Jago l’onesto – Testo critico di Vittorio Sgarbi

Dal 12 marzo, Palazzo Bonaparte a Roma ospita la prima grande mostra di JAGO. Jago scolpisce come Michelangelo ed è una rockstar. Amatissimo dal grande pubblico, mito per i giovani e fenomeno social, è l’emblema dell’artista contemporaneo, che unisce talento creativo e capacità comunicative.

Arthemisia propone la sua prima mostra, in contemporanea a quella dedicata all’icona della video-arte, BILL VIOLA. E propone anche il primo esperimento di studio d’artista durante l’esposizione: Jago lavorerà a una nuova opera all’interno delle sale di Palazzo Bonaparte, rendendo partecipe il pubblico della sua creazione.

Una primavera ricca di energia, dedicata all’arte contemporanea, a Palazzo Bonaparte.

JAGO
The exhibition

12 marzo – 3 luglio 2022 Palazzo Bonaparte, Roma

Jago
Pietà, 2021
Marmo, 140x80x150 cm
Photo by Jago
LA MOSTRA

Testo critico di Vittorio Sgarbi

Comunque lo si vuole giudicare, sarebbe difficile non considerare Jago un fenomeno. Uno di quelli che non si possono ignorare come se non esistessero, secondo costume abituale di certa critica d’arte, la più elitaria e autoreferenziale nel guardare solo al proprio hortus conclusus, salvo capire poco del mondo con cui abbiamo a che fare, probabilmente non solo quello dell’arte. Jago esiste, enormemente di più di quelli che ancora si sforzano di ignorarlo. Esiste perché esiste la sua opera, il suo modo di comunicare che non si limita, nel rispetto di una tradizione secolare occidentale e più specificatamente italiana che da un punto di vista tecnico vorrebbe continuare ad evidentiam, alla sola cosa scolpita (non fa solo sculture, ma sono indubbiamente le sculture il centro della sua opera), ma lo estende allo scolpire come atto di primaria, vitalistica dimensione per metterlo in relazione con tutto ciò che può essere correlato produttivamente ad esso, dallo spettacolo all’economia, in questo senso con spirito molto più in linea con i tempi globalizzanti che ci vedono oggi coinvolti. Jago esiste, soprattutto, perché questo suo modo aggiornato, globale di fare arte mettendo assieme antico e moderno riflette un sentire non solo espressivo, ma più generale rispetto al mondo attuale che viene condiviso da un pubblico internazionale di estimatori dalla portata inconsueta, da popstar in confronto a quello di cui gode la stragrande maggioranza degli artisti contemporanei e, cosa ancora più rara, con un numero notevolissimo di giovani e di non competenti al suo interno. È per me una ragione d’orgoglio averlo premiato poco più che ventenne, e poi presentato alla Biennale di Venezia nel 2011 su segnalazione della veggente Maria Teresa Benedetti.
Se tutto ciò è stato possibile è perché Jago non ha inteso subire gli eventi che lo hanno interessato, è voluto essere lui un fenomeno che si doveva conoscere e di cui bisognava parlare, anche da parte di chi non è aduso a sapere e discutere di arte. Si è fatto forte, Jago, della scaltrezza e della determinazione di chi ha capito precocemente che nell’epoca della civiltà non sempre civile del web e dei socials sarebbe insufficiente essere lo scultore più capace della Terra per guadagnarsi automaticamente il centro del palcoscenico, ci vuole anche altro, e questo altro bisogna inventarselo con la stessa concentrazione, la stessa meticolosità, la stessa verve creativa che si riserverebbe a un’opera scultorea di grande impegno. Scaltrezza e determinazione che potrebbero essere colte in trasparenza fin dagli aspetti preliminari del porsi di Jago a noi; nella temerarietà, per esempio, con cui Jacopo Cardillo da Frosinone ha ripudiato in arte il nome anagrafico per adottare quello archetipico del più perverso fra i personaggi shakespeariani, la personificazione del male fine a sé stesso, così come lo vedeva, fra i tanti, anche Benedetto Croce, o anche l’“onesto”, per dirla come l’ingenuo Otello, che esemplifica alla perfezione la spregiudicatezza cara a Machiavelli di cui dovrebbero munirsi gli uomini politici.

Se è vero che nomen omen quando sono gli altri ad attribuircelo, tanto più lo sarà quando il nome lo si sceglie di propria iniziativa. Escludendo che abbia voluto chiamarsi in tal modo perché vuole apparirci provocatoriamente spregevole (mi pare evidente che Jago appartenga alla schiera di coloro che, con disposizione peraltro sanissima, preferiscono piacere piuttosto che repellere), dovremo pensare che ci sia qualcosa di machiavellico in lui? Potrebbe anche essere, non certo nel senso che ha dato corpo alla stereotipata caratterizzazione shakesperiana, naturalmente, ma in quello che tende a concepire il proprio muoversi nello scacchiere del mondo non come evenienza dettata da fattori più o meno casuali o da volontà altrui più o meno determinanti, ma come effetto di un’avveduta strategia personale. Non è cinico Jago, né un arido calcolatore, ma hai ugualmente l’impressione che riesca a mantenere sempre il polso delle situazioni in cui si trova: nell’affrontarle non manca mai di sapere già in partenza cosa vuole fare e dove vuole andare a parare, mai azzardando salti al buio o voli senza rete anche quando sembrerebbe esattamente il contrario. È un pregio fra i più lodevoli, sia ben chiaro, non certo un difetto per cui additarlo. Misura un’intelligenza, una ragion pratica di cui troppo spesso gli artisti ritengono di potere fare a meno, privilegiando altre qualità che non sempre a buon diritto andrebbero valutate più importanti.
Nessuno, poi, potrebbe lecitamente sospettare che Jago si sia fatto stratega per mascherare delle carenze di base, un po’ come capita con certi cantanti che strillano e si acconciano in modo eccentrico per farci dimenticare che non sanno cantare. Jago “canta” scultura in modo formidabile, davvero improbo tenergli il passo da un punto di vista strettamente tecnico-artigianale. Si è formato trovando in sé stesso quell’accademia che l’istituzione non riusciva a fornirgli fino in fondo, perseguendo come motivo pressante della sua ispirazione l’ineludibilità del confronto con l’antico, col mestiere dello scolpire così come codificato dal Rinascimento – mai dimenticare che la scultura è stata la sua arte primigenia che ha finito per nutrire tutte le altre – fino al secolo scorso, con l’idea della centralità del genere umano e della nobiltà della sua forma che un tale magistero intellettualmente sottende. Ben presto, però, Jago si convince che non basta ammirare per imparare. Bisogna farlo, a un certo punto, per sfidare, come in fondo facevano i grandi maestri che non volevano emulare gli antichi, volevano superarli, facendo scaturire da questo intento la modernità nel suo valore più autentico. Modernità che in tempi più recenti ha avuto altre manifestazioni su cui dovrebbe comunque fondarsi il bagaglio dell’artista contemporaneo, capaci di spostare il baricentro dell’espressione artistica dall’opera in senso stretto, chiusa entro determinate caratteristiche fisiche, all’orizzonte allargato dell’operazione – la concettualizzazione, la performance, l’happening, la diversificazione logistica e mediatica – che la contiene o anche la oltrepassa, quando non la ritiene più necessaria.

Così, accanto a uno Jago più libero da rimandi nei confronti di altro da sé stesso, tendenzialmente simbolista, nella forma più sensibile alla levigata scorrevolezza delle superfici, si sviluppa quello diventato più noto, lo scultore titanico che vuole vincere il tempo stabilendo una perfetta equazione fra passato e presente, tendenzialmente realista, se è lecito definire tali anche scultori piuttosto tradizionalisti e non per questo sgraditi alla critica anche più à la page quali Ron Mueck o Charles Ray, nella forma più incline a una certa durezza di trattamento con effetti anche di definizione marcata, talvolta con i segni dello scalpello lasciati volutamente a vista per fornire compiaciuto risalto al metodo e alla fatica del lavoro affrontato. Prendiamo, per esempio, un’opera come il Figlio velato. Dal punto di vista scultoreo, si tratta dell’ennesima competizione stabilita – è così anche con la sui generis michelangiolesca Pietà a Santa Maria in Montesanto e con la prossima, berniniana, ma anche giambolognesca Aiace e Cassandra, per dire di altri casi non meno evidenti – con un famoso capolavoro del passato, il Cristo velato di Giuseppe Sammartino nella Cappella Sansevero a Napoli, che sviluppava fino alle estreme conseguenze un espediente tecnico-espressivo inventato dal veneto Antonio Corradini, la resa delle forme umane intraviste attraverso un velo aderente, quasi da Simbolismo preconizzato. Virtuosismo puro, quello di Sammartino, così sovrumano da fare immaginare che il velo non fosse stato scolpito nel marmo, altrimenti si sarebbe spezzato per forza, ma ottenuto attraverso un bagno chimico pietrificante escogitato dal principe alchimista Raimondo di Sangro, committente dello scultore. Non avrei dubbi sul fatto che proprio questo sia stato il motivo di maggiore attrazione avvertito da Jago: quel Cristo non incarna sé stesso come Dio fattosi uomo, ma in quanto opera d’arte. E lì il prodigio, lo spettacolo della metamorfosi resa permanente – è il tema centrale affrontato da Sammartino, il corpo che si fa spirito allo stesso modo di come la materia si fa arte – ancora in grado di lasciare a bocca aperta a due secoli e mezzo dal suo allestimento. Se si è veri scultori, bisogna sapere fare altrettanto. Ma non facendo un altro Cristo, sarebbe banale, inutile, puro divertissement personale. E senza limitarsi a fare solo una scultura, ci vuole – eccola la modernità che irrompe sulla semplice continuità con l’antico,
modificandone il significato – l’operazione attorno, mediatica innanzitutto, ma non solo, anche ideologica, concettuale, sociale, in modo tale da fare di tutto ciò che accompagna e segue la creazione un evento partecipato a misura delle persone dei nostri giorni, quelle che comunicano più o meno ossessivamente online. Si cambia innanzitutto il soggetto apparente (quello vero è l’arte, s’intende), non un adulto ma un bambino, uno dei diversi trattati da Jago in modi che non si sono certo proposti di passare sotto silenzio (si pensi al feto del First Baby portato all’astronauta Luca Parmitano nello spazio, oppure il neonato gigante collocato a sorpresa nella napoletana Piazza del Plebiscito, ingiuriato dai meno tolleranti). Si comincia a New York perché in Italia non si riesce, e già questo accende l’attenzione. Si carica, Jago, si sente al centro di un’impresa che in molti avrebbero giudicato impossibile da replicare o troppo megalomane, si sforza di trasmettere il senso di quanto sta azzardando a un uditorio virtuale che ha modo di seguirlo al lavoro dallo smartphone o dal computer di casa propria per ottenerne in cambio approvazione, incoraggiamento, consenso, da parte dei giovani soprattutto, come se lo scultore fosse un rapper che si rivolgesse a loro. Finalmente l’opera è pronta, l’operazione, invece, ancora deve avere seguiti importanti, in questo senso finendo anche per prevalere sulla scultura vera e propria. Scultura che nel confrontarsi col capolavoro di Sammartino lo interpreta per volerne fornire una versione al passo con i tempi, riducendo al minimo l’incidenza del corpo umano (il bimbo di Jago, per quanto possa essere commovente supporlo defunto, non manca di mostrare una certa mancanza di grazia, come se non voglia attirare più di tanto) per lasciare il ruolo del protagonista al più artistico degli elementi, un velo qui caratterizzato da panneggi per nulla morbidi e acquosi come nel Cristo, ma angolari e metallici come in precedenti niente affatto intuibili in Sammartino per non dire in Corradini, cominciando dagli esempi borgognoni di Claus Sluter a cui non poco dovette la successiva rivoluzione pittorica dei Van Eyck. Nello scolpire a misura di mondo globale, insomma, Jago sembra rinunciare all’italianità in senso stretto, preferendo un respiro più internazionale che allude anche a culture artistiche diverse, non certo meno rispettabili della nostra. L’operazione, intanto, va avanti. Potrebbe essere venduto, il Figlio velato: gli aspiranti acquirenti non mancherebbero. A non volere finire subito nelle mani di un unico compratore, potrebbe essere concepito come l’equivalente di un fondo di investimento in cui un numero quanto mai ampio di acquirenti comprasse una quota di partecipazione, così come Jago, da uomo perfettamente calato nell’epoca dell’arte come nuova forma di finanza – in fondo è questa la sua novità più rilevante nel corso dell’ultimo quarantennio – che non si fa scrupolo a parlare apertamente di denaro quando c’è di mezzo il suo lavoro (del neonato gigante in Piazza Plebiscito ha detto: “ho lasciato per terra un milione di euro”), ha già pensato in altre situazioni. Ma in questo caso, l’operazione segue un altro corso, meno venale: il Figlio velato accompagna il ritorno di Jago in Italia, a Napoli, dove va a vivere e lavorare nel quartiere popolare di Sanità, di cui sarebbe diventato presto un emblema. La statua viene collocata, spettacolarmente, al centro della Cappella dei Bianchi nella chiesa di San Severo fuori le mura, a diventare una seconda Cappella Sansevero. Viene eletta a simbolo di una resurrezione cercata, quella di un intero quartiere e della sua gente, il Figlio finirà per vincere la morte in cui ora è ancora immerso. Il fine è raggiunto, la consacrazione avvenuta, il consenso ottenuto, il senso di comunità con i napoletani stabilito: Jago adesso può davvero considerarsi il nuovo Sammartino, il nuovo Sluter, ma anche chiunque altro con cui voglia confrontarsi, come un falso Zelig che in realtà non vuole imitare mai nessuno. E adesso, afferma Jago, concedendo forse troppo alla retorica, ma con convinzione sincera, l’opera non è più solo mia, è di tutti quelli che hanno partecipato anche solo emotivamente alla sua vicenda e che si sono fatti coinvolgere nella sua narrazione trovandone una forma di godimento anche minima. Perché l’arte, da sola, non può più esistere, per quanto grande possa essere. Esiste la vita, e l’arte nella vita.


Siti internet
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@arthemisiaarte
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Ufficio Stampa
Arthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
T. +39 06 69380306

Roma, Palazzo Cipolla – London Calling: British Contemporary Art Now

Dal 17 marzo al 17 luglio, a Palazzo Cipolla a Roma, per la prima volta in Italia, la mostra
“London Calling: British Contemporary Art Now”.
50 anni di arte londinese raccontati attraverso oltre 30 magnifiche opere di 13 artisti di fama internazionale: da David Hockney a Anish Kapoor, da Jake e Dinos Chapman a Damien Hirst fino ad arrivare a Idris Khan.

Idris Khan
Once more to this star, 2022
3 lastre di vetro stampate con inchiostro a olio
blu di Prussia, alluminio, gomma
165x140x18 cm
Courtesy the Artist and Sean Kelly Gallery, New
York

Dal 17 marzo al 17 luglio 2022, le sale di Palazzo Cipolla a Roma ospitano una delle più particolari mostre di arte contemporanea mai realizzate in Italia: “London Calling: British Contemporary Art Now. From David Hockney to Idris Khan”: una mostra che attraverso oltre 30 opere riunisce il lavoro di 13 grandi artisti britannici di diverse generazioni, per la cui carriera artistica la città di Londra ha svolto un ruolo molto importante.

La mostra presenta un parterre d’eccezione di artisti nati nell’arco di cinque decenni, tra il 1937 e il 1978: David Hockney, Michael Craig-Martin, Sean Scully, Tony Cragg, Anish Kapoor, Julian Opie, Grayson Perry, Yinka Shonibare, Jake e Dinos Chapman, Damien Hirst, Mat Collishaw, Annie Morris e Idris Khan.

Una sequenza di artisti la cui carriera è stata in qualche modo influenzata dalla capitale britannica, o perché vi sono nati, oppure vi si sono recati durante la propria formazione, o magari trasferiti in un secondo momento in modo da essere vicini alle grandi gallerie e musei, quando non semplicemente per andare alla ricerca di nuovi orizzonti creativi. Nomi che hanno contribuito a collocare Londra nell’Olimpo delle avanguardie artistiche, così come lo erano state in precedenza Firenze nel Rinascimento, Parigi con l’Impressionismo o New York nella seconda metà del XX secolo. Artisti che innestano le loro radici su una Londra di inizio anni Sessanta, in piena trasformazione economica e sociale e che si preparava a diventare una delle capitali indiscusse dell’arte contemporanea.

Partendo dal più anziano, David Hockney, fino a giungere al più giovane, Idris Khan, il percorso espositivo propone uno spaccato dell’attuale scena artistica londinese attraverso una serie di opere iconiche selezionate dai curatori Maya Binkin e Javier Molins in collaborazione con gli artisti stessi. Ideata dalle collezioni/studi personali degli artisti, la mostra è supportata da gallerie e collezioni internazionali come Gagosian Gallery, Goodman Gallery, Galerie Lelong, Lisson Gallery, Modern Forms, Victoria Miró Gallery, Galerie Thaddaeus Ropac, Sean Kelly Gallery, New York, Tim Taylor Gallery, London, Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea.

La varietà degli artisti presenti consente, inoltre, di contemplare tecniche compositive assai diverse tra loro, come pittura, scultura, disegno, ceramica, fotografia, video e molto altro, esprimendo una molteplicità di temi quali la vita quotidiana, il confino, l’esplorazione dell’essere umano, il paesaggio, la politica, la religione, la storia dell’arte, la letteratura, la musica, il genere, la violenza o il rapporto tra la vita e la morte.

La mostra è promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, presieduta dal Prof. Avv. Emmanuele F. M. Emanuele, ed è realizzata da Poema con il supporto organizzativo di Comediarting e Arthemisia.


Uffici Stampa
Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale
Raffaella Salato
rsalato@fondazioneterzopilastrointernazionale.it
T. + 39 06 97625591

Arthemisia
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Roma: Cieli di fango. Mostra di Sergio Sechi – Testo critico di Maria Arcidiacono

Il giorno 12 marzo 2022, presso gli spazi della Cooperativa Sociale Integrata Onlus Magazzino, ha inaugurato la mostra fotografica Cieli di fango di Sergio Sechi a cura di Maria Arcidiacono, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale

Cieli di fango
Mostra fotografica di Sergio Sechi

a cura di Maria Arcidiacono

Inaugurazione sabato 12 marzo ore 11.00 – 18.00

Cooperativa Sociale Integrata Onlus Magazzino
Via Federico Borromeo, 67 – Roma (zona Primavalle)

Fino a sabato 19 marzo 2022

Sergio Sechi, Codice a barre, 2021
LA MOSTRA

Testo critico di Maria Arcidiacono

Non si hanno meriti o colpe riguardo il proprio luogo di nascita, semplicemente non siamo noi a decidere dove venire al mondo. Crescere e vivere al di fuori delle mura aureliane, o all’interno di esse, per chi nasce a Roma può fare un’enorme differenza; come fa, tuttavia, una barriera topografica, un confine amministrativo a definire un’identità, un senso di appartenenza? Eppure frontiere fragilissime, tracciate da mura di età imperiale o da segni moderni su una carta geografica, creano distanze enormi tra gli individui e non solo in termini di opportunità e di qualità della vita.

Ispirandosi a un brano di Renato Zero, Periferia, Sergio Sechi ha deciso di percorrere le strade di Primavalle dove attualmente lavora, rintracciandovi atmosfere e realtà che appartengono a tutte le periferie, grazie anche a quei ‘cieli di fango’ che gravano su di esse, rendendole simili tra loro. Contenuto nell’album EroZero del 1979, Periferia ha come autori, oltre a Renato Zero e Piero Pintucci, anche Franca Evangelisti, autrice, quest’ultima, poco conosciuta, nonostante abbia scritto testi anche per altri noti protagonisti della musica leggera italiana. Il brano è stato riscoperto dopo oltre quarant’anni grazie alla commedia cinematografica di Riccardo Milani, Come un gatto in tangenziale (uscita in sala nel 2017 e con un sequel nel 2021), ma Sechi, autentico fan, anzi, ‘sorcino’ di Renato Zero, la conosceva bene e aveva letto in quelle parole una storia simile alla sua, cogliendo in esse l’intimo avvicendarsi di un desiderio di fuga alla più rassicurante tentazione di restare.

Sechi è entrato nei cortili, nelle case popolari, ha parlato con operai, con ragazzi, con persone anziane, sentendosi alternativamente un po’ straniero e un po’ fratello, facendosi talvolta rappresentare da Valentina, una ragazza torinese, modella per un giorno, catapultata in una realtà smisuratamente distante dal suo quotidiano. È stata lei la vera aliena che, munita di piuma e di un trucco colorato, eccessivo, quasi circense (entrambi omaggi a Renato Zero) ha attraversato con passo deciso i prati che circondano Primavalle, si è seduta sui muretti e sui gradini davanti alle case, ha prestato la piuma a un operaio, è finita dietro un cancello che la fa sembrare incastrata in un codice a barre. 

I murales di Omino71 e di La Rouille attutiscono il malessere, riportano Ingrid Bergman sul set di Rossellini, sono piccoli doni variopinti sulle superfici scrostate dell’edilizia pubblica; ma anche all’interno di quelle case i colori possono esplodere: pareti violette e tende dorate nella stanza di un’altra Valentina sono protette da inferriate che assomigliano a quelle cinquecentesche di antichi palazzi, così come un tendone da circo può richiamare alla memoria il passaggio di saltimbanchi senza tempo. È qui che il fotografo svela il tratto comune di questi luoghi: la solitudine, il sogno di fuggire e poi tornare, la malavita che un tempo non era così spietata, l’antica lingua del Belli graffiata ad arte con espressioni nuove, la luminosità dei tramonti tra cemento e campagna. 

Nel cercare lo spazio espositivo, Sechi ha trovato nei locali dell’ex-dormitorio di quartiere, dove ora opera la cooperativa Magazzino, il luogo ideale. Magazzino è una Onlus che da trent’anni lavora con e per gli utenti del vicino DSM (Dipartimento di Salute Mentale) della ASL ROMA 1. Uomini e donne di tutte le età sono stati e vengono tuttora accompagnati alla scoperta delle proprie capacità creative e artigianali nei laboratori della vetreria, della corniceria, della stampa o guidati alla manutenzione del verde. In quelle stanze, dove un tempo c’erano letti per chi non li aveva, ora c’è un mondo trasparente e colorato come i delicati oggetti in vetro che vengono realizzati nei laboratori; da anni la guida paziente e silenziosa degli operatori e delle operatrici della cooperativa conduce una battaglia contro lo stigma del disagio psichico e lo fa tenacemente e con passione, spesso sobbarcandosi un impegno burocratico gigantesco, che poi costituisce la vera fatica della loro attività. 

Franco Basaglia, al quale è dedicata la vicina biblioteca, ha illuminato con il suo messaggio rivoluzionario la ricerca psichiatrica riconducendo la malattia mentale alla sua spoglia ed essenziale definizione di ‘condizione umana’. Anche la narrazione sulla periferia andrebbe scardinata: interrogando i luoghi, come fa l’Associazione Culturale Ottavo Colle che partecipa al progetto con una passeggiata dedicata, si può andare oltre le apparenze, si possono mettere da parte luoghi comuni, binomi come degrado-violenza, ritrovando energie inattese e pagine di nuovi alfabeti tutti da sfogliare.

Sergio Sechi, Cieli di fango, 2021

Sergio Sechi è nato nel 1967 a Roma, dove vive e lavora. Ha frequentato fino al 1984 l’Istituto Statale d’Arte Silvio d’Amico per poi diplomarsi al Liceo Artistico Casal de Merode. Dopo una lunga pausa (1984-2014) ha ripreso l’attività di fotografo. I suoi scatti compaiono su periodici e quotidiani (tra i quali Premium, Focus Storia e il Sole 24 Ore) e sono stati scelti come copertine per alcuni volumi di narrativa e saggistica. A partire dal 2016 ha esposto in più occasioni in mostre collettive presso spazi espositivi romani e presso l’ex convento dei domenicani a Muro Leccese (LE) in occasione di “For the love of God”, collettiva artistica internazionale. Nel 2017 ha partecipato con una sua opera a “Les Rencontres de la photographie” ad Arles. Nel 2018 ha realizzato la sua prima mostra personale “Sono andato a letto presto” presso MagmaLabSpace in Roma. Nel febbraio 2020 ha partecipato al progetto The Darkroom Project #7 (Biennale_MArteLive_Plus) presso il Castello di Santa Severa (RM).


INFO

Cieli di fango
Mostra fotografica di Sergio Sechi
a cura di Maria Arcidiacono
con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale
in collaborazione e con il sostegno della Cooperativa Sociale Integrata Onlus Magazzino
in collaborazione con l’Associazione di promozione sociale Ottavo Colle
Graphic design: Alessandro Arrigo
Stampe: Tommaso Mariani

Inaugurazione sabato 12 marzo ore 11.00 – 18.00
Fino a sabato 19 marzo 2022
Orari: domenica 13 marzo 10.30 – 13.00; da lunedì 14 a sabato 19 marzo 15.00 – 18.00

Cooperativa Sociale Integrata Onlus Magazzino
Via Federico Borromeo, 67 – Roma (zona Primavalle)
info@coopmagazzino.it
tel. 066144451
www.coopmagazzino.it

Ufficio Stampa
Roberta Melasecca
Melasecca PressOffice – Interno 14 next
tel. +39 349.4945612
roberta.melasecca@gmail.com
www.melaseccapressoffice.it
www.interno14next.it

Pisa, Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi – Investigatori al Museo

Il Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi (Comune di Pisa, Università di Pisa) organizza: 

INVESTIGATORI AL MUSEO  

Attività per famiglie
Domenica 20 marzo 2022, ore 16:00

Età consigliata: 7 – 11 anni
In compagnia di una guida speciale e muniti di matite e lente d’ingrandimento, andremo alla scoperta delle tracce del passato e di alcune opere della collezione del Museo. Infine, con l’intuito da investigatori, ci divertiremo a ricostruire un’opera d’arte andata in mille pezzi. 
Costo: 10 €
 – Il costo è comprensivo dell’attività e del libro per bambiniAlla scoperta del Museo della Grafica di Pisa, Edizioni ETS, Pisa, 2021.
Partecipazione su prenotazione 
fino ad esaurimento dei posti disponibili all’indirizzo e-mail: educazione.museodellagrafica@sma.unipi.it

Scadenza prenotazioni: venerdì 18 marzo, ore 13:00 

È richiesta la presenza di un adulto accompagnatore per tutta la durata dell’attività

Per maggiori informazioni
 https://museodellagrafica.sma.unipi.it/2022/03/investigatori-al-museo/
Email: educazione.museodellagrafica@sma.unipi.it – Telefono: 050 2216059/070  
Per accedere al Museo è necessaria la certificazione verde rafforzata COVID-19 per gli adulti accompagnatori

