Cupola realizzata da Piranesi in una delle sue “Vedute di Roma”. La Cupola delle Vedute estrapolata dal suo contesto narrativo diviene simbolo e icona.

Emilio Leofreddi, Touching the sky, istallazione

A Piazza Albina, Emilio Leofreddi invita a riunirsi intorno a Touching the sky, un tavolo lungo e stretto con sedie-tronco che si rispecchiano nel cielo. Secondo il Lieh Tzu, testo classico taoista: “il cielo e la terra non compiono tutta l’opera, l’uomo santo non ha tutte le capacità, le creature non hanno tutte le utilità”. L’opera di Leofreddi è come una corda tesa tra terra e cielo, materia e spirito, ci richiede il coraggio dell’equilibrista. Solo affidandoci alla corda possiamo scoprire fatti impercettibili, in equilibrio nel cielo, specchiandoci nell’immenso.

Sandro Scarmiglia, Animalia

Sandro Scarmiglia installa il suo Animalia, una presenza fiabesca, bianco come un fantasma, di forma triangolare con delle lunghe zampe da giraffa, sulla quale appoggia una stele che sembra la testa di Loch Ness. Una voluminosa scultura cherichiama, sia pure alla lontana, le famiglie di personaggi ameboidi e indeterminati di Tanguy. Parlare di mostro non sembra però il modo più opportuno di inquadrarlo. L’elemento distintivo è piuttosto l’ambiguità, ovvero l’impossibilità per chi guarda di stabilire con sicurezza con chi si ha a che fare

Luca Valentino, Presenze Provvisorie

Nel Giardino Romano Radici, Luca Valentino,con Presenze Provvisorie, realizza un’installazione che dialoga con la memoria e il presente: il monumento ai caduti si erge, in silenzio, in mezzo al vivace mosaico di persone che abitano la piazza. Il contrasto tra le due entità lo ha fatto riflettere sul tema della persistenza della memoria e su quello dell’assenza. Disegna sagome tracciate sul terreno a grandezza naturale e cita l’artista F.G. Torres, Portrait of Ross, 199: il vuoto lasciato da un corpo testimonia e perpetua il ricordo della sua presenza. Un ricordo effimero che, come tutte le cose, sparirà per poi mutare in qualcos’altro.


INFO

OPEN BOX2
In memoria di te
Promosso da: AdA, Municipio I.
Un progetto di: AdA-Cultura, Daniela Gallavotti Cavallero / Alessandro Olivieri / Mara van Wees
Opere di: Emilio Leofreddi, Giovanna Martinelli, Mauro Magni, Sandro Scarmiglia, Luca Valentino
A cura di: AdA-Cultura e Francesca Perti
Testi di Francesca Perti e di Daniela Gallavotti Cavallero

Inaugurazione 18 dicembre 2021 ore 11.00 Giardino di Sant’Alessio – Roma
La mostra prosegue a Piazza Albina e nel giardino Romano Radici – Roma
Ingresso libero

Giardino Sant’Alessio
Piazza Albina
Giardino Romano Radici
Roma

Fino al 13 febbraio 2022

Contatti
www.primomunicipioroma.com
www.aventino.org
info@aventino.org

Ufficio Stampa
Roberta Melasecca Melasecca PressOffice – Interno 14 next
info@melaseccapressoffice.itroberta.melasecca@gmail.com
3494945612
www.melaseccapressoffice.itwww.interno14next.it

IMMAGINE DI APERTURA – Locandina

Roma, Von Buren Contemporary – KAIROS. Mostra personale di Sofia Podestà

Domenica 13 febbraio 2022 dalle ore 16.00 Von Buren Contemporary presenta la mostra personale Kairos di Sofia Podestà, accompagnata da un testo di presentazione di Mia Ceran e da un testo critico di Luisa Grigoletto

KAIROS

Mostra personale di 
Sofia Podestà

Testo di presentazione di Mia Ceran
Testo critico di Luisa Grigoletto
Curatela e organizzazione di Michele von Büren 

Vernissage
domenica 13 febbraio 2022 dalle 16.00 alle 21.30

Von Buren Contemporary 
Via Giulia 13 – Roma 

Fino a martedì 8 marzo 2022

Il lavoro di Podestà (Roma, 1991), indaga principalmente la relazione dell’uomo con il paesaggio e spesso si concentra su scenari grandiosi, dove la natura regna in tutta la sua maestosità. Con Kairos, invece, il registro cambia: si tratta di una dimensione più delicata, quasi intimista, seppure le immagini appartengano a lavori precedenti, da cui sono state estrapolate. Ed è proprio nel lavoro di rilettura del proprio archivio che nasce questa nuova sequenza, che inanella 12 immagini, scattate tra 2016 e 2021, che spaziano tra la Marmolada e Cortina, tra l’Islanda, il Terminillo e Monte Livata. 

Alberi spogli, come intirizziti dal ghiaccio, boschi scuri e intricati, ricoperti da un manto di foglie cadute e dalla neve, coltri di foschia che accarezzano le rocce e celano le cime degli abeti, in un gioco a nascondino dove siamo lasciati a chiederci se la nebbia si stia alzando o stia calando, e a cercare di rispondere alla domanda di dove vada il vento quando non soffia. 

Podestà ci mostra una geografia delle piccole cose, dove la semplicità di un ramo caduto, in bilico su uno specchio d’acqua, si accompagna ad un accenno malinconico. Qui e là si intravedono sparute tracce della presenza umana, che la natura lentamente ricopre e cela: è solo una questione di tempo, è l’ordine del cosmo, che procede incurante degli affari umani. Nella calma imposta da forze maggiori, come in un bosco avvolto da un fitto manto di nebbia, Podestà ritorna sui suoi passi per trovare nuovi percorsi incentrati su contrasti soffusi, nati dall’accostamento di immagini originariamente concepite per ambiti diversi, e ci mostra piccole schegge di paesaggi silenziosi. 

… osservando le sue fotografie… ho rivissuto sensazioni che mi sembrava di aver provato, e non mi è più chiaro se quello dove mi sembra di essere già stata sia un luogo fisico o quello emotivo; perché Sofia Podestà li ha catturati entrambi.” (Mia Ceran)

Sofia Podestà è nata a Roma nel 1991. Si è laureata in Storia dell’Arte all’Università di Roma Tre con una tesi sui lavori di Luigi Ghirri, Guido Guidi e Vittore Fossati. Nel 2018 è stata selezionata per partecipare alla Summer School della SISF (Società Italiana per lo Studio della Fotografia) e al corso di Alta Formazione del Museo MAXXI di Roma. Nel 2019 ha ricevuto il premio Giovani Creativi riconosciuto ai dodici migliori creativi italiani under 30, partecipando ad una mostra successiva a Palazzo Massimo di Roma. Nel 2021 espone a Parigi per ImageNation Paris all’interno di Paris Photo Off e, al contempo, viene scelta dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione per svolgere una campagna fotografica volta alla valorizzazione di Basilicata, Calabria e Puglia. Viaggiando molto, Podestà è attratta da luoghi remoti e isolati apparentemente non toccati dall’umanità. L’enfasi su paesaggi drammatici e scenici con colori sorprendenti trasforma le sue potenti immagini in portali su un altro mondo, creando momenti di intensa contemplazione per il suo pubblico. Di recente, tuttavia, Podestà ha iniziato a esplorare un lato più “intimo” della fotografia di paesaggio, rinunciando ad orizzonti e skyline e utilizzando invece luce, illusione e geometria per aggiungere un elemento meditativo alle immagini in primo piano, ognuna delle quali diventa un delicato simbolo di un potere più potente appena fuori dall’inquadratura.

Questa mostra è stata appositamente scelta per celebrare il nuovo spazio della galleria in Via Giulia 13 e il suo cambio di nome, passando da RvB Arts a Von Buren Contemporary, in quanto fa parte della missione fondamentale della galleria di scovare e promuovere giovani, promettenti artisti.


INFO

KAIROS

Mostra personale di 

Sofia Podestà
Testo di presentazione di Mia Ceran

Testo critico di Luisa Grigoletto

Curatela e organizzazione di Michele von Büren 


Vernissage
domenica 13 febbraio 2022 dalle 16.00 alle 21.30

Fino a martedì 8 marzo 2022
Orari: 11:00-13:30 e 15:30-19:30; domenica e lunedì chiuso

Von Buren Contemporary 

Via Giulia 13 – Roma
+39 335 1633518
www.vonburencontemporary.com
info@vonburencontemporary.com
@vonburen.contemporary
Ufficio stampa
Roberta Melasecca_Interno 14 next/Melasecca PressOffice
roberta.melasecca@gmail.com
tel. 3494945612
cartella stampa su www.melaseccapressoffice.it

IMMAGINE DI APERTURA – Locandina

Rovigo, Palazzo Roverella – KANDINSKIJ. L’OPERA / 1900-1940

L’enigma Kandinskij non è ancora compiutamente disvelato. E l’ampia retrospettiva curata da Paolo Bolpagni e Evgenia Petrova, per il Roverella di Rovigo, punta ad approfondire, in modo autorevole, questa ricerca.
La grande mostra su Vasilij Kandinskij si potrà ammirare dal 26 febbraio al 26 giugno 2022, nella prestigiosa sede espositiva rodigina, per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, con la collaborazione del Comune di Rovigo.

26 Febbraio 2022 – 26 Giugno 2022
Rovigo, Palazzo Roverella

KANDINSKIJ.
L’OPERA / 1900-1940

Mostra a cura di Paolo Bolpagni e Evgenia Petrova
Promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in collaborazione con il Comune di Rovigo

Vasilij Kandinskij, Rider, 1909-1910. Collezione privata, Vienna

«Dopo alcune mostre mirate a porre in risalto singoli aspetti di Kandinskij, l’obiettivo di questo progetto è di aiutare a cogliere l’arco unitario del percorso dell’artista», anticipano i curatori. Ciò avverrà «individuandone le costanti che, dai primi anni del Novecento sino alla fine, innervano il suo modo personalissimo di dipingere: la ricerca di un’autenticità interiore, la volontà di creare un mondo visivo nuovo e libero, il riferimento alla musica, l’irrazionalismo spiritualistico e il legame con l’arte popolare russa e soprattutto con le espressioni creative dei popoli della Siberia, le cui tracce agiscono alla stregua di un fil rouge. La componente musicale e quella etnografica rivelano una comune radice spiritualistica».
Il tutto mentre, via via, si assiste al prender vita del graduale passaggio dalla figurazione all’astrazione, che si impone come chiave di volta di una delle rivoluzioni più radicali della pittura della prima metà del XX secolo.
Il contributo di Kandinskij alla creazione di una forma espressiva della pittura fondata su nuovi presupposti è enorme. Ma, sottolineano i curatori, «nonostante il grande lavoro storico-critico che, anche negli ultimi decenni, hanno compiuto molti studiosi, nell’analisi del suo percorso resta un che di enigmatico. Numerose furono le matrici da cui scaturì, con lenta gradualità, quel linguaggio artistico che ha sconvolto il Novecento: dal fortissimo potere di suggestione esercitato su Kandinskij dalla musica, alla conoscenza della cultura popolare contadina della Russia profonda; delle case, dei mobili e dei costumi variopinti con cui entrò in contatto durante una spedizione nel territorio della Vologda in Siberia».
Come questa mostra evidenzia, il fascino di Kandinskij sta anche nella sua imprendibilità, nello sfuggire a spiegazioni del tutto razionali. E l’obiettivo dell’esposizione pensata per il Roverella è di analizzare il costante mutare ed evolvere della sua arte evocativa e visionaria, anzitutto nel passaggio fondamentale dalla figurazione all’astrattismo, nella dialettica tra libertà espressiva e princìpi ordinatori.
Già l’elenco delle sezioni della grande mostra rodigina mette in chiaro la volontà dei curatori di analizzare con taglio originale la vicenda Kandinskij. Si prende avvio dagli esordi dell’artista, a Monaco di Baviera, per approfondire poi il suo approdo a Murnau e la scoperta dello “spirituale nell’arte”, per sfociare quindi nel magico momento del “Cavaliere azzurro” e della conquista dell’astrattismo (1911-1914). Poi il ritorno in Russia (1914-1921) e l’esperienza al Bauhaus (1922-1933), sino agli ultimi anni del Maestro in terra di Francia. Ovvero un percorso puntuale che entra nel vivo di tutti i momenti creativi della vicenda di Kandinskij, documentandola in mostra attraverso una sequenza di opere che, di questa qualità, difficilmente si sono potute ammirare in una mostra italiana su di lui. Opere concesse da musei russi, innanzitutto, ma anche da numerose istituzioni europee.


Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo

Media Relation
Alessandra Veronese – cell. 348 311 11 44 (riservato ai giornalisti)
Comunicazione
Roberto Fioretto – Responsabile ufficio Comunicazione – tel. 049 8234800
comunicazione@fondazionecariparo.it

Ufficio-stampa della mostra:
Studio ESSECI, Sergio Campagnolo – tel. 049.663499
Rif. Simone Raddi: simone@studioesseci.net

IMMAGINE DI APERTURA Vasilij Kandinskij, Destino (Il muro rosso) 1909, olio su tela 83 x 116 cm, Astrakhan, The P.M. Dogadin Astrakhan State Art Gallery, inv. AKГ-Ж-458

Capo di Ponte – UNO SGUARDO OLTRE LE ALPI. Materiali archeologici dal Museo Nazionale di Zurigo

Dal 12 febbraio al 29 maggio, il MUPRE – Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica propone un eccezionale nucleo di reperti archeologici concessi in prestito dal Museo Nazionale di Zurigo, riuniti in una preziosa esposizione intitolata “Uno sguardo oltre le Alpi”.

12 Febbraio 2022 – 29 Maggio 2022
Capo di Ponte, MUPRE-Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica

UNO SGUARDO OLTRE LE ALPI.

Materiali archeologici dal Museo Nazionale di Zurigo

Mostra a cura di Maria Giuseppina Ruggiero, Emanuela Daffra

Particolare della testa del toro in cui si può osservare la cura nella resta dei dettagli.
Ticino, Giubiasco (?). Tomba 262. IV sec. a.C. (?)

I reperti selezionati dall’importante istituzione elvetica sono armi, utensili, vasellame e oggetti di ornamento, collocati lungo un arco temporale che dal Neolitico giunge sino all’età del Ferro. Le testimonianze, di straordinaria qualità, offrono al visitatore la possibilità di immergersi in un viaggio nel tempo che mette a fuoco affinità e differenze, reti di commerci e scambi di prodotti ma anche circolazione di idee e iconografie.
Da villaggi palafitticoli neolitici giungono al MUPRE utensili, che hanno rispondenze con quanto raffigurato nelle incisioni rupestri della Valle Camonica. Di grande suggestione le placche di cintura in lamina di bronzo provenienti da sepolture femminili di VI e V sec. a.C., decorate con raffigurazioni simboliche che alludono al viaggio. Rimane ancora indecifrata l’iscrizione che compare su uno straordinario elmo dell’età del Ferro.
“Leggere questi reperti provenienti da scavi in Svizzera accanto alle coeve testimonianze della nostra Valle Camonica custodite al MUPRE dimostra, una volta di più – afferma Emanuela Daffra, Direttore regionale Musei Lombardia, istituto del Ministero della Cultura – come la cerchia alpina, con le sue alte vette, non fosse di impedimento alla circolazione di modelli, e di popolazioni, tra i due versanti. Ma suggerisce anche confronti stimolanti, che aiutano a completare le nostre conoscenze di quei periodi tanto lontani”.
“La concessione di questi preziosissimi reperti da parte del Museo Nazionale di Zurigo – sottolinea la direttrice del MUPRE Maria Giuseppina Ruggiero – è il frutto delle collaborazioni che il nostro museo sta instaurando con diverse istituzioni museali europee. All’interno di questa rete di rapporti, tre nostre stele sono state protagoniste a Zurigo della recente mostra “Uomini scolpiti nella pietra” dedicata alla diffusione in Europa, a partire da sei mila anni fa, di statue, statue-stele e massi-menhir attraverso i quali sono raccontati i profondi cambiamenti economici e sociali avvenuti tra il IV e il III millennio a.C. Immagini di uomini e donne della nuova élite che, dopo la morte, sono venerati come antenati e considerati eroi o anche divinità”.
Il MUPRE Museo Nazionale della Preistoria, ospitato nell’antico edificio di Villa Agostani nel centro storico di Capo di Ponte, integra, con l’esposizione dei reperti, il patrimonio di immagini incise sulle rocce e ricompone, in un insieme inscindibile, l’espressione identitaria della Valle Camonica.
La Valle Camonica è famosa in tutto il mondo per il suo straordinario complesso di raffigurazioni incise sulle rocce, in gran parte risalenti alla Preistoria. Se dunque è noto al vasto pubblico il patrimonio iconografico di queste antiche popolazioni, meno conosciuti sono gli aspetti del loro vivere quotidiano, emersi solo negli ultimi trenta anni grazie a numerosi interventi di archeologia preventiva e di ricerca condotti in Valle, da cui è sorto il Museo di Capo di Ponte.


Direzione regionale Musei Lombardia
Ufficio comunicazione e grafica
drm-lom.comunicazione@beniculturali.it

in collaborazione con:
Ufficio Stampa: STUDIO ESSECI – Sergio Campagnolo
Tel. 049 663499; www.studioesseci.net;
roberta@studioesseci.net, referente Roberta Barbaro

IMMAGINE DI APERTURA Le placche da cintura di forma fogliata erano un tipico ornamento dell’abbigliamento delle donne dei Leponti. Arbedo-Cerinasca, Tomba 93, V sec. a.C.

Al Palazzo Ducale di Genova – Una straordinaria mostra dedicata a Monet

CLAUDE MONET arriva a Genova. Dall’11 febbraio Palazzo Ducale ospiterà negli spazi del Munizioniere i capolavori del più importante rappresentate dell’Impressionismo. Tutti provenienti dal Musée Marmottan Monet di Parigi, i 50 capolavori in mostra rappresentano alcune delle punte di diamante della produzione artistica di Monet e raccontano l’intera parabola artistica del Maestro impressionista, letta attraverso le opere a cui Monet teneva di più, le “sue” opere, quelle che l’artista ha conservato gelosamente nella sua casa di Giverny fino alla morte, quelle da cui non ha mai voluto separarsi.

Dall’11 febbraio 2022 Palazzo Ducale di Genova ospiterà una straordinaria mostra dedicata a Monet, con cinquanta capolavori dell’artista più amato tra gli Impressionisti.

MONET
Capolavori dal

Musée Marmottan Monet di Parigi

11 febbraio – 22 maggio 2022
Palazzo Ducale, Genova

Claude Monet (1840-1926)
Lo stagno delle ninfee, 1917-1919 circa
Olio su tela, 130×120 cm
Parigi, Musée Marmottan Monet,
lascito Michel Monet, 1966
Inv. 5165
© Musée Marmottan Monet, Paris / Bridgeman Images

L’eccezionalità di questa mostra risiede nell’amore e nell’intimità che emanano le opere esposte, allestite in maniera del tutto inedita e suggestiva nelle varie sale del Munizioniere di Palazzo Ducale, luogo pieno di fascino che consentirà un viaggio del tutto nuovo nel mondo di Monet.

Nelle sue tele di luce evanescente, Monet ha sempre unito il suo amore per la natura con l’arte e, facendo del pennello una propaggine della sua mano, ha creato e riprodotto giardini ovunque abbia vissuto. Sebbene trascorresse molto del suo tempo a Parigi e viaggiasse molto in Francia e all’estero, Monet preferì la campagna e visse per più di cinquant’anni lungo la Senna, accrescendo sempre più il suo interesse per il giardinaggio, per le aiuole che allietavano le sue prime case ad Argenteuil e per i suoi magnifici giardini a Giverny, che divennero un piacere per gli occhi, un luogo rilassante per contemplare la natura e fonte di ispirazione.

Proprio Giverny, la sua casa dopo il 1883, può essere considerata come il luogo di consapevolezza e rinascita per lo stesso artista; una sequenza di nuovi elementi dettati da una brillante innovazione formale, geografica e di ricerca stilistica che lo ha portato a interessarsi sempre di più soggetti impregnati di nuova lirica e colori vivaci.

Ad accogliere il pubblico come in un onirico giardino lussureggiante, appositamente creato, ci saranno opere come le sue amatissime e iconiche Ninfee (1916-1919 ca.), Iris (1924-1925 ca.), Emerocallidi (1914-1917 ca.), Salice piangente (1918-1919 ca.), le varie versioni de Il ponte giapponese e la sua ultima e magica opera Le rose (1925-1926 ca.).

Ma non solo. Verdeggianti salici piangenti, viali di rose e solitari ponticelli giapponesi dai colori impalpabili fanno da cornice a una natura ritratta in ogni suo più sfuggente attimo, variazione di luce, tempo o stagione.

Promossa dal Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, prodotta e organizzata da Arthemisia e in collaborazione con il Musée Marmottan Monet di Parigi, la mostra è curata da Marianne Mathieu, studiosa di Monet e direttrice scientifica dello stesso museo parigino.

Il Musée Marmottan Monet – il cui vastissimo patrimonio artistico è raccontato nel percorso della mostra – possiede il nucleo più grande al mondo di opere di Monet, frutto di una generosa donazione di Michel, suo figlio, avvenuta nel 1966 verso il museo parigino – che prenderà proprio il nome di “Marmottan Monet”.


Sito
www.palazzoducale.genova.it
www.monetgenova.it

Orario apertura
Lunedì dalle ore 11,00 alle ore 19,00
Martedì, mercoledì, giovedì dalle ore 9,00 alle ore 19,00
Venerdì dalle ore 9.00 alle ore 21.00
Sabato e domenica dalle ore 10,00 alle ore 19,00
La biglietteria chiude 1 h prima

Biglietti
Intero
€ 15,00 Audioguida inclusa
Ridotto € 13,00 Audioguida inclusa

Informazioni e prenotazioni scuole
T. +39 010 8171604
prenotazioniscuole@palazzoducale.genova.it
didattica@palazzoducale.genova.it

Informazioni e prenotazioni gruppi adulti
T. +39 010 986391

Hashtag ufficiale
#MonetGenova

Uffici Stampa
Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura

Camilla Talfani | ctalfani@palazzoducale.genova.it
T.+39 0108171612 | M. +39 335 7316687

Arthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it | M. +39 392 4325883
press@arthemsia.it | T. +39 06 69308306

Bologna: THE MAST COLLECTION – Un alfabeto visivo dell’industria, del lavoro e della tecnologia

È la prima grande esposizione di opere della Collezione della Fondazione: oltre 500 immagini tra fotografie, album, video di 200 grandi fotografi italiani e internazionali e artisti anonimi.

THE MAST COLLECTION
Un alfabeto visivo dell’industria, del lavoro e della tecnologia

10 febbraio – 22 maggio 2022
FONDAZIONE MAST
via Speranza 42, Bologna
www.mast.org

RUTH HALLENSLEBEN
Carbone e carburante sul Rhein-Herne-Kanal a Gelsenkirchen, 1995
© Ruth Hallensleben Archive, courtesy of Anton Laska

La Collezione della Fondazione MAST, unico centro di riferimento al mondo di fotografia dell’industria e del lavoro, conta più di 6000 immagini e video di celebri artisti e maestri dell’obiettivo, oltre ad una vasta selezione di album fotografici di autori sconosciuti.

Nei primi anni 2000 la Fondazione MAST ha creato questo spazio appositamente dedicato alla fotografia dell’industria e del lavoro con l’acquisizione di immagini da case d’asta, collezioni private, gallerie d’arte, fotografi ed artisti. Il patrimonio della Fondazione, che già conteneva un fondo che raccoglieva filmati, negativi su vetro e su pellicola, fotografie, album, cataloghi che negli stabilimenti di Coesia venivano prodotti fin dai primi del ‘900, si è così arricchito ed andato al di là dei parametri di materiale promozionale e documentaristico delle imprese del Gruppo industriale. La raccolta abbraccia opere del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo con un processo di selezione valoriale e un accurato approccio metodologico a cura di Urs Stahel.

The MAST Collection – A Visual Alphabet of lndustry, Work and Technology”, curata da Urs Stahel, è la prima esposizione di opere selezionate dalla collezione della Fondazione: oltre 500 immagini tra fotografie, album, video di 200 grandi fotografi italiani e internazionali e artisti anonimi, che occupano tutte le aree espositive del MAST. Immagini iconiche di autori famosi da tutto il mondo, fotografi meno noti o sconosciuti, artisti finalisti del MAST Photography Grant on lndustry and Work, che testimoniano visivamente la storia del mondo industriale e del lavoro.

Tra gli artisti in mostra: Paola Agosti, Richard Avedon, Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Margaret Bourke-White, Henri Cartier-Bresson, Thomas Demand, Robert Doisneau, Walker Evans, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Mimmo Jodice, André Kertesz, Josef Koudelka, Dorotohea Lange, Erich Lessing, Herbert List, David Lynch, Don McCullin, Nino Migliori, Tina Modotti, Ugo Mulas, Vik Muniz, Walter Niedermayr, Helga Paris, Thomas Ruff, Sebastiao Salgado, August Sanders, W. Eugene Smith, Edward Steichen, Thomas Struth, Carlo Valsecchi, Edward Weston.

La mostra, proprio per la sua complessità, è strutturata in 53 capitoli dedicata ad altrettanti concetti illustrati nelle opere rappresentate. La forma espositiva è quella di un alfabeto che si snoda sulle pareti dei tre spazi espositivi (PhotoGallery, Foyer e Livello O) e che permette di mettere in rilievo un sistema concettuale che dalla A di Abandoned e Architecture arriva fino alla W di Waste, Water, Wealth.

“L’alfabeto nasce per mettere insieme incroci tra lo sguardo lontano e quello vicino, testi e momenti dello scatto, portando I’attenzione all’interno delle opere – spiega il curatore, Urs Stahel -. Lo stesso accade con le immagini e i fotografi coinvolti.

Questi 53 capitoli rappresentano altrettante isole tematiche nelle quali convivono vecchi e giovani, ricchi e poveri, sani e malati, aree industriali o villaggi operai. Costituiscono il punto di incontro delle percezioni, degli atteggiamenti e dei progetti più disparati. La fotografia documentaria incontra l’arte concettuale, gli antichi processi di sviluppo e di stampa su diverse tipologie di carta fotografica, come le stampe all’albumina, si confrontano con le ultime novità in fatto di stampe digitali e inkjet; le immagini dominate dal bianco e nero più profondo si affiancano a rappresentazioni visive dai colori vivaci. I paesaggi cupi caratteristici dell’industria pesante contrastano con gli scintillanti impianti high-tech, il duro lavoro manuale e la maestria artigianale trovano il loro contrappunto negli universi digitali, nell’elaborazione automatizzata dei dati. Alle manifestazioni di protesta contro il mercato e il crac finanziario si affiancano le testimonianze visive del fenomeno migratorio e del lavoro d’ufficio”.

Sul piano della scansione cronologica solo il XIX secolo è stato affrontato separatamente in una sezione dedicata alle fasi iniziali dell’industrializzazione e della storia della fotografia. Il filo conduttore è spesso costellato dai numerosi ritratti di lavoratori, dirigenti, disoccupati, persone in cerca di lavoro e migranti. “Il parallelismo tra industria, mezzo fotografico e modernità – prosegue Urs Stahel – produce a tratti un effetto che può disorientare. La fotografia è figlia dell’industrializzazione e al tempo stesso ne rappresenta il documento visivo più incisivo, fondendo in sé memoria e commento”.

La mostra documenta inoltre il progresso tecnologico e lo sforzo analogico sia del settore industriale sia della fotografia, rappresentato oggi dai dispositivi digitali ultra leggeri, in perenne connessione, capaci di documentare, stampare e condividere il mondo in immagini digitali e stampe 3D. Dall’industria, dalla fotografia e dalla modernità si passa all’alta tecnologia, alle reti generative delle immagini e alla post-post­ modernità, ovvero a una sorta di contemporaneità 4.0. Dalla semplice copia della realtà alle immagini generate dall’intelligenza artificiale.

La mostra “The MAST Collection – A Visual Alphabet of lndustry, Work and Technology” condensa gli ultimi 200 anni di storia ricchi, folli, intensi, esplosivi in più di 500 opere che raccontano della nostra quotidianità.


FONDAZIONE MAST
via Speranza 42, Bologna
www.mast.org

THE MAST COLLECTION
A Visual Alphabet on lndustry, Work and Technology
10 febbraio – 22 maggio 2022

Ingresso gratuito
Martedì – Domenica 10 – 19

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IMMAGINE DI APERTURA FLORIAN MAIER-AICHEN Senza titolo, 2007 © Florian Maier-Aichen, courtesy of the artist and Blum & Poe, Los Angeles/New York/Tokyo

Sopra la mia testa. Sotto i miei piedi – Il problema dello spazio e dell’oggetto nel cinema di La Pietra

Si apre oggi 10 febbraio 2022 il progetto Ovunque a casa propria, primo approfondimento espositivo sulla ricerca cinematografica e sulle sperimentazioni audiovisive di Ugo La Pietra, instancabile sperimentatore della percezione visiva. In mostra anche le videoinstallazioni contemporanee di Lucio La Pietra. Il progetto, a cura di Manuel Canelles, è promosso da Spazio5 artecontemporanea e realizzato in collaborazione con TreviLab, Unibz, Liceo Artistico Pascoli, Bolzano Officine Vispa, Vintola18 Centro di cultura giovanile Cineclub Bolzano, Spazio Macello – Meta, con il sostegno della Ripartizione cultura italiana della Provincia di Bolzano, del Comune di Bolzano e della Libera Università di Bolzano.

Ugo La Pietra
Ovunque a casa propria Film e video 1973/2015

A cura di Manuel Canelles

Inaugurazione 10 febbraio 2022 ore 18.00 Centro Trevi
Via dei Cappuccini 28 – Bolzano

Fino al 20 marzo 2022

Ugo La Pietra. Conversazione con Manuel Canelles
LA MOSTRA

Sopra la mia testa. Sotto i miei piedi
Il problema dello spazio e dell’oggetto nel cinema di La Pietra

Testo critico Manuel Canelles

0.

L’enciclopedia della nostra storia suggerisce di confrontarsi con i diversi significati di spazio, da quello fisico della nostra esperienza a quello del ricordo e della narrazione, dallo spazio fantastico a quello topologico delle matematiche, (1) dove appunto concetti fondamentali come convergenza, limite, continuità trovano la loro migliore formalizzazione (2). L’utilizzo del codice audiovisivo permette a La Pietra di affrontare la componente psicologica delle architetture, il tema della retorica degli elementi imposti e quello della loro memoria. E la parte più profonda di questa si misura nel sottile incontro con le esperienze possibili della spazialità, in una complessa oscillazione tra la dimensione utopica e quella reale del quotidiano. Ha ragione Barthes quando, parlando di fotografia, sostiene che “l’impossibilità di definire è un buon sintomo di turbamento” (3) e che ciò che veramente ci attrae non è sovrapponibile immediatamente a ciò che vediamo ma anzi, si può manifestare in un periodo successivo durante l’incontro misterioso e profondo di queste due spazialità. Nelle sue azioni dettate in forma di proclama – ne discutiamo dopo – La Pietra sembra ricordarci quanto sia opportuno tenere presente il rapporto condizionante dello spazio sull’individuo e dunque progettare spazi non ancora visibili che appartengono alla memoria personale. Non solo, egli scompone l’idea stessa di oggetto, ne modifica l’aspetto percettivo, ne muta il contesto spaziale, conferendo incertezza epistemologica (e destabilizzandone la funzionalità) a elementi la cui modalità di utilizzo il sistema sembra già aver protocollato. Sappiamo che Ugo La Pietra non ama essere definito, le definizioni presuppongono un modello di iscrizione, una firma in calce che il sistema se non impone per lo meno raccomanda, d’altronde il problema della determinatezza del ruolo è già un problema politico; egli preferisce dunque assumere quello di “ricercatore nelle arti visive” ma per comprendere il rapporto tra la nostra esperienza e lo spazio abitabile, egli di fatto riveste il posto anche di mediatore costruendo un punto di osservazione lucido, una vedetta da cui poter scorgere particolari significativi, che permetta al vocabolario semiotico di comprendere le immagini e i segni presenti. La sua ricerca cinematografica è uno studio sul rapporto instabile tra spazio visivo e spazio vissuto; una ricerca del presente orientata verso il futuro che approfondisce la condizione della transitorietà nella fissità del segno permettendo che la visione di fronte ad uno stesso oggetto non sia mai la stessa e non possa mai essere definita.

1.

La Pietra è “un costruttore di modelli, un toolsmaker che negli anni Settanta si trova ad operare alle soglie di quella che è stata definita società dell’informazione, con la sua morfologia a rete e il controllo come dispositivo di potere” (4); egli traduce l’azione in bisogno e lo decodifica attraverso la sinestesia dei linguaggi espressivi in una dimensione di sarcastico sfondamento, di lirica possibilità di protesta. La grandezza contenuta nei suoi lavori cinematografici sta nella capacità di saper cogliere gli stereotipi demagogici della propaganda di potere (industriale, politico, estetico, culturale) lasciando – come un moderno Charlie Chaplin – che la carica parodistica del racconto sgorghi spontaneamente. È però anche un lavoro per sottrazione (anche e soprattutto dalle dinamiche del mondo dell’arte) che per mezzo di una cifra antinomica sembra quasi voler boicottare la propria stessa funzione, ogni fotogramma di un suo film è atto anarchico, un frammento lirico calato nell’occupazione dove gli incontri tra la geografia della mente e lo spazio fisico si incontrano agli angoli di un possibile non ancora realizzato (o che mai lo sarà). Forse La Pietra non realizza film, egli in realtà concepisce un meta-progetto complesso formato da atti teatrali declinati in stasimi antropologici attraverso un procedimento ideativo radicale che fa saltare i tempi e i criteri di riferimento e che al contempo permette al reale di diventare metafisico pur in un costrutto materialista. Nonostante questo egli mantiene l’ancoraggio ai procedimenti formali del cinema, non è in discussione l’utilizzo del linguaggio ma ogni elemento in scena (La Riappropriazione della città; La Grande Occasione) conserva il proprio statuto di macchina senziente, esponendosi a una continua ridefinizione. È una dualità che dà origine a un processo sintetico (e sinestetico) tra la struttura e l’inatteso, aprendo una discussione ontologica riguardo all’identità stessa del fare cinema.

2.

Possiamo capire molte più cose di un sistema se ci concentriamo su modelli di relazione tra le parti piuttosto che sulle parti stesse come entità isolate secondo l’assunto per cui “ogni essere contiene in sé stesso la totalità del mondo intelligibile, di conseguenza, la totalità è ovunque; ciascuno è questa totalità e la totalità è ciascuno. L’uomo, tale qual è ora, ha cessato d’essere la totalità ma non appena cessa d’essere una persona distinta, egli s’eleva e penetra nella totalità del mondo.” (5)

Gli interventi cinematografici di Ugo La Pietra partecipano alla trasformazione del paesaggio, rideterminando la geografia e l’immaginario dei luoghi indagati e percorsi (quasi fossero oggetti disfunzionali) in un rapporto sincretico con l’azione creativa dello spazio urbano/ domestico e la forza del nostro immaginario. L’esperienza di fruizione avviene sotto i nostri occhi come un racconto che risolve se stesso, in una sorta di autoregolazione che si realizza man mano che il sistema si evolve (6) ma allo stesso tempo interviene l’atlante delle nostre esperienze, con presagi, sogni e desideri intermedi. Come non collegare ad esempio le tensioni nel film La Grande Occasione con quelle espresse nel Il desiderio dell’oggetto, serie di schede in cui persone di ogni estrazione sociale forniscono un ritratto fotografico e una foto degli interni della propria casa, enunciando quali sono gli oggetti con cui vorrebbero arredarla? Nel contesto di questi desideri in tensione (e dunque di realtà possibili e ipotetiche) prende forma il racconto orale di La Pietra. L’aedo che pur si diverte a mostrarsi cieco in realtà ci vede benissimo, gioca beffardo con la semantica, isola accuratamente i significanti manipolandone i segnali morfologici (Il Monumentalismo o Spazio reale Spazio virtuale). Il suo cinema è una composizione radicale tra immagine, corpo e parola in una sorta di autoritratto collettivo, un flusso di coscienza iperdidascalico che accompagna il fruitore oltre i codici espressivi utilizzati, quasi in una sorte di trance extralinguistica (La mia memoria; La Grande Occasione; La ricerca della mia identità).

E qui entra in gioco un fenomeno che ha sempre un po’ a che fare con il mondo antico, quando si cita il mito d’altronde stiamo sempre parlando anche di identità e memoria, di archeologia dell’umano, di quelle stratificazioni che poi, scavando, intercettano il mondo della coscienza, l’ecologia profonda non sempre deve scendere a patti con il fenomeno religioso.

O forse semplicemente ognuno timbra il biglietto per sentire ciò di cui ha bisogno e cerca un significato di prossimità. Entriamo nel campo dei desiderio, appunto. Come sostiene Locke, “una persona è la medesima se la medesima coscienza unifica tutti gli stati mentali. Dato che la coscienza è coscienza di esperienze diverse, l’identità personale dipende dalla memoria che permette di ricordarci tutte le esperienze passate unificandole e facendo sì che ciascuno di noi possa riconoscerle come proprie.” (7)

Il progettista agisce in scena con la consapevolezza di essere alla ricerca di qualcosa di vivo e in continua trasformazione, quasi il tentativo di riprodurre ciò che non è più visibile:

la vita ovvero il sé. O forse una perenne nostalgia dell’infanzia perduta. Un gioco molto serio, appunto, dove ritornare all’infanzia corrisponde forse a un cammino a ritroso verso il destrutturale, il non ancora formato, la linfa è forse la stessa delle fiabe epiche da cui viene mutata la struttura circolare o piuttosto una cifra onirica, transeunte, ipnotica.

Un universo più profondo ci attende fuori campo, forse nei fotogrammi scartati della memoria o dei desideri non ancora realizzati (o nemmeno pensati). Si potrebbe facilmente sostenere che La Pietra, nelle narrazioni dei suoi film, espone un continuo emendamento di opposizione, continuando a permettere la continuità del sogno ma evitando che questo al contempo diventi monumento (dunque permanente nel presente), nostalgia (dunque permanente nel passato) o rimpianto (dunque permanente nel non realizzato).

3.

Il cinema diventa dunque “un mezzo indispensabile per analizzare e decodificare l’ambiente, registrare le tracce di un’attività originale, smontare e rimontare i topoi dell’architettura urbana, realizzare indicazioni di comportamento capaci di dar vita alla propria città.” (8) Io aggiungerei: cercando il più possibile di alleggerire tale ambiente da quegli elementi di blocco che storicamente lo definiscono e al contempo problematizzano il concetto stesso di sistema di progettazione, quell’insieme di elementi (oggetti, fenomeni, materiali, strumenti, processi…) ordinati, organicamente classificati e relazionati secondo leggi precise.

Per approfondire questo pensiero, partirei dalle parole dello stesso La Pietra il quale afferma che “la ricognizione su un luogo o un territorio, l’indagine su un comportamento, un individuo o un gruppo sociale possono assumere una dimensione estetica estremamente rilevante in virtù delle sovrapposizioni di diversi fattori sociali e culturali che hanno contribuito a trasformarli.” (9)

Lo schema di comportamento delle forze osservate è più complesso se implica uno scambio reciproco tra l’oggetto e l’ambiente, e si rende manifesto nella condotta motoria della macchina da presa che ritrae un invisibile sé. Ed è infatti in questo contesto che la parola ambiente si carica di significato, la sua etimologia (part. pres di ambire) è intesa al plurale come “luoghi o persone in mezzo ai quali si vive” (10); non solo dunque architettura come luogo abitabile, ma anche (e forse prima di ogni altra cosa) come spazio collettivo, condiviso, comune.

E infatti nonostante i suoi ambienti siano spesso deserti (quasi da genere western) Ugo La Pietra considera sempre la possibilità che l’azione si tras/formi (o per/formi) all’interno di una placenta collettiva. Configurare l’ambiente urbano rendendolo abitabile, d’altronde, è uno dei compiti dell’operatore estetico, del creativo che dovrebbe aiutare le altre persone a riattivare un rapporto con l’ambiente in cui vivono.

È in questo territorio condiviso (e talmente ridefinito da divenire astratto e scomporsi in volumi percettivi soggettivi) il cinema può rivolgersi all’umanità intera attraversando qualsiasi struttura sociale e relazionale. Ugo La Pietra ci accompagna, le sue gambe a ben vedere non sono mai stanche, d’altronde il processo di montaggio e postproduzione è strutturalmente interconnesso al processo dell’acting, anzi quasi senza soluzione di continuità il suo cinema è un progetto a corpo unico che ci spinge verso il luogo dove non potemmo arrivare.

La relazione con lo spettatore è essa stessa atto artistico nel contesto del quale dichiarare la propria responsabilità. Responsabilità la quale ammette sempre un rischio (o forse è l’idea stessa di relazione a presupporre comunque un rischio?) Ugo La Pietra entra in relazione con lo spettatore, agevola l’osservazione di ciò che quest’ultimo non è più abituato a vedere; rende visibile l’invisibile e riparte da quello spazio vuoto privo di risposte generiche, moralistiche e codificate.

4.

Come fruitori dei suoi film siamo chiamati a sospendere l’impulso a teorizzare ed entrare il più possibile nella percezione del fenomeno offerto allo sguardo; il rapporto tra queste spazialità si manifesta senza preconcetti permettendo ai dettagli di confluire nella nostra immaginazione. È il momento in cui può aver luogo quello che Aristotele descrive come è il liberatorio distacco dalle passioni tramite le forti vicende rappresentate sulla scena (11). La predisposizione di un itinerario di fruizione specificatamente realizzato e con esso un’adeguata segnaletica anticipano il passaggio ad un sistema di fruizione collettiva (tratto fondante nella poetica di La Pietra) che di fatto permette al fenomeno della catarsi di oggettivarsi in forma pubblica e sociale trasformandosi – sempre mediante il processo dell’immagine – da atto individuale a processo di purificazione comune. E questo è possibile perché il suo cinema, a parte non essere certo e definibile, è ontologicamente instabile. E negli interstizi di questa precarietà il significante e il significato intercettano microcosmi, spazi quasi impercettibili della vicenda umana spaesata, quella che si carica di un desiderio o che scava sulle ragioni profonde del progettare o (c’è differenza?) dell’abitare. Narrando se stesso come un antieroe spaesato, Ugo La Pietra autodenuncia beffardo il proprio atto creativo. C’è qualcosa di epico in quelle immagini, accade davvero qualcosa di forte sulla scena se quel cowboy con baffi e cappello problematizza burlescamente il tema della libertà personale di fronte alla struttura rigida di un sistema. Poco importa se poi parla di se stesso. Egli aziona ambienti disequilibranti che offrono la possibilità di comprendere (o per lo meno riconsiderare) il nostro approccio alla manifestazione estetica, alla relazione con l’alterità, e ricalibrare quei fenomeni che sottendono all’idea di spazio come attesa, architettura e oggetto come emblemi di ascolto. Senza i quali, ci piace pensare non potrebbe esserci partecipazione. Dunque azione sociale o pensiero politico.

5.

Il suo cinema è dunque una sorta di installazione site specific, protesi e al contempo approfondimento della sua ricerca (Arte nel sociale, 1976/79; Riconversione progettuale / Interventi pubblici per la città di Milano, Paletti e catene, 1979) su spazi possibili ma non ancora progettati, una fotografia di oggetti/attrezzature/arredi che permeano il nostro quotidiano. Egli li riprogetta stravolgendo la loro destinazione. Il tema dello scollamento dell’oggetto (o dell’architettura) dalle gerarchie sociali prefinite è presente anche nel suo cinema; egli non scardina l’identità degli spazi o degli oggetti in esso contenuti ma tenta di promuovere quelle attività che accettano più soluzioni, tutte ugualmente plausibili, offrendo occasioni di confronto tra diversi percorsi alternativi.

Essendo strutturalmente collegato alla sua ricerca visiva, il suo progetto cinematografico è dunque anche un’indagine sull’idea stessa di design e non solo perché il primo impulso all’utilizzo di questo mezzo espressivo è riconducibile al tema della negazione dell’oggetto stesso, al cinema come anti-design, forma di opposizione al sistema industriale e rifiuto della riduzione dell’arte a chirurgia plastica ma anche in quanto i suoi film complicano il concetto stesso di oggetto nello spazio.

Egli si trova ad operare alle soglie di quella che è stata definita società dell’informazione, con la sua morfologia “a rete” e il “controllo” come dispositivo di potere, dunque modifica il sistema dei caratteri che definiscono lo spazio e, aspetto forse più rilevante, che circoscrivono il suo utilizzo. Ci sono ad esempio proprietà della forma che entrano in gioco nella percezione comune, quando si riconosce o non si riconosce un oggetto o un arredo urbano/domestico per quello che è o come appartenente al suo genere.

È evidente in Interventi pubblici per la città di Milano (1979) quando non solo ironizza sulle mancate operazioni di trasformazione dello spazio urbano, ma nella misura in cui forza elementi come “paletti e catene” (descrivendoli come segnali provvisori di un’ipotetica trasformazione della città) offre loro un’occasione per manifestare intimi poteri e di rivolgersi contro l’uomo.

Ma allo stesso tempo – pur nel sarcasmo tecnico del montaggio e della satira del contenuto – egli nel docufilm La casa telematica (1983) propone un riscatto del processo informativo. Da un sistema di recezione continua arelazionale dei dati, imposta dal sistema e acquisita acriticamente dalla massa (impossibile non collegarci ai suoi dispositivi di design esposti alla Fiera di Milano del 1983 (12), può innestarsi una grande trasformazione e un’ipotesi di futuro di libertà. Gli strumenti che noi abbiamo e avremo – dichiara La Pietra – sono strumenti che consentono un’elaborazione e una messa in circuito di messaggi che ognuno di noi potrà liberamente elaborare.

L’architetto e il designer riflettono insieme, l’oggetto è ridefinito in quanto può essere ridefinito in potenza anche il contesto in cui è collocato. Sino a che oggetti come scarpe, paletti, dissuasori, cavi elettrici, segnali, strisce pedonali, semafori, televisori, impianti radio, apparecchiature high-tech… conservano la loro identità?

Non si possono formulare regole o criteri generali poiché il numero e la differenziazione dei livelli di interpretazione dipende dalla posizione assunta dall’osservatore (Per oggi basta!, 1974), il problema posto è spiazzante “perché propone una prospettiva insolita con la quale considerare cose note. O richiede l’esplorazione di trame concettuali estranee alle conoscenze normalmente usate, provocando uno spiazzamento cognitivo che scuote le abitudini di pensiero costituite e obbliga ad una ricerca più creativa, libera e coraggiosa.” (13)

6.

L’antitesi semiologica nel suo lavoro è costante, egli è talmente presente in scena che trascende se stesso. La sua fisicità diventa manifesto ontologico, quasi un progetto di rivista in movimento, che va a ripescare all’intensa attività di ricerca e di divulgazione intorno ai temi del rinnovamento delle discipline artistiche in rapporto alle aspirazioni delle nuove generazioni (14), dirigendo programmi editoriali quali Inpiù, BreraFlash, Fascicolo, Area, Abitare con Arte, Artigianato tra Arte e Design.

Il problema è il rapporto tra pratica artistica, politica, laddove probabilmente solo la prima possiede la reale capacità di intercettare i bisogni invisibili dell’uomo, anticiparne le urgenze e leggere la realtà con occhi non compromessi, anche se talvolta con l’ausilio di pratiche decostruite e non trasferibili.

Il potere della ricerca artistica permette che essa possa sostituirsi (o sovrapporsi) a molte prassi scientifiche sociologiche, risaltando fenomeni collettivi, adottando protocolli di ricerca, intervenendo direttamente sulle emergenze, senza dover attendere permessi, delibere, autorizzazioni. Lo sa bene La Pietra che alla stregua di un direttore di una rivista (o appunto ancor meglio del regista) conduce e scompare come un puntino di un videogioco astratto agli albori del gaming, si posiziona centuplicato tra utopia, sarcasmo e disincanto facendosi portavoce e veicolo di istanze sociali, talvolta politiche, che si pongono l’obiettivo di destabilizzare le coscienze o destrutturare il pensiero collettivo (a volte ci si può semmai domandare se questo perché sociale corrisponda a un perché individuale) ponendo attenzione ai comportamenti delle persone e alle loro relazioni con l’ambiente e con lo spazio.

Ma per scomparire, egli deve abilmente controllare il gioco della trasformazione nello spazio in una dialettica continua sui corpi e sulla possibilità che l’arte possa ritrovare un equilibrio tra il reale e l’ideale. E per fare questo egli deve faticare, spostare continuamente l’attenzione ai bordi di un ipotetico immaginario collettivo e originare un’esperienza che sfida qualsiasi analisi; deve per forza smettere i panni dell’artista, del designer, dell’architetto e del musicista, proponendosi come intermediario tra il mondo omologato e sistemico e l’inverso generativo e antiretorico. Diventa egli stesso spettatore in scena accompagnandoci dietro le quinte dei suoi concept; forse diventiamo anche noi viaggiatori adottando con lui una strategia di passeggio indeterminato che ci porta a muoverci in maniera casuale all’interno di più territori (La Grande Occasione, La riappropriazione della città; La mia memoria). Questo lasciarsi andare alle sollecitazioni del terreno diventa uno studio per l’elaborazione di una cartografia non convenzionale. Il suo corpo/voce diventa ipnotico e si trasforma in un racconto in forma di proclama; ci possiamo ritrovare, paradossalmente, in un regno in cui le parole non esistono.

7.

“Abitare è essere comunque in casa propria, è uno slogan che esprime già un modo concettuale ma molto evocativo il senso dell’abitare che non è soltanto appannaggio dello spazio domestico ma anche dello spazio pubblico. Quindi, c’è una grande differenza tra abitare e usare lo spazio: si usa la camera d’albergo, si abita lo spazio domestico. Abitare vuol dire dare significato, espandere la propria personalità; è in questo senso che ho sviluppato negli anni ambienti, oggetti, segni: per fornire strumenti utili alla riappropriazione dell’ambiente pubblico sia dal punto di vista mentale che fisico.” (15)

Ugo La Pietra chiarifica e definisce il rapporto “individuo-ambiente”, realizzando strumenti di conoscenza e modelli di comprensione tendenti a trasformare il tradizionale rapporto “opera-spettatore”; attiva una relazione con la memoria dei luoghi e con quella degli abitanti, nel tentativo di abbracciare il territorio e costruire linee di pace, istituendo con esso forme di conoscenza e di scambio, evocando un delicato equilibrio tra il lungo tempo della materia degli abitati, delle architetture, dei tracciati di risulta) e quello rapido del pensiero.

Il suo meta/progetto cinematografico è dunque una scomposizione di tracce ed elementi visivi che sembrano assumere (perché intanto sono già diventati personaggi) l’atteggiamento riservato di chi presenta se stesso per la prima volta; sono indizi, segni appartati, sono sottili fuoricampo come se l’immagine del paesaggio domestico e quello urbano proiettasse – attraverso di essi – il desiderio al di là di ciò che essa dà a vedere nell’immediato.

I diversi gradi integrati di utilizzo del paesaggio rendono il processo di risignificazione un dialogo a più voci per cogliere le trasformazioni che attraversano e disegnano i territori, come sono e come potranno essere contribuendo a costruire un paesaggio narrativo, luogo del presente e del futuro.

La ricerca di La Pietra trascina lo spettatore fuori dalla cornice abituale dell’itinerario stabilito; la molteplicità delle spazialità sposta il proprio sguardo oltre il valore intrinseco dei modelli acquisiti e si apre all’azione quotidiana, il mestiere, il gioco, il riposo, il lavoro. Allora in questo senso possiamo affermare – estendendo la linea del pensiero – di essere di fronte al tentativo di rinnovare l’iconografia del paesaggio ma contemporaneamente allacciare l’archetipo della memoria all’utilizzo quotidiano del tempo.

1 Socco C., Lo spazio come paesaggio, in “Versus. Quaderni di studi semiotici”, n.73/74, 1996 2 http://it.wikipedia.org/wiki/Topologia

3 Barthes R. La camera chiara. Nota sulla fotografia, traduzione di R. Guidieri, Einaudi, pp. 130, 2003 


4 Ugo La Pietra, I Gradi di Libertà, Galleria Laura Bulian, testo a cura di Marco Scotini, 2016 
 5 Plotino, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Rusconi, Milano, 1992

6 Harding S. Terra Vivente. Scienza, Intuizione e Gaia, Aboca Edizioni, 2008 

7 Locke J (1632-1704) Trattato sull’intelletto umano. (cap.27) 


8 Mereghetti P., su La riappropriazione della città, 1977 

9 Dal Sasso D., Dialoghi di estetica. Parola a Ugo La Pietra, Artribune Magazine, 2017 (www.artri-

bune.com/arti-visive/2017/01/intervista-ugo-la-pietra/) 
 10 etimo.it Etimologia: ambiente 


11 Aristotele, Poetica, traduzione e introduzione di Guido Paduano, Laterza, Bari 1998 

12 La casa telematica, mostra curata da G. Bettetini in collaborazione con A. Grasso, allestimento

di Ugo La Pietra, Fiera di Milan, Aprile 1983 

13 Munari A. Appunti metodologici per i laboratori Giocare con l’arte, Q.2 Gruppo Immagine, 1993


14 http://ugolapietra.com/riviste/
15 Ugo La Pietra, Abitare è essere ovunque a casa propria, Ed. Corraini. 2019

Ugo La Pietra

INFO

Ugo La Pietra
Ovunque a casa propria
A cura di Manuel Canelles

Progetto promosso da
Spazio5 artecontemporanea
In collaborazione con
TreviLab, Unibz, Liceo Artistico Pascoli, Bolzano Officine Vispa,
Vintola18 Centro di cultura giovanile Cineclub Bolzano, Spazio Macello – Meta
Con il sostegno di
Ripartizione cultura italiana della Provincia di Bolzano, Comune di Bolzano, Libera Università di Bolzano Allestimento
Andrea Oradini / Manuel Canelles
Consulenza scientifica
Archivio Ugo La Pietra
Grafica
Sonia Galluzzo
Ufficio Stampa
Roberta Melasecca
Collaborazioni
Lucia Andergassen, Cristina Nicchiotti
Catalogo
Edizioni Archivio Ugo La Pietra
Progetto grafico
Ugo La Pietra, Simona Cesana
Redazione e ricerca iconografica
Simona Cesana

Inaugurazione 10 febbraio 2022
Fino al 20 marzo 2022
Orari:
9.00 – 20.00
Centro Trevi – Via dei Cappuccini, 28 – Bolzano
Tel. +39 0471 300980

Archivio Ugo La Pietra
Via Guercino 7 – Milano
Tel. +39 02 0236552825
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Ufficio Stampa
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Melasecca PressOffice – Interno 14 next
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IMMAGINE DI APERTURA – Ugo La Pietra. La Grande Occasione (locandina della mostra) Foto Aurelia Raffo

Giorno del Ricordo: come, secondo l’Anpi messinese

Puntualmente anche quest’anno in vista del Giorno del Ricordo, le vicende del confine orientale vengono cinicamente strumentalizzate da gruppi estremistici di chiara ispirazione neofascista.

Purtroppo, anche alcune giunte comunali e regionali, ispirate dal nazionalismo dei partiti e dei gruppi di estrema destra, tentano di proporsi come vittime e di colpevolizzare i partigiani titini o peggio ancora tentano di porre sullo stesso piano le vittime del nazifascismo, pianificato nei campi di sterminio – Conferenza di Wannsee (Berlino 20 gennaio 1942) – e le vittime delle foibe.

È doveroso ricordare che le foibe e l’allontanamento di tanti cittadini di lingua italiana dalla loro terra è un fatto reale e drammatico che l’ANPI non ha mai sottaciuto, come non è mai stato nascosto che tante vittime e tanti esiliati erano semplicemente innocenti. Ma raccontare la storia in modo parziale, distorcendo la realtà è un atto inqualificabile e da condannare senza esitazioni. Negare, oscurare, che all’origine di tutti i fenomeni degenerativi di cieca violenza furono la tragedia dell’invasione fascista di quei territori, l’italianizzazione forzata delle popolazioni, le torture, gli stupri, gli assassinii di massa da parte dei fascisti italiani, istriano-dalmati e i loro camerati slavi “gli ustascia” di Ante Pavelic, sarebbe irresponsabile e vero negazionismo.

Storicizzare quello che è accaduto non giustifica le violenze indiscriminate.

Storicizzare significa che c’era una guerra scatenata dal nazifascismo e che alla guerra, in una realtà complessa, come quella del confine orientale, in cui vivevano nazionalità italiane, slave e tedesche, inevitabilmente si sono sommati elementi di guerra civile che è sempre una guerra difficile da eliminare anche quando si giunge al termine formale dei conflitti. Coloro i quali oggi, in Italia e non solo, si vestono da giustizieri, non sono mai andati dall’altra parte a sentire dalla viva voce dei protagonisti, anch’essi vittime innocenti, quali furono le responsabilità del regime fascista italiano. Non citano mai le parole di Mussolini che considerava insignificante sacrificare mezzo milione di slavi “barbari” per affermare l’italianità di quei territori. Non citano mai la Risiera di San Saba, neppure i campi di concentramento di Arbe e gli altri. Non sanno quanti patrioti slavi sono finiti nelle foibe. Non sanno quanti sloveni, croati e serbi sono stati eliminati per garantire la supremazia nazifascista. Certamente non lo sanno, ignoranza e arroganza li mantengono all’oscuro.

È il solito modus operandi di chi non ha argomenti, ma in compenso ha molta nostalgia per il ventennio fascista. La legge istituita per il Giorno del Ricordo, del 2004, dovrebbe essere aggiornata, affinché, si possa tacitare il vergognoso contributo di tutti quei politicanti da operetta e lasciarla esclusivamente al rigore e professionalità di chi fa ricerca storica.

Tsao Cevoli – L’Acropoli di Atene. Sviluppo, definizione e trasformazione del Classico

L’Acropoli di Atene è uno dei simboli per eccellenza del mondo classico. Eppure la sua storia travalica di gran lunga i limiti dell’età di Pericle e di Fidia. Questo saggio ci guida nelle sue vicende, dall’Età Micenea, allo splendore del V secolo avanti Cristo, alle infinite distruzioni, trasformazioni, sovrapposizioni e ricostruzioni succedutesi nel corso dei secoli, dall’antichità alla nascita della Grecia moderna, con la sua riscoperta del valore identitario dell’Acropoli ed i primi tentativi di restaurarne e conservarne i monumenti, fino ai nostri giorni, che vedono accendersi il dibattito sull’inserimento e sulla funzione di questo straordinario patrimonio archeologico nel tessuto urbano contemporaneo e nel vissuto quotidiano di una metropoli di cinque milioni di abitanti.

CONTINUA A LEGGERE SU ACADEMIA.EDU (OPPURE ESEGUI IL DOWNLOAD): T. Cevoli, L’Acropoli di Atene. Sviluppo, definizione e trasformazione del Classico dall’Antichità al tessuto urbano contemporaneo

IMMAGINE DI APERTURA tratta dall’interno del volume

Tsao Cevoli
L’Acropoli di Atene.

Sviluppo, definizione e trasformazione del Classico dall’Antichità al tessuto urbano contemporaneo

Qual è il rapporto tra Fotografia, Paesaggio & Interpretazione personale delle immagini?

Questa la domanda alla base di “Frammenti Fotografici”, il prossimo workshop di Jardino dedicato alle tecniche fotografiche e alle pratiche di immersione nel paesaggio.

Il workshop si svolgerà come segue: dopo un’introduzione tecnica sulla selezione dei soggetti e alla composizione di una fotografia, i partecipanti esploreranno i dintorni del canale della Martesana per realizzare diversi scatti che verranno poi rivisti con il gruppo durante una sessione di feedback.

Il workshop sarà condotto da Lucrezia Costa, artista ospite in residenza da Jardino. Lucrezia si è laureata in Fotografia alla LABA, e in Arti Visive e Studi Curatoriali alla NABA. Ha esposto i suoi lavori sia in Italia (Mudec, Area Contesa, Base Milano, StudioEo, sia all’estero (Shacklewell Lane, Londra, Joya:AiR, Andalusia, Spagna).

Data : domenica 13 febbraio dalle 14:30 alle 17:30
Prezzo : 30€ per le 3 ore di workshop
Posti limitati disponibili