Alberto Fiorin – Nascita della bicicletta, nascita del turismo

“Ruota a ruota. Storie di biciclette, manifesti e campioni”, dal 26 maggio al 2 ottobre, è in Santa Margherita, nuova sede del Museo Nazionale Collezione Salce. La mostra è a cura di Elisabetta Pasqualin; consulente storica Antonella Stelitano; da un’idea di Chiara Matteazzi.

Fino al 02 Ottobre 2022

Treviso, Museo Nazionale Collezione Salce (Chiesa di S. Margherita)

RUOTA A RUOTA.
Storie di biciclette, manifesti e campioni

Mostra a cura di Elisabetta Pasqualin. Consulente storica Antonella Stelitano.
Da un’idea di Chiara Matteazzi

Mario Bazzi, Pneumatico “Union”. Gardiol Milano, 1925-35
LA MOSTRA

Nascita della bicicletta, nascita del turismo

(Testo di Alberto Fiorin per il catalogo edito da Silvana Editoriale)

Una vera rivoluzione copernicana è avvenuta nel mondo dei trasporti con l’invenzione della bicicletta: si introducevano infatti due concetti nuovissimi, libertà e velocità.

Si può a buon diritto affermare che il turismo moderno sia nato attorno agli anni Ottanta del XIX secolo in contemporanea proprio alla standardizzazione della safety-bike – cioè della bicicletta con due ruote della stessa dimensione e quindi molto più stabile e sicura rispetto al biciclo o velocipede – perché consentiva al tourista, al routier (scritto così alla francese), la massima libertà di movimento.

Se il treno qualche decennio prima aveva provocato un abbattimento delle frontiere avvicinando gli spazi e riducendo i tempi, la bicicletta ora permetteva a quello stesso territorio di essere esplorato capillarmente e soprattutto individualmente.

Per la prima volta ci si poteva muovere in piena autonomia, senza seccature di cocchieri da allertare o di cavalli da cambiare: ecco perché possiamo parlare di libertà. Inoltre in bici ci si spostava tanto celermente come nessun altro mezzo allora consentiva, neppure il treno, costretto alle frequenti soste alle stazioni e per i rifornimenti di acqua e di carbone: ecco perché parliamo di velocità.

E proprio il concetto di velocità, questa nuova ebbrezza cui abbandonarsi lasciandosi sferzare dal vento in una discesa da scavezzacollo, era dichiarato esplicitamente da tutti i primi circoli di appassionati delle due ruote che sorsero in Italia col nome di Veloce Club. Così – tout court – senza alcuna specificazione. Non era ancora necessario data la mancanza di concorrenti: solo con il successivo avvento dell’automobile si sentì l’esigenza di aggiungere l’aggettivo ciclistico.

E a proposito di associazioni, sempre in quei decenni, cioè nel 1894, nacque il Touring Club Ciclistico Italiano – a ruota di quelli sorti qualche anno prima in numerose nazioni europee il cui capostipite è stato l’inglese Cyclists’ Touring Club – che aveva proprio come suo ragione sociale il favorire la conoscenza del territorio ai primi ciclisti-viaggiatori tramite la produzione di una cartografica dettagliata e la realizzazione di specifiche guide e opuscoli contenenti le informazioni necessarie per tracciare viaggi ciclistici in sicurezza, la produzione e sistemazione di una coerente e uniforme segnaletica stradale (non dimentichiamo che nell’Italia post-unitaria erano presenti ampie differenze: ad esempio nel meridione si era ancora fermi alle indicazioni del periodo borbonico), aiutare i propri associati a riparare i propri mezzi grazie alle cassette con attrezzi disseminate in luoghi strategici lungo le strade maggiormente percorse dai ciclisti…

Sono decenni di fermenti, di invenzioni, di innovazioni: l’industria della produzione della bicicletta diverrà il volano di tutta l’industria meccanica leggera e le sue principali componenti meccaniche (in primis i cuscinetti a sfera, la catena di trasmissione, la demoltiplica) vennero applicate successivamente ad altre invenzioni come l’automobile, la motocicletta, la macchina da scrivere e la macchina da cucire.