IMMAGINE DI APERTURA – Invito

Adolf Loos: ciò che ha scritto e costruito era esattamente quello che pensava

di Sergio Bertolami

37 – L’architetto precursore del Movimento moderno

L’amico architetto di Oskar Kokoschka, Adolf Loos – Dolfi come lo chiamavano familiarmente – non è soltanto il sacro autore di Ornamento e delitto (1908), granitico come la pietra che scolpiva suo padre, scalpellino di Brunn. Sapeva anche scherzare sulle situazioni quotidiane. Come quella volta che, parlando di Ulk, il critico viennese che lo prendeva in giro proprio per quel suo famosissimo saggio, rispondeva lapidario: «Caro Ulk! Ti sto solo dicendo che verrà il momento in cui allestirete una cella carceraria secondo le indicazioni del tappezziere di corte Schulze o del professore Van de Velde e questo conterà come un inasprimento di pena». Dolfi andava alla ricerca della semplicità. Ma non riusciva a trovarla nemmeno fra i suoi contemporanei fautori dell’arte applicata. «Una cultura comune – scrive sulla mostra del Deutscher Werkbund – crea forme comuni. E le forme dei mobili di Van de Velde differiscono notevolmente da quelle di Josef Hoffmann. Quale cultura dovrebbero scegliere i tedeschi? La cultura di Hoffmann o quella di Van de Velde? Di Riemerschmied o di Olbrich?». Se da un lato è aperto alle innovazioni, dall’altro Loos è ostile ai formalismi discutibili. Per lui tutto è discutibile, persino l’arte. «L’arte è un’alta dea per l’uomo moderno, e lui sente che è un attentato all’arte quando viene prostituita per merci». Loos nei suoi scritti traccia deliziosi ritrattini letterari coi quali ridicolizza ricchi e borghesi arcicontenti, come quel tale che sente il bisogno di richiedere le prestazioni di un famoso architetto: «Mi porti l’arte, porti l’arte fra le mie pareti domestiche. Non bado a spese». A leggere questo racconto – dal titolo Da un povero ricco (Von einem armen reichen Manne) – potreste riconoscerci Hoffmann che progetta Palazzo Stoclet, oppure Van de Velde e Olbrich che disegnano persino abiti per le proprie consorti. L’architetto immaginato da Loos non si fa ripetere due volte la richiesta del suo nuovo cliente. Va a casa dell’uomo ricco, fa gettare via tutti i mobili – quelli grazie ai quali poteva condividere le sue radici familiari – per chiamare uno stuolo di parchettisti, decoratori, laccatori, muratori, imbianchini, falegnami, idraulici, fumisti, tappezzieri, pittori e scultori e in men che non si dica, l’arte è catturata, inscatolata, ben sistemata tra le pareti domestiche dell’uomo ricco. «L’uomo ricco era tutto felice. Tutto felice attraversava i nuovi locali. Dovunque posasse gli occhi si imbatteva nell’arte, ogni cosa esprimeva l’arte. Quando afferrava una maniglia posava la mano sull’arte, si sedeva sull’arte quando si abbandonava in una poltrona, sprofondava la testa nell’arte quando, stanco, poggiava la testa sui cuscini, i suoi piedi affondavano nell’arte quando camminava sui tappeti. Egli nuotava nell’arte con immenso fervore. Quando anche il suo piatto fu provvisto di decorazioni raddoppiò l’energia con cui si accingeva a tagliare il suo boeuf à l’oignon. Fu lodato. Fu invidiato. I periodici d’arte lo esaltavano come uno dei più grandi mecenati, i locali della sua abitazione furono riprodotti come esemplari, furono discussi e illustrati».

Adolf Loos, racconto dal titolo Da un povero ricco
(Von einem armen reichen Manne)

Un racconto immaginario che sintetizza il clima dell’epoca, dalla Secessione viennese di Klimt, Hoffmann, Helmer e tanti altri, alla Wiener Werkstätte che progetta e produce veri e propri gioielli artistici. A leggere gli scritti completi di Adolf Loos – da Parlato nel vuoto (1897–1900) a Tuttavia (1900–1931) – ci si trova davanti ad una fonte inesauribile di notizie, raccontate con impietoso sarcasmo, ma anche giocosa leggerezza. Questa, per esempio, sembra una spiritosaggine, ma per chi conosce Loos non è una novità: il suo modo di esprimersi è stato sempre sarcastico, enfatico, plateale. Un giorno incontra un famoso architetto di cui tace il nome: «Salve, ieri ho visto uno dei vostri appartamenti. Quello del dott. Y». Forse, attendendosi un complimento, come per schermirsi, quello risponde: «Per l’amor di Dio, non guardate quella bruttura. L’ho fatta tre anni fa». Al che Loos ribatte caustico: «Ho sempre creduto, caro collega, che ci fosse una differenza sostanziale tra noi. Ora mi accorgo che c’è solo una differenza di fuso orario. Una differenza di tempo, che può essere espressa anche in anni. Tre anni! All’epoca io stesso avevo detto che faceva schifo, voi lo state riconoscendo solo ora».

Adolf Loos, ritratto fotografico di 
Otto Mayer (intorno al 1904)

Adolf Loos è un tipo senza perplessità, sempre sicuro delle sue opinioni, che, intelligentemente, qualche volta rende malleabili. Racconta che la fabbrica francese Christofle aveva una filiale di fronte all’Opera a Heinrichshof. «Le vetrine non ti obbligano mai a fermarti». Per cui, dovendoci passare davanti ogni giorno, cerca di farlo in tutta fretta. Un anno accade qualcosa di speciale. «Tra i centritavola e le posate d’argento – le posate per chi sa mangiare, basate sui modelli inglesi, e quelle disegnate da Olbrich per le persone che non possono mangiare – era esposto un pinscher a grandezza naturale in porcellana bianca, smaltata. Solo gli occhi e il muso del cane erano colorati. Il mio primo pensiero è stato: Copenaghen. E ho cominciato ad ammorbidire il mio giudizio su Copenaghen». Esistono artisti, si domanda, che creano oggetti di questo tipo, oggetti che si desidera possedere? Come si chiama? Dove vive? Entra, chiede e si sente rispondere che l’uomo è morto forse da centocinquant’anni. Quella esposta è una copia della fabbrica di Sèvres. Costa troppo, non può permettersi l’acquisto, ma da quel momento Loos sta insieme a quel cane di porcellana tutti i giorni. Si limita ad ammirarlo in vetrina. «È andata così per un anno. Ma l’altro giorno la mia gioia si è trasformata in acqua. Il cane era sparito. Sono entrato e ho detto, dov’è il mio cane? Lo ha comprato un americano». Gli viene, però, assicurato, che presto, spedito l’ordinativo, una nuova copia del cane sarebbe stata in mostra. «Spero che gli americani utilizzino il marciapiede opposto» conclude Loos.

Pinscher tedesco, elegante cane a pelo raso
Adolf Loos con la cagnetta Beau-Beau, intorno al 1930
(Foto di Claire Beck)

Molte volte Loos riesce ad essere spiazzante. Claire Beck Loos (terza moglie dell’architetto) ne traccia un simpatico ritratto confidenziale. Ricorda quando, con un gruppo di amici, entrò nel negozio di un artigiano di ceramiche in un paese sperduto nei dintorni di Cannes. Loos si guarda intorno. Prende un piatto da zuppa da uno scaffale, lo osserva con attenzione e lo posa di fronte a sé. Il proprietario è in allarme. «Mi scusi, monsieur – dice – ma quello è uno scarto!» e, imbarazzato, toglie via il piatto. Loos lo guarda e ride. «Quel piatto è particolarmente bello. Vorrei dodici piatti da zuppa come quello». «Ma è stato un incidente se il marrone è finito sul giallo – risponde disperato il proprietario – Di sicuro non ricapiterà mai su dodici piatti!». «È davvero un grazioso incidente. Non importa se i colori non sono perfettamente uniformi. Mi faccia dodici piatti di scarto … proprio come quello» (Beck 2014).

Claire Beck Loos: Adolf Loos privato. Ritratto di un eccentrico genio

Potrei continuare a raccontare episodi umoristici di questo genere per mettere in luce il temperamento irriverente di Loos, ma forse ripercorrere brevemente gli anni, almeno fino al primo conflitto mondiale, potrebbe tornare utile per comprendere meglio l’architetto che tutti riconoscono come il precursore del Movimento moderno. Primogenito di tre figli, nasce il 10 dicembre 1870 a Brunn, in Moravia (oggi Brno, Repubblica Ceca) da Adolf Loos e da Maria Hertl. È uno studente intelligente, ma dal rendimento incostante, anche perché deve affrontare il continuo trasferimento in vari istituti scolastici. Completa le quattro classi del liceo a Jihlava, Melk e Brunn. Al Melk Abbey Gymnasium, per esempio, rimane solo un anno, il 1881, ma a causa degli scarsi voti la sua iscrizione è rifiutata. Dopo l’estate è trasferito al liceo di Igiau, in Moravia, dove conosce Josef Hoffmann. Frequenta, quindi, dal 1885 la Imperial-regia scuola professionale (K.K. Staats-Gewerbeschule) di Reichenberg, in Boemia, e si diploma alla Scuola Statale Tedesca per il Commercio a Brunn nel 1889. Studia poi, dal 1890 al 1893, presso il dipartimento di ingegneria strutturale dell’Università Tecnica di Dresda, ma anche qui interrompe gli studi per un anno per arruolarsi a Vienna come volontario nella polizia militare; quindi, sempre a Vienna, studia per un breve periodo all’Accademia di arti applicate. Rientrato all’Università, solo al terzo anno, cioè dal 1886, si dedica finalmente all’architettura e nell’estate del 1887 acquisisce anche un certificato di muratore presso l’impresa Czapka & Neusser in Moravia.

Vista dell’Home Insurance Building dell’architetto William Le Baron Jenney a Chicago, Illinois. Primo esempio di grattacielo.

Nell’estate del 1893, nonostante non conosca una parola d’inglese, con un solo biglietto da 50 dollari in tasca, parte per gli Stati Uniti. Il primo maggio si è, infatti, inaugurata l’Esposizione Universale di Chicago per celebrare il quattrocentesimo anniversario della scoperta dell’America. Qui prende atto, con grande meraviglia, di una città in fermento dopo distruzione quasi completa per il Grande incendio dell’8 ottobre del 1871. Le fiamme avevano ridotto in cenere le numerose case del centro che erano ancora in legno. Con la ricostruzione viene elevato il primo grattacielo della storia, l’Home Insurance Building e gli edifici che seguono danno origine alla decantata architettura della Scuola di Chicago. l’Home Insurance Building, progettato nel 1885 da William Le Baron Jenney aveva dieci piani d’altezza tirati su interamente con telaio metallico, sistema costruttivo brevettato da altri nel 1888. Dieci piani sono il doppio di quelli che Loos aveva potuto vedere fino ad allora. Ma ciò che più meraviglia è che, mentre in Europa ci si perde dietro un decorativismo inutile, a Chicago la sfida in altezza non si ferma. Nel 1889 John Wellborn Root fa svettare i diciassette piani del Monadnock Building, che detiene ancora oggi l’imbattuto record del più alto edificio con struttura portante in mattoni rafforzata da un telaio in ferro. Le nuove linee architettoniche e le tecnologie adottate, convincono il giovane Loos che occorre trovare forme espressive al passo con i tempi, superando l’Art Nouveau, «l’opera – come sosteneva Henry van de Velde – messa assieme, giudicata e studiata attraverso la sola qualità ovviamente comune a tutti: la novità». Ma per Loos l’Art Nouveau non era più una novità.

Adolf Loos, Parole nel vuoto (Ins Leere gesprochen), 1900 

A New York Loos vive in ristrettezze economiche e si mantiene con umili lavori occasionali, come garzone di un parrucchiere, lavapiatti, disegnatore e posatore di tarsie, infine dal 1894 è assunto come disegnatore in uno studio di architettura. Collabora anche con riviste in lingua tedesca. Di questa esperienza americana scrive: «L’uomo che possiede la cultura occidentale sa adattarsi immediatamente a quella cultura che corrisponde a un certo terreno, a una certa attività e a un certo clima. Ogni viennese può indossare scarpe chiodate, lederhosen corti al ginocchio e giacca in loden, quando va in montagna. Ma l’uomo di montagna non può indossare una redingote e un cappello a cilindro quando va in città». Loos vive a New York e in altre città degli Stati Uniti fino al 1896, poi rientra a Vienna, passando per Londra e Parigi. Ha guadagnato bene e può potersi di pagare il viaggio di ritorno.

Die Fackel, rivista in lingua tedesca pubblicata da Karl Kraus a Vienna tra il 1899 e il 1936

Dopo il rinnovato servizio militare, Loos entra nella società di costruzioni dell’architetto Carl Mayreder, da tre anni anche docente alla Technische Hochschule. Nel contempo scrive, acquisendo una certa notorietà attraverso i suoi articoli pubblicati su giornali e riviste in cui sostiene con tenacia e argomentazioni la riforma della professione. Trascorre le sue serate frequentando caffè e teatri, alla ricerca di una vita mondana che gli permetta di inserirsi nel cuore della società viennese fin de siècle. Al Cafè Griensteidl e al Cafè Central, stringe amicizia con due intellettuali di spicco, quali Peter Allenberg (pseudonimo di Richard Englander), eccentrico letterato più grande di una decina d’anni, e il coetaneo Karl Kraus, appartenente a una facoltosa famiglia ebrea di industriali della carta, che dal 1899 darà alle stampe la rivista Die Fackel (La fiaccola), attraverso la quale diffonderà critiche graffianti sulla società del tempo. Il lavoro professionale di Loos nei primi anni a Vienna riguarda solo la progettazione d’interni. Si occupa della ristrutturazione e dell’allestimento di banche, negozi e appartamenti, per i quali disegna anche gli arredi. Nel 1899 progetta il Café Museum all’angolo tra la Opemgasse e la Friedrichstrasse di Vienna, ancora oggi in funzione. Invece di realizzarne gli interni in tessuto felpato rosso – secondo l’arredamento consueto per i locali in voga – Loos decide di lasciare le pareti nude e di utilizzare dei mobili, da lui stesso disegnati, talmente essenziali che questo “disadorno” locale è subito soprannominato Café Nihilismus, in riferimento al rigetto di qualsiasi ornamento. ​

Adolf Loos, Café Museum, 1898-1899

«Adolf Loos si dimostra un sincero non-secessionista col suo caffè Museum; non nemico della Secessione viennese, ma qualcosa di diverso. Può essere in un certo modo nichilista, anzi molto nichilista, ma è attraente, logico, pratico, insolito» (Lajos Hevesi, Kunst auf der Strasse, Fremben Blatt, Vienna 30 maggio 1899).

Adolf Loos, American Bar Kärntner Durchgang Nr. 10, 1907

Subito dopo il Café Museum, Loos si occupa degli interni della casa del dottor Hugo Haberfeld in Alserstrasse. L’anno successivo esegue l’ammodernamento di una casa a Brunn e la sistemazione del Wiener Frauen-Club a Vienna. Sono lavori che lo pongono all’attenzione di una cerchia di persone benestanti, che conosce tramite l’amicizia di Karl Kraus e della sua cerchia, con cui condivide gli ideali di modernità. Realizza gli arredi dell’appartamento Turnowsky in Wohllebengasse e dell’appartamento Steiner in Gumpendorferstrasse. Sempre tramite Kraus progetta le abitazioni di Otto Stössl, due case per Chlotilde Brill Schweiger ed Elisabeth Reitler e poi gli appartamenti per i fratelli Alfred e Rudolf Kraus.

Villa Karma a Montreux, sulle rive del lago di Ginevra in Svizzera, 1904-1906

La prima grande opera di architettura di Loos è, tuttavia, la ristrutturazione e l’arredamento della Villa Karma a Clarens (Montreux) sul Lago di Ginevra dal 1903 al 1906 (completata dall’architetto croato Hugo Ehrlich dopo il 1908). A gennaio del 1903 il fisiologo viennese Theodor Beer, anche lui collaboratore come Loos della rivista Neue Freie Presse, lo aveva invitato a Clarens, per completare i lavori della sfarzosa villa. In questo progetto, Loos manifesta i suoi tratti caratteristici, come i corpi stereometrici – cubo e parte cilindrica – quali forme costruenti la geometria dello spazio edificato. L’interno è un susseguirsi di ambienti di diverse altezze e dai particolari tagli della luce. L’effetto decorativo è affidato ai materiali pregiati: marmo, legno, metallo. Utilizza vetri e specchi per conseguire illusioni spaziali.

Adolf Loos, Villa Steiner, nel 13° distretto di Vienna a St.-Veit-Gasse n. 10, 1910

Quando nel 1903 inizia Villa Karma, la rivista Kunst di Peter Altenberg il primo di ottobre esce con un supplemento interamente redatto da Loos e intitolato Das Andere. Ein Blatt zur Einfuhrung abendländischer Kultur in Osterreich (L’Altro. Foglio per la diffusione della cultura occidentale in Austria). Si prospettano vari allegati alla rivista, ma Das Andere si conclude già con il secondo numero del 15 ottobre, nel quale è inserito un polemico editoriale contro la Wiener Sezession.

L’Altro. Foglio per la diffusione della cultura occidentale in Austria

L’articolo è intitolato “Cosa ci vendono”. «In questa sezione – scrive Loos – voglio provare a educare il mio pubblico a conoscere. I fabbricanti di beni buoni benediranno il mio inizio, i fabbricanti di beni scadenti mi malediranno […] C’erano già approcci felici. Ricordo solo l’industria viennese della pelle, l’arte viennese dell’oreficeria. Era comprensibile quando qualcuno pagava per il suo desiderio di un buon materiale e di un lavoro corretto. Nessuno è mai stato considerato un idiota perché alla Würzl pagava quattro volte il prezzo di ciò che comprava in un negozio scadente per pochi soldi. Poi venne la Secessione e gettò fuori bordo tutte le buone idee. Tuttavia, alcuni mestieri furono risparmiati dalla Secessione. Lo dobbiamo a una fortunata circostanza se il Ministero della Pubblica Istruzione tuttora non ha nominato alla Scuola di Arti Applicate un artista “moderno” per la costruzione di carri, abbigliamento maschile e calzature. Per questo sono ancora all’apice».

Manifesto di Adolf Loos per la conferenza Ornament and Crime

La chiave per comprendere l’essenza della poetica di Loos è linguistica, afferma Luigi Prestinenza Puglisi, filtrata attraverso la riflessione di Karl Kraus, geniale indagatore dell’espressione verbale, direttore della rivista Die Fakel: «Un linguaggio scorretto – ecco la tesi di Kraus che sarà fatta propria da Loos, ma anche dal filosofo Wittgenstein e dal compositore Schönberg, tutti affezionati lettori della rivista – mischia fatti e valori. In architettura ciò avviene quando si vuole a tutti i costi rendere artistico il quotidiano, dando all’oggetto d’uso un’inusitata importanza. Quando si confonde l’urna con il pitale. È l’evoluzione culturale che porta a eliminare dal quotidiano la decorazione, togliendole la sua commistione con l’artistico. Se invece si vuole saltare il problema della civiltà, proponendo la scorciatoia dell’invenzione formale, non si possono che produrre disastri, rendendo retorico, cioè inautentico – e quindi brutto e farsesco – il mondo». Su questo, però, ci soffermeremo più attentamene, prendendo in considerazione Ornamento e delitto, il saggio più importante. Un saggio al quale Adolf Loos ha lavorato a lungo, limandolo e correggendolo, fino a modificarne l’anno originale in cui l’aveva composto per la prima volta, retrodatandolo al 1908 per assumere il primato nel confronto con i Secessionisti.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro e un disegno di OpenClipart-Vectors da Pixabay 

Call Internazionale per Installazioni per la terza edizione della Genova BeDesign Week

In occasione della Genova BeDesign Week 2022 che si svolgerà a Genova dal 18 al 22 maggio 2022, DiDe Distretto del Designe Festival del Tempo indicono congiuntamente un bando internazionale al fine di assegnare residenze per la realizzazione di installazioni all’interno di una parte del centro storico di Genova. Le due realtà, infatti, lavorano da anni alla rigenerazione sociale, culturale, economica e spirituale dei tessuti urbani nei quali sono inseriti: in particolare l’edizione di quest’anno della Genova BeDesign Week ha assunto il Tempo come suo tema portante, trovando connessioni evidenti con le finalità e gli obiettivi del Festival del Tempo.

DiDe Distretto del Design e Festival del Tempo lanciano la
Call Internazionale per Residenze per la terza edizione della
Genova BeDesign Week
18-22 maggio 2022

Scadenza candidature 16 aprile 2022

Il tema del concorso è incentrato sulle relazioni tra il corpo e lo spazio-tempo: le installazioni dovranno essere opere site specific che sappiano relazionarsi con i luoghi e gli spazi esterni e/o interni di una parte del centro storico di Genova e che contemplino, eventualmente, un coinvolgimento della comunità territoriale valorizzando le specifiche identità e peculiarità. La partecipazione al bando è gratuita ed aperta a tutti i cittadini residenti in Italia o all’estero, a partire dal 18° anno di età, senza limiti di nazionalità, sesso, etnia o religione. La residenza si svolgerà da sabato 14 maggio a domenica 22 maggio 2022: i progetti saranno inaugurati il 18 maggio e saranno visitabili e fruibili fino al 22 maggio, ovvero per tutto il periodo della Genova BeDesign Week 2022.

I vincitori del concorso (il numero preciso sarà presto comunicato) riceveranno un premio di euro 500,00, ospitalità e assistenza per tutto il periodo della residenza, avendo così l’opportunità di partecipare ad uno degli eventi più importanti a livello nazionale ed entrare in contatto con professionisti, operatori culturali ed aziende. La scadenza per le candidature è fissata al 16 aprile 2022 e tutte le informazioni e il bando sono disponibili sui siti web del DiDe Distretto del Design www.didegenova.it e del Festival del Tempo www.festivaldeltempo.it.

SCARICA IL MODULO DI PARTECIPAZIONE BANDO INTERNAZIONALE RESIDENZE
GENOVA BEDESIGN WEEK 2022 / FESTIVAL DEL TEMPO 2022


INFO

Genova Design Week
Associazione Distretto del Design APS
Via Chiabrera, 33 R – Genova
Tel.: +39 0102367619
segreteria@didegenova.it
https://www.didegenova.it

Festival Tempo
Associazione culturale blowart
Direttrice artistica Roberta Melasecca
tel. +39 3494945612
info@festivaldeltempo.it
www.festivaldeltempo.it

Segreteria Bando Internazionale Residenze
mail: iltempodelcorpo@gmail.com
Roberta Melasecca tel: + 39 3494945612
Monica Palazzini: tel: + 39 3488296767

Ufficio stampa DiDe Distretto del Design
mail: tomaso.torre@libero.it

Ufficio Stampa Festival del Tempo
mail: press@festivaldeltempo.it

Roma, Palazzo Bonaparte – JAGO. The exhibition

Dal 12 marzo, Palazzo Bonaparte a Roma ospita la prima grande mostra di JAGO. Jago scolpisce come Michelangelo ed è una rockstar. Amatissimo dal grande pubblico, mito per i giovani e fenomeno social, è l’emblema dell’artista contemporaneo, che unisce talento creativo e capacità comunicative.

Arthemisia propone la sua prima mostra, in contemporanea a quella dedicata all’icona della video-arte, BILL VIOLA. E propone anche il primo esperimento di studio d’artista durante l’esposizione: Jago lavorerà a una nuova opera all’interno delle sale di Palazzo Bonaparte, rendendo partecipe il pubblico della sua creazione.

Una primavera ricca di energia, dedicata all’arte contemporanea, a Palazzo Bonaparte.

JAGO
The exhibition

12 marzo – 3 luglio 2022 Palazzo Bonaparte, Roma

Jago
Habemus hominem, 2009 / 2016 1
Marmo, 60x35x69 cm
Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi (NA)
Photo by Francesco Bertola
TESTO CRITICO

Palazzo Bonaparte a Roma ospita dal 12 marzo al 3 luglio 2022 la prima grande mostra dedicata a Jago. Jago, pseudonimo di Jacopo Cardillo, nato a Frosinone nel 1987, scultore raffinato dalle reminiscenze michelangiolesche, è conosciuto in tutto il mondo come “The Social Artist” per le sue innate capacità comunicative e il grande successo che riscuote sui social.

Jago unisce un grande talento creativo all’utilizzo dei mezzi di comunicazione più contemporanei. E come tutti i grandi artisti, arriva al cuore del pubblico che lo ama, anzi lo adora. È una rockstar, e trasmette l’amore per l’arte ai giovani.

Le dirette streaming e le documentazioni foto e video raccontano il processo produttivo di ogni sua singola opera, e, mediante questo percorso condiviso, lo scultore rende tutti partecipi della genesi di ogni suo lavoro.

La genialità moderna di Jago viene raccontata per la prima volta in una mostra in cui sono esposte tutte le opere realizzate sino ad oggi, dai piccoli sassi di fiume scolpiti (da Memoria di Sé a Excalibur), fino alle sculture monumentali di più recente realizzazione (la Pietà), passando per le opere più mediatiche quali il Papa (Habemus Hominem).

Curata dalla Professoressa Maria Teresa Benedetti, la mostra vedrà esposte 12 opere di Jago, a connotare gli elementi chiave di un’opera dedicata a istituire un rapporto tra il nostro tempo e la tradizione.

Prima testimonianza è lo scavo sui grandi sassi raccolti nel greto di un fiume alle pendici delle Alpi Apuane, pazientemente scavati nel desiderio di raccontare una storia personale e umana. Pietà e violenza si intrecciano nello sguardo del giovane artista. Sorprendente è la scardinante nudità del Pontefice emerito, mentre l’immagine di una Venere (2018), priva della venustà giovanile, sconcerta e induce a riflettere. D’altro lato incalza l’oggi con la presenza del Figlio Velato (2019), icona simbolica di tragedie senza tempo, cui si connette l’intensa meditazione sul dolore, racchiusa nella drammatica monumentalità della Pietà (2021). Nel contempo l’artista propone un tema svincolato dalla storia, nel replicare la sequenza del battito cardiaco in Apparato Circolatorio (2017).

Palazzo Bonaparte si trasformerà inoltre in uno studio d’artista: durante i mesi di mostra, infatti, Jago lavorerà alla sua prossima imponente scultura all’interno della sede espositiva, rendendo partecipi i visitatori del processo creativo della sua opera.

L’esposizione JAGO. The Exhibition è prodotta e organizzata da Arthemisia con la collaborazione di Jago Art Studio. L’evento è consigliato da Sky Arte.

LA MOSTRA


Emblema dell’artista contemporaneo, che unisce talento creativo e rara abilità comunicativa, Jago afferma di sé: “mi considero un uomo e uno scultore del mio tempo. Utilizzo il marmo come materiale nobile legato alla tradizione ma tratto temi fondamentali dell’epoca in cui vivo. Il legame col mondo è fortissimo. Guardo a ciò che mi circonda, gli do forma e lo condivido.”

Scultore e comunicatore, Jago incarna la complessa figura dell’artista che si affida solo a sé stesso senza mediazioni, assumendosi per intero il compito di dialogare con il mondo. Attraverso le sue opere fornisce al pubblico una lettura personale della storia, risignificandola e utilizzando un materiale nobile come il marmo, appartenente alla tradizione, e procedimenti esecutivi classici (dal disegno al modello, dal bozzetto d’argilla al calco in gesso), insieme all’adozione della figura umana come soggetto prevalente.

Un codice e un linguaggio si esprimono nell’asperità di superfici ruvide, lontane dalla levigatezza, dalla lucentezza e dalla grazia di molte sculture del passato, ribadendo l’aspetto contemporaneo di un’inevitabile corrosione del tempo.

Nella puntuale ricerca di stimoli sempre nuovi, emerge in Jago un preciso interesse per elementi apparentemente inanimati da valorizzare, tale è il caso del sasso, scarto del processo di cavatura del marmo gettato nel fiume, forma capace di sollecitare emozioni e sviluppi.

È il caso dell’opera giovanile La pelle dentro dove la capacità dell’arto di penetrare in maniera veemente all’interno della materia è in grado di enucleare una forma che lo rappresenti. Il lavorio incessante dell’acqua sul sasso diviene metafora dell’intervento creativo e la mano è emblematicamente assunta a strumento principe di ogni possibile realizzazione. È la mano dello scultore, strumento fondamentale per ogni operazione creativa.

In Memoria di sé l’immagine di un bambino rispecchia lo scorrere dell’esistenza di un adulto. È un inno alla vita nel modo di unificarne gli aspetti fondamentali attraverso la circolarità delle emozioni.

Altrove, come in Excalibur, il sasso è assunto sfrontatamente a contenitore per la rappresentazione del kalašnikov, vistoso strumento della violenza in atto. Un rapporto tra l’aggressività e l’antico ideale cavalleresco citato nel titolo è segno di ironico contrappasso o ampliamento di contenuti ambiguamente presenti.

Dagli elementi evidenti in natura Jago passa a entità più scopertamente fisiche e anatomiche. Si allude ad Apparato Circolatorio, rappresentazione iconica del battito cardiaco in ognuna delle sue fasi dedicata a un amico scomparso. Un cuore continua a battere al di là della vita, nel pensiero di chi è stato amato. Ecco un modo di connotare di significati un’operazione nata all’insegna dell’individuazione di meccanismi biologici.

La nudità del pontefice emerito in Habemus Hominem è sigillo di un gesto di radicale spoliazione. Il corpo di Papa Benedetto XVI risulta denudato, il volto sorride con inedita dolcezza, il busto emaciato fa emergere l’umanità creaturale di chi è tornato a essere uomo.

Venere è bruscamente sottratta a significati tradizionali, privata di giovinezza e di ogni seduzione estetica, scelta allusiva a valori altri assertori di una diversa verità. Ciò non esclude che l’atteggiamento delle braccia si richiami ancora ad un’antica grazia.

Simbolico indizio di sofferenze atemporali è la figura del Figlio Velato, proveniente dalla Cappella dei Bianchi nel napoletano rione Sanità. Il fanciullo che giace inerme su una lastra marmorea racconta di una sorte oscura e drammatica, lo scacco di tanti innocenti che affrontano un cammino ricco di insidie, senza riuscire a toccare un approdo.

Allo stesso modo una forte carica evocativa si riscontra nella Pietà, icona simbolica dell’arte di Jago, accolta in Santa Maria in Montesanto a Roma da un pubblico di straordinarie dimensioni. Un uomo desolato sorregge il corpo inanimato di un adolescente, offrendo un’impressione di grandiosità scabra e solenne.

Come brusca successione temporale, additiamo la presenza nell’esposizione di un piccolo feto scolpito in marmo (The First Baby), affidato alle cure dell’astronauta Luca Parmitano. Portato nello spazio nel 2019, tornato in Terra l’anno successivo, rappresenta un modo di dilatare la presenza umana verso confini sempre più ampi.

Una mostra – per citare la curatrice Maria Teresa Benedetti – nella quale “Si può essere sedotti dai nuovi linguaggi ampiamente adottati nella pratica artistica contemporanea, avvertire l’innegabile appeal della digital life, ma si può anche intuire la necessità di non escludere la storia, custode di valori che arricchiscono il nostro presente, pure così dirompentemente diverso.”

L’ARTISTA

JAGO è un artista italiano che opera nel campo della scultura, grafica e produzione video.
Nasce a Frosinone (Italia) nel 1987, dove ha frequentato il liceo artistico e poi il Accademia di Belle Arti (lasciata nel 2010).

Dal 2016, anno della sua prima mostra personale nella capitale italiana, ha vissuto e lavorato in Italia, Cina e America. È stato professore ospite al New York Academy of Art, dove ha tenuto una masterclass e diverse lezioni nel 2018. JAGO ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali quali: la Medaglia Pontificia (consegnatagli dal cardinale Ravasi in occasione del premio delle Pontificie Accademie nel 2010), il premio Gala de l’Art di Monte Carlo nel 2013, il premio Pio Catel nel 2015, il Premio del pubblico Arte Fiera nel 2017 e ha inoltre ricevuto l’investitura come Mastro della Pietra al MarmoMacc del 2017.

All’età di 24 anni, su presentazione della storica dell’arte Maria Teresa Benedetti, è stato selezionato dal prof. Vittorio Sgarbi per partecipare alla 54a edizione della Biennale di Venezia, esponendo il busto in marmo di Papa Benedetto XVI (2009) che gli è valso la suddetta Medaglia Pontificia. Questa scultura giovanile è stata poi rielaborata nel 2016, prendendo il nome di “Habemus Hominem” e divenendo una

delle sue opere più significative. L’opera, che raffigura la spoliazione del Papa emerito da suoi paramenti, è stata esposta a Roma, nel 2018, presso il Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese, con un numero record di visitatori (più di 3.500 durante la sola inaugurazione).
A seguito di un’esposizione all’Armory Show di Manhattan, JAGO si trasferisce a New York. Qui inizia la

realizzazione del “Figlio Velato”, opera ispirata al Cristo Velato del Sanmartino, esposta permanentemente all’interno della Cappella dei Bianchi nella Chiesa di San Severo fuori le mura. La ricerca artistica di JAGO occupa una complessa cornice concettuale che, tuttavia, fonda le sue radici nelle tecniche ereditate dai maestri del Rinascimento, tentando di instaurare un rapporto diretto con il pubblico mediante l’utilizzo dei video e dei social network, attraverso i quali condivide il processo produttivo delle sue opere.

Nel 2019, in occasione della missione Beyond dell’ESA (European Space Agency), JAGO è stato il primo artista ad aver inviato una scultura in marmo sulla Stazione Spaziale Internazionale. L’opera, intitolata

“The First Baby” e raffigurante il feto di un bambino, è tornata sulla terra a febbraio 2020 sotto la custodia del capo missione, Luca Parmitano. Da maggio 2020 Jago risiede a Napoli, dove lavora nel suo studio nella Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi e dove, a inizio novembre, ha realizzato l’installazione “Look Down” in Piazza del Plebiscito, mentre il 1 ottobre 2021, installa l’opera “Pietà” nella Basilica di Santa Maria in Montesanto, in Piazza del Popolo a Roma.


Siti internet
www.mostrepalazzobonaparte.it
www.arthemisia.it

Social e Hashtag ufficiale
@arthemisiaarte
@jago.artist
#JagoBonaparte

Ufficio Stampa
Arthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
T. +39 06 69380306

Roma, Cooperativa Sociale Integrata Onlus Magazzino: Cieli di fango – Mostra fotografica di Sergio Sechi

Il giorno 12 marzo 2022, presso gli spazi della Cooperativa Sociale Integrata Onlus Magazzino, inaugura la mostra fotografica Cieli di fango di Sergio Sechi a cura di Maria Arcidiacono, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale

Cieli di fango
Mostra fotografica di Sergio Sechi

a cura di Maria Arcidiacono

Inaugurazione sabato 12 marzo ore 11.00 – 18.00

Cooperativa Sociale Integrata Onlus Magazzino
Via Federico Borromeo, 67 – Roma (zona Primavalle)

Fino a sabato 19 marzo 2022

Sergio Sechi, Codice a barre, 2021
TESTO CRITICO

Ispirandosi a un brano di Renato Zero, Periferia, Sergio Sechi ha deciso di percorrere le strade di Primavalle dove attualmente lavora, rintracciandovi atmosfere e realtà che appartengono a tutte le periferie, grazie anche a quei ‘cieli di fango’ che gravano su di esse, rendendole simili tra loro.

Sechi è entrato nei cortili, nelle case popolari, ha parlato con operai, con ragazzi, con persone anziane, sentendosi alternativamente un po’ straniero e un po’ fratello, facendosi talvolta rappresentare nei suoi scatti da Valentina, una ragazza torinese, modella per un giorno, catapultata in una realtà smisuratamente distante dal suo quotidiano. 

Del progetto fa parte integrante la Cooperativa Sociale Magazzino che da trent’anni lavora con e per gli utenti del vicino DSM (Dipartimento di Salute Mentale) della ASL ROMA 1, scelta dal fotografo non solo come sede espositiva ma anche per i suoi preziosi laboratori di corniceria e stampa, dove sono state realizzate sia le cornici per le opere in mostra sia le brochure.

Così come Franco Basaglia, al quale è intitolata la vicina biblioteca, ha illuminato con il suo messaggio rivoluzionario la ricerca psichiatrica riconducendo la malattia mentale alla sua spoglia ed essenziale definizione di ‘condizione umana’, anche la narrazione sulla periferia andrebbe scardinata: interrogando i luoghi, come fa l’Associazione di promozione sociale Ottavo Colle -che partecipa al progetto con una passeggiata dedicata-, si può andare oltre le apparenze, si possono mettere da parte luoghi comuni e binomi come degrado-violenza, ritrovando energie inattese e pagine di nuovi alfabeti tutti da sfogliare.

Sergio Sechi, Cieli di fango, 2021

Sergio Sechi è nato nel 1967 a Roma, dove vive e lavora. Ha frequentato fino al 1984 l’Istituto Statale d’Arte Silvio d’Amico per poi diplomarsi al Liceo Artistico Casal de Merode. Dopo una lunga pausa (1984-2014) ha ripreso l’attività di fotografo. I suoi scatti compaiono su periodici e quotidiani (tra i quali Premium, Focus Storia e il Sole 24 Ore) e sono stati scelti come copertine per alcuni volumi di narrativa e saggistica. A partire dal 2016 ha esposto in più occasioni in mostre collettive presso spazi espositivi romani e presso l’ex convento dei domenicani a Muro Leccese (LE) in occasione di “For the love of God”, collettiva artistica internazionale. Nel 2017 ha partecipato con una sua opera a “Les Rencontres de la photographie” ad Arles. Nel 2018 ha realizzato la sua prima mostra personale “Sono andato a letto presto” presso MagmaLabSpace in Roma. Nel febbraio 2020 ha partecipato al progetto The Darkroom Project #7 (Biennale_MArteLive_Plus) presso il Castello di Santa Severa (RM).


INFO

Cieli di fango
Mostra fotografica di Sergio Sechi
a cura di Maria Arcidiacono
con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale
in collaborazione e con il sostegno della Cooperativa Sociale Integrata Onlus Magazzino
in collaborazione con l’Associazione di promozione sociale Ottavo Colle
Graphic design: Alessandro Arrigo
Stampe: Tommaso Mariani

Inaugurazione sabato 12 marzo ore 11.00 – 18.00
Fino a sabato 19 marzo 2022
Orari: domenica 13 marzo 10.30 – 13.00; da lunedì 14 a sabato 19 marzo 15.00 – 18.00

Cooperativa Sociale Integrata Onlus Magazzino
Via Federico Borromeo, 67 – Roma (zona Primavalle)
info@coopmagazzino.it
tel. 066144451
www.coopmagazzino.it

Ufficio Stampa
Roberta Melasecca
Melasecca PressOffice – Interno 14 next
tel. +39 349.4945612
roberta.melasecca@gmail.com
www.melaseccapressoffice.it
www.interno14next.it

Treviso: 5 marzo1922/2022. PIER PAOLO PASOLINI. Manifesti per il suo cinema

Nasce dalla collaborazione tra il Museo Nazionale Collezione Salce (Direzione Regionale Musei Veneto), la Cineteca del Friuli e Suasez, l’originale viaggio nel cinema di Pier Paolo Pasolini, che apre i battenti a Treviso, nella chiesa di San Gaetano che per la prima volta diventa sede espositiva. La mostra, che si potrà ammirare sino al 3 luglio, è a cura del Museo Nazionale Collezione Salce. Ad essere proposti sono 21 manifesti, tutti provenienti dal Fondo Gianni Da Campo della Cineteca del Friuli di Gemona del Friuli; ad accompagnarli, un nuovo manifesto dedicato al centenario pasoliniano, appositamente creato da Renato Casaro, il grande cartellonista trevigiano cui è dedicata, sino al primo maggio, una antologica in tre sedi: le due della Collezione Salce e il Museo Civico di Santa Caterina.

05 Marzo 2022 – 03 Luglio 2022

Treviso, Museo Nazionale Collezione Salce (Chiesa di San Gaetano)

5 marzo1922/2022. PIER PAOLO PASOLINI. Manifesti per il suo cinema

Mostra a cura del Museo Nazionale Collezione Salce; organizzazione Suasez

http://www.collezionesalce.beniculturali.it

I manifesti proposti dalla mostra sono quelli di Accattone (1961), Amore e rabbia (1969 – sequenza del Fiore di carta), Appunti per un film sull’India (1968), Capriccio all’italiana (1968), Che cosa sono le nuvole? Comizi d’amore (1964), Edipo re (1967), Le streghe (1967), La Terra vista dalla Luna, Mamma Roma (1962), Medea (1969), Porcile (1969), La rabbia (1963) docu-film in due parti, Ro.Go.Pa.G. (1963), La ricotta, Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo (1965), Teorema (1968), Uccellacci e uccellini (1966), Il Vangelo secondo Matteo (1964), 12 dicembre, regia non accreditata e condivisa con Giovanni Bonfanti (1972), Appunti per un’Orestiade africana (1970), Il Decameron (1971), Il fiore delle Mille e una notte (1974), Le mura di Sana’a (1971), I racconti di Canterbury (1972), Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), Storie scellerate (1973). Inoltre altri film con Pasolini coinvolto nella veste di sceneggiatore, attore, o altro: La notte brava (1959), Il bell’Antonio (1960), Requiescat (1967).

“Dal 1961 al 1975, anni in cui Pasolini realizzò i suoi film, evidenzia Daniele Ferrara, Direttore Regionale Musei Veneto, la promozione cinematografica era affidata prevalentemente ai supporti cartacei, manifesti, locandine e fotobuste. La realizzazione di alcune di queste affissioni venne affidata a celebri pittori, in altri casi a grafici che impaginavano materiale fotografico. Naturalmente il tutto era condizionato dalle esigenze della produzione e della distribuzione.

Per la locandina di Accattone Pasolini aveva beneficiato dell’apporto di pittori importanti come Corrado Cagli, Carlo Levi, Mino Maccari e Anna Salvatore che avevano ognuno disegnato un manifesto. Il pittore ufficiale però fu Alessandro Simeoni (1928-2008), in arte Sandro Symeoni che ritrae il protagonista Vittorio Cataldi (Franco Citti) in un cromatismo scuro.

La locandina di Mamma Roma è una composizione grafica di Gigi De Santis che mostra una fotografia in cui Mamma Roma abbraccia il figlio Ettore mentre questi guida una motocicletta. La locandina della Rabbia invece è dello Studio Ravalli, e in essa Pasolini si mette in posa a sinistra per contrapporsi a Giovannino Guareschi collocato a destra. Comizi d’amore (1964), realizzato prima del Vangelo ma uscito dopo, venne illustrato dal pittore Mauro Innocenti in arte Maro, che ritrae due ragazzi innamorati, abbracciati. Uccellacci e uccellini (1966) è invece un disegno di Carlantonio Longi (1921-1980). Edipo re (1967) è realizzato da Roberto De Seta, in arte Bob De Seta che mostra il servo di Laio che trasporta il piccolo Edipo sull’Acheronte dove rinuncerà a sopprimerlo e la reggia di Tebe dove egli sposerà la madre usurpando il trono paterno. Anche Teorema (1968) è di Bob De Seta. Vi domina il volto di Terence Stampo, e con l’immagine di Silvana Mangano sottostante. Porcile (1969) venne dipinto da uno dei più importanti pittori di cinema Angelo Cesselin. Enrico De Seta è il grafico, oltre che disegnatore, del film Medea (1969) dove vennero montate alcune foto di Mario Tursi (1929-2008)”.

“Con questo omaggio che abbiamo voluto tributare a Pier Paolo Pasolini il Museo Salce avvia una collaborazione con la Cineteca del Friuli, a confermare – afferma ancora il Direttore della Direzione Regionale Musei Veneto (Ministero alla Cultura), Daniele Ferrara, una precisa strategia: porre sempre più il Salce all’interno di una rete nazionale ed internazionale di ricerca, scambi e collaborazioni. Una scelta che sarà ulteriormente messa a punto nel programma espositivo e di studio che il Museo sta mettendo in atto con la nuova direzione affidata ad Elisabetta Pasqualin.

“Per la prima volta, evidenzia Chiara Matteazzi, che della mostra è l’allestitore, la chiesa di San Gaetano, annessa alla omonima sede espositiva del Salce, diventa sede di mostre. L’allestimento è stato realizzato al centro dell’edificio per consentire di ammirare l’ambiente e le opere d’arte della chiesa, recentemente restaurata dalla Direzione Regionale e da essa aperta alle visite”.


Info: www.collezionesalce.beniculturali.it

Ufficio Comunicazione Museo Salce:
Mariachiara Mazzariol mariachiara.mazzariol@beniculturali.it tel 0422 591936
Vincenza Lasala drm-ven.comunicazione@beniculturali.it

Ufficio Stampa della Mostra.
Studio ESSECI, Sergio Campagnolo tel. 049.663499
simone@studioesseci.net rif. Simone Raddi

Orari di apertura:
Venerdì, sabato, domenica, dalle 10.00 alle 18.00

IMMAGINE DI APERTURA – Pasolini, interpretato da Renato Casaro.