Non è certo un caso che le grandi aziende diventate note per la produzione di automobili (Peugeot, Bianchi, Opel, Adler) iniziarono col creare biciclette, specializzandosi solo dopo nella fabbricazione di auto; la stessa FIAT produsse anche velocipedi. C’era chi fabbricava, assieme alle bici, anche moto (Dei, Mars, Ganna, Marchand), stufe, macchine da maglieria, macchine da scrivere (Adler), macchine da cucire (Prinetti e Stucchi, Frera, Opel, Adler, Singer, Gritzer) o addirittura armi (Steyr-Puch), mostrando come tutta l’industria sia stata stimolata e trainata dalla produzione ciclistica.

Accanto ad invenzioni come la camera d’aria (il medico irlandese John Dunlop nel 1888) e lo pneumatico smontabile (Edouard e André Michelin nel 1891), che consentivano di ridurre l’attrito e aumentare la velocità, per rendere la vita più facile al turista in bicicletta che aveva il bisogno di immortalare i propri viaggi e la bellezza dei paesi scoperti ecco l’invenzione della macchina fotografica portatile (Eastman Kodak nel 1888) pensata per contenere pesi e spazi rispetto al classico catafalco con cavalletto, lastre e magnesio: è la prima macchina fotografica per non professionisti.

Ma l’industria della bici aveva anche bisogno di vendere, di farsi conoscere, di conquistare il mercato, di esporre i propri oggetti e infatti negli anni a cavallo tra Otto e Novecento si svilupparono delle interessanti campagne pubblicitarie che videro importanti artisti disegnare affiche molto stimolanti e accattivanti, che costituirono degli esempi da imitare entrando a buon diritto nella storia della pubblicità. In questa esposizione ne abbiamo degli straordinari esempi.


Info: www.collezionesalce.beniculturali.it

Ufficio Comunicazione Museo Salce:
Mariachiara Mazzariol mariachiara.mazzariol@beniculturali.it tel 0422 591936
Vincenza Lasala drm-ven.comunicazione@beniculturali.it

Ufficio Stampa della Mostra
Studio ESSECI, Sergio Campagnolo tel. 049.663499 simone@studioesseci.net rif. Simone Raddi

Satoshi Yagisawa – I miei giorni alla libreria Morisaki

Traduzione di Gala Maria Follaco 

Jinbōchō, Tōkyō: il quartiere delle librerie, paradiso dei lettori. Benché si trovi a pochi passi dalla metropolitana e dai grandi palazzi moderni, è un angolo tranquillo, un po’ fuori dal tempo, con file di vetrine stipate di volumi, nuovi e di seconda mano. Non tutti lo conoscono, i più vengono attratti dalle mille luci di Shibuya o dal lusso di Ginza, e neppure Takako – venticinquenne dalla vita piuttosto incolore – lo frequenta, anche se proprio a Jinbōchō si trova la libreria Morisaki, che appartiene alla sua famiglia da tre generazioni: un negozio di appena otto tatami in un vecchio edificio di legno, con una stanza adibita a magazzino al piano superiore. È il regno dello zio Satoru, che ai libri e alla Morisaki ha dedicato la vita, soprattutto da quando la moglie lo ha lasciato. Entusiasta e un po’ squinternato, Satoru è l’opposto di Takako, che non esce di casa da quando l’uomo di cui era innamorata le ha annunciato che sposerà un’altra. Ed è proprio lui, l’eccentrico zio, a lanciarle un’imprevista ancora di salvezza proponendole di trasferirsi al piano di sopra della libreria in cambio di qualche ora di lavoro. Takako non è certo una gran lettrice ma, quasi suo malgrado, si lascia sorprendere e conquistare dal piccolo mondo di Jinbōchō. Tra discussioni sempre più appassionate sulla letteratura moderna giapponese, un incontro in un caffè con uno sconosciuto ossessionato da un misterioso romanzo e rivelazioni sulla storia d’amore di Satoru, scoprirà pian piano un modo di comunicare e di relazionarsi che parte dai libri per arrivare al cuore. Un modo di vivere più intimo e autentico, senza paura del confronto e di lasciarsi andare.

(Testo tratto dalla scheda editoriale su IBS).

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro