21- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Le feste

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Le feste

Pino non s’era mai levato di mente il cavallo di Ganola e qualche volta me ne parlava. Una sera che tornavamo da Pozzengo fece per prendere la stradetta e a me che lo guardo dice: — Torno stanotte —. Tornò infatti l’indomani a prima luce e passò dal fienile. Quel giorno in campagna gli dissi: — Va’ a dormire nelle canne, – e lui stava seduto e rideva. – Almeno lavora —, ma Pino guardava la collina e disse: — Girerei tutto il giorno, se quel cavallo fosse mio —. Io pensai che un cavallo non era una vigna, ma non si può ragionare con un fratello che invece che alle ragazze parla ai cavalli. Dissi invece: — Non dormono i cavalli di notte? — E Pino, sempre con quell’aria incantata: — Ho girato, sono andato alle Rocche.

Nel vallone di Ganola mi toccava passarci ogni tanto, perché salva il giro di mezza collina. Alla cascina sopra il bosco, cintata di canne vive, era un pezzo che non salivo, da quando l’ultima figlia di Ganola se n’era andata per il mondo. Adesso si passava là sotto, e mai che intorno si muovesse una voce o qualcuno. Le colture erano mezzo in selvatico; il vecchio Ganola aveva abbandonato la vigna e dicevano che tutto il resto fosse a prato. Terra buona com’era, si aspettava soltanto che Ganola morisse. Ma i vecchi non muoiono. Quando Pino era piccolo, ci venivamo a spannocchiare: allora c’erano le ragazze, c’era Bruno, si stava allegri le giornate intiere. La cascina era dei giovani; Ganola già vecchio andava a caccia e lo sentivamo sparare di là dai coltivi, nei boschi sulle Rocche. Allora mettevamo insieme le capre e si saliva sui prati di punta; veniva sera che ancora non ne avevamo abbastanza e tornavamo rotolandoci e gridando fin sulla strada. Ganola già allora ci faceva paura e comandava tutti con gli occhi; ma se aveva ammazzato bene si metteva a ridere e ci lasciava toccare gli uccelli insanguinati che portava a tracolla. Per darli alle donne li staccava e li buttava in terra, e bisognava vedere il cane che in due non si riusciva a tenerlo. Io a casa dicevo che avrei voluto andare a caccia, ma piú acceso di me era Pino che non si staccava da quel cortile se non m’incamminavo minacciando di lasciarlo tornar solo. Poi venne l’età che non avemmo piú paura a girare di notte, e allora con Bruno andavo a ballare e chi pensava piú alla caccia; ma Bruno bisognava sentirlo quando diceva novità ai forestieri per attaccar lite. Qui era tutto suo padre, e nell’estate che girammo insieme per queste feste, venni a sapere che Ganola da giovane era peggio di noi perché allora nessuno li teneva e portavano in tasca il coltello. Molto presto lasciai Bruno andare solo, perché gli piaceva da una festa passare in un’altra traversando giorno e notte per fare a tempo, e cercar da mangiare nelle case come un ladro. Con lui non si sapeva, partendo, fin dove si sarebbe arrivati.

Bruno montava già in quell’anno. Alla festa di Popolo la cavalla s’era fatta ingravidare da qualche demonio del circo mentre, staccata dal biroccino, mangiava l’erba dietro al baraccone, e aveva figliato un rosso pezzato che Ganola disse subito: — Questo lo facciamo correre —. Bruno s’impratichí con la vecchia su e giú per il prato di cresta, e quando fu tempo montò il cavallino. Saranno cinque anni fa. Noialtri, specialmente Pino, eravamo frenetici, tutto il giorno sulla strada per vederlo passare, ma qui c’era di mezzo Ganola che accompagnava Bruno nel prato e ci diceva che non voleva spie. Certi giorni invece, quando Bruno arrivava tempestando chino sulla criniera, Ganola gridava anche a me di guardare, di acchiappare quel vento.

Pino allora era un maschiotto che nessuno gli faceva caso. Poi c’erano i giorni che il cavallo non voleva saperne e allora su quel cortile si trattavano a calci e strapponi e non bastava la forza di Bruno a domarlo. Le ragazze scappavano. Ganola s’imbestialiva e dava lui di mano al morso, e il cavallo saltava e menava la coda, e neanche Pino gli restava intorno. Nostro padre diceva che avrebbero fatto meglio a legarlo all’aratro e che a non lavorare anche le bestie si guastano.

In quella casa erano a posto soltanto le donne; pareva che sapessero come andava a finire. Pino adesso non vuol ricordarsene, ma da bambini lui e Carmina si parlavano. E Carmina morí proprio quell’autunno dopo che Bruno fece la corsa. Era già in letto alla Madonna di settembre e sua sorella per stare a vegliarla non venne alla festa; quando i suoi tornarono cantando e gridando, dicono che dalla stanchezza lei voltò la faccia al muro e piangeva, povera ragazza.

Venne anche Pino, si capisce: era la prima festa fuori paese che nostro padre gli lasciava vedere; e per tutto quel giorno non si staccò né da Bruno né dalla stalla del parroco dove avevano chiuso i cavalli: ballare non ballava ancora. Io li andai a cercare verso sera. Bruno era già sul prato da due giorni e maneggiava, vestito con gli stivali e il fazzoletto al collo, e Ganola sorvegliava il cavallo. Avevano fatto al mattino una corsa di prova ch’era andata male, e adesso si chiusero insieme nella stalla e Ganola era cattivo in faccia: voleva che uscissimo tutti, io mi fermai contro una scala. Anche Pino guardava. Allora Ganola stappò una bottiglia di vino buono, riempí una scodella e la ficcò sotto la lingua del cavallo che si scrollava. Il cavallo bevve tutto. Poi si fecero indietro, e Ganola, dato mano alla frusta, gli menò sui garetti e sull’osso del culo tre o quattro botte del manico, che lo fecero scattare come una biscia. Prese subito un’aria slanciata, da gatto: si capiva che il vino gli era arrivato dappertutto. Ganola ghignava. — Non ne avresti bisogno, — gli disse. E allora il cavallo si drizzò ringhiando. Faceva paura.

La corsa la vinsero loro. Mi ricordo la sera su quel prato, dopo che la gente si era dispersa, e veniva il fresco della luna, i baracconi al fondo accendevano l’acetilene, e il ballo aveva smesso di suonare. Trovo Pino dietro una pianta, solo, che piangeva e non voleva farsene accorgere. — Va’, – gli dico, – cerca qualcuno, parla con le ragazze —. Allora credevo che pensasse a Carmina. Macché, piangeva dalla rabbia di non essere un cavallo anche lui. — Restiamo con Bruno, — diceva. L’aveva già preso la malattia di girare di notte, e mica per ballare o divertirsi, ma per fare da solo il mattino e ritrovarsi il giorno dopo chi sa dove. Quella notte cenammo dal parroco, una tavola di gente: Ganola beffeggiava i padroni degli altri cavalli e tutti lo lodavano, e lodavano Bruno che mangiava gobbo sul piatto come se fosse ancora in corsa, e io pensavo che aveva l’età di Pino. Dalla finestra della stanza entrava la musica e il baccano della gente. Noi parlavamo delle corse degli anni passati e di quelle da farsi. Fu una bella notte. La luna durò fino a casa.

Quella notte Ganola non sapeva il suo destino. Carmina morí verso i Santi, e nell’inverno la madre le andò dietro dalla disperazione. Non mangiava piú da un pezzo. — Donne, — disse Ganola, tornando dal funerale. L’altra figlia, Linda, ch’era sempre stata piú fiera e teneva le parti della vecchia, si mise a urtare i due uomini tutte le volte che poteva. Facevano voci che si sentivano dalla strada. Non so Pino, ma da allora io ci andai piú di rado. Quell’autunno Ganola non lavorò neanche mezze le terre. Andava a caccia con Bruno e pensavano soltanto al cavallo. Ogni tanto prendevano il treno per andare a comprargli qualcosa. Poi comperarono gli sproni.

Dicono che quel giorno Bruno non voleva metterli, perché il cavallo era tranquillo. Ma Ganola ridendo: — Meglio che impari e sappia subito —. Gli tenne il morso fin che Bruno fu salito, poi gli diede l’abbrivo. Si vide uno scarto e il cavallo drizzarsi come una biscia, poi saltarono in aria e Bruno volò nel cortile. Restò là come un sacco. Se il cavallo non si ficcava come un matto nel portico che aveva davanti, Ganola non lo avrebbe acchiappato mai piú.

Cosí Bruno era morto, e Linda adesso voleva ammazzare il cavallo. Ganola in quei giorni, dicono che tralasciava ogni tanto di accendere il fuoco o parlare col prete o chiudere la stalla, per picchiarla come si picchia il grano. S’era fatto strabico, una barba come la stoppia, i calzoni sbottonati, e da quel giorno né alla barba né ai calzoni non ci pensò piú. Finché Linda scappò di casa.

Storie vecchie. Da allora io, potendo, giravo alla larga. Anche Pino, mancandogli Bruno, s’andò a mettere per altre colline. L’anno dopo dicevano che parlava a una ragazza del Ponte. Nell’estate, alle feste ci andò per conto suo e tornavamo qualche volta insieme, ma piú sovente lui spariva e si metteva per lo stradone e ritornava l’indomani. Non sembravamo neanche fratelli. Di Ganola me n’ero dimenticato. Ne parlava qualche volta nostro padre. Contò che uno di Odalengo era andato nell’inverno per comprare la riva di bosco che aveva sopra il vallone, e non era neanche riuscito a entrare in discorso. Ganola l’aveva tenuto sulla porta come un vagabondo e congedato in due parole, senza posare un secchio che portava nella stalla. Da quando Linda se n’era andata, non si muoveva quasi piú di casa: per paura che gli rubassero il cavallo, sembra, ma, diceva la gente, perché sapeva di dover morire. So che Pino in quell’anno e negli altri l’aiutò a vendere e comprare roba e qualche volta gli tagliava il fieno. Pino diceva per esempio che le belle giornate Ganola staccava il cavallo, e lo montava come poteva e girava su e giú per la collina. Sul mezzogiorno poi, quando il sole spaccava e tutti mangiavano, se ne andava di cresta in cresta anche lontano. Tanto che, sul lavoro, se era l’ora bruciata, Pino guardava la collina e diceva: — Il cavallo passeggia.

Un giorno m’era toccato andare da Ganola a cercare una botte che gli avevamo imprestato in altri tempi. Non so perché non ci andasse Pino, ma insomma attaccai la vacca e andai io. Era una sera di nebbia e salendo quella strada mi ricordavo di quando venivamo con le capre e c’era Bruno, c’era Carmina, e Ganola tornava con gli uccelli, noi con le castagne, e Linda senza parlare ci portava la fascina, e mettevamo la padella al fuoco. Proprio a quell’ora, perché la nebbia poi tappava strade e boschi e bisognava essere a casa. Mi fermai nel cortile e cercai nello stanzone già scuro. Non c’era nessuno, e cosí nella stalla. Invece di chiamare, mi sedetti alla porta, e guardavo la nebbia.

Ganola arrivò poco dopo, tirandosi a mano il cavallo. Spuntò dalla nebbia prima il collo e la testa di quel demonio, che non era bardato e sollevava in su la mano di Ganola stretta al morso. In quattr’anni era cresciuto come un platano; di pelo sembrava le foglie dei platani che cadono rosse: quando fu tutto nel cortile si vide che Ganola si era fatto piú piccolo, curvo, e lui lo dominava di una testa. Con Ganola parlammo come ci fossimo veduti il giorno prima. Nella stalla dove condusse il cavallo era tutto vuoto, neanche una capra. Lo legò alla sua stanga, gli gettò il fieno e, prima di uscire, gli batté la mano sul collo. Mentre portavamo la botte al carro non disse tre parole. Sputava soltanto, nella barba.

Quando gliela raccontai, Pino mi disse che in quei giorni Ganola lavorava la coltura sotto il pozzo, perché quell’anno voleva seminare. — Se non fosse che è vecchio, si dovrebbe sposare un’altra volta, – dissi; – cosa fa, solo, giorno e notte? — La compagnia non gli manca, – disse Pino. – E tu ce l’hai la compagnia? — chiesi ridendo. Pino scrollò la testa.

Pino adesso lavorava con me, e nostro padre era contento. Ma c’erano i giorni che tornava dallo stradone, e allora era a me che toccava aprir l’occhio e aspettarmi un bel momento qualche novità. La sentivo venire. Finché una sera, a tavola, Pino dice che è stufo di zappare la terra e vuole andare a lavorare alle Cave: è un lavoro anche questo e nel mondo bisogna cambiare. Nostro padre lo guarda. Io sto zitto perché sapevo che, quando Pino ha una cosa in mente, non gliela leva nessuno. Ma Pino diceva le Cave per dire: non piace a nessuno chiudersi sotto terra per il gusto di starci. Quel che voleva era girare, vedere qualcosa. — Ci andrai quest’inverno, – rispose mio padre, – imparerai quel che vuol dire.

Pino lasciò le Cave in primavera: ne aveva abbastanza. Tornò, magro come un chiodo, con un vagabondo di Pozzengo, uno zoppo dalla cacciatora strappata che aveva conosciuto alle Cave, e dormirono qualche notte sul nostro fienile. Parlavano poco e giravano insieme sulla strada. Non mi piaceva quel tipo, ma mio padre lo prese in burla e lui se ne andò. Pino stette tranquillo.

Piú nessuno adesso diceva di quella ragazza del Ponte: io credo non ci fosse mai stata. La gente incontrava Pino sulla strada della stazione, dove lui aveva dei soci delle Cave e la domenica si chiudevano nelle osterie. Poi guardavano il treno arrivare e si conoscevano coi ferrovieri e sapevano quel che era successo fino a Genova. Mai una volta che attaccassero una lite su un ballo per le ragazze di casa o che assaggiassero il vino nuovo in un cortile. Erano un’altra razza. Di quelli come noi ridevano.

Venne cosí l’estate passata, e cominciando le feste, Pino non lo tenne piú nessuno. Stavolta s’era messo con un tale magrolino, che girava per le fiere a far scommesse. Ma denari Pino non ne aveva gran che: solo quei pochi per fumare e pagarsi la festa. Questo tale era piú furbo di quell’altro di Pozzengo; a non sapere del mestiere che faceva, bisognava dargli credito, tanto incantava di parole. Era stato per il mondo, ma sapeva dar risposta anche intorno alla campagna. Era bassotto, gambe storte, coi capelli profumati. Si chiamava Roia.

Parlava di tutto e diceva che Pino non sapeva la sua fortuna di esser nato agricoltore. Diceva che meglio di noi non sta nessuno. — Tu però la campagna la lavori in piazza, — disse Pino. Con Roia scherzava. — Si capisce, – ribatteva. – Ci vuole l’uno e l’altro —. Era sveglio, ma a me non piaceva.

Son sicuro che Pino gli parlò di Ganola fin dalla prima volta, perché quel giorno nel cortile Roia guardava la collina delle canne e mi chiese chi ci stava lassú. — Ci sta un uomo e una bestia, — dissi, e lui a ridere piano, come chi sa già tutto.

Lo vedemmo qualche volta per la festa di Odalengo, e Pino lo invitò in mia presenza a venire da noi la Madonna d’agosto. Presi Pino da solo e gli chiesi se era matto a portarci in casa quel tipo. — Che cos’ha? – chiese lui mezzo ridendo. — Hai provato a dirlo al Pa’? – gli feci. – Dillo al Pa’ e te ne accorgi —. Pino mi guardò cattivo e stette fuori un’altra notte.

Avevamo appena battuto il grano, che venne un temporale di Dio: spianò mezza la vigna e portò via certe piante come fossero fascine. Esce Pino dal portico e dice: — Vado fino alla stazione. — Come? – fa nostro padre incarognito, – e la vigna? — La vigna è bell’e andata, – dice Pino, – sono stufo di lavorare per niente —. Io dissi ch’era sera e che tanto valeva aspettare l’indomani; nostro padre entrò in casa ad asciugarsi le scarpe, ma s’era capito che Pino l’aveva ripreso l’idea delle Cave. Soltanto che stavolta non parlava piú di Cave.

Venne agosto e, tra il soffoco di giorno e la luna di notte, chi pensava piú a lavorare. Quest’anno il comune ci aveva promesso i fuochi, e sembravano ragazzi anche i vecchi. Si diceva che i fuochi portano il bel tempo. Io non so, ma se fosse vero li terrebbero pronti tutte le volte che tuona. — Sarete contenti, – dico in casa, – qual è il paese che quest’anno fa i fuochi? — Non ci manca che la corsa di Ganola, – borbotta nostro padre. – Matti —. Pino stava zitto; finiva il piatto e se ne andava in campagna.

Viene quella sera e la passai in piazza a guardare la festa. Non s’era mai visto tanta gente. Erano scesi da tutte queste colline, dalle Rocche, di là dai boschi; neanche i cani mancavano. C’erano tutti i baracconi. Vidi anche Roia, che teneva un banchetto di dadi. Lo lasciai coi suoi trucchi e me ne andai sul ballo.

Quando fu notte, accesero i fuochi. Sul piú bello vedo a un riverbero le facce di tre o quattro della stazione che guardano in su, ma niente Pino. Penso «Dove sarà?» ma poi torno a guardare e sentire le botte.

Ce ne fu per mezz’ora, e appena finito ripigliano i balli. Tornai a casa intronato, fischiando come un passerotto, e dormire non si poteva perché sulla strada era un passare continuo di ubriachi, di carri, di gente che cantava. Pino non c’era ancora, al solito.

Allora mi misi sullo scalino a fumare, e guardavo le stelle che sembravano un’aia di grano. Poso l’occhio sulla collina di Ganola e vedo luce alla finestra. «To’, fa festa anche lui», penso ridendo. Ma poi la luce traballava; era rossa. Allora capii che bruciava e salto in piedi.

Era già quasi mattino, e il passaggio sulla strada cessato. Andai di corsa fino al giro, non pensando che ero solo, perché credevo che molti avessero veduto la fiamma e corressero là. Ma via via che salivo il vallone, mi prendeva paura. Alle canne mi fermo e riaccendo la cicca. Sento allora la voce di Pino che mi chiama per nome. Mi prende il braccio e dice: — Non andare, non andare.

Parlava tremando, come un ragazzo. — Cosa c’è? — Roia ha ucciso Ganola e il cavallo è scappato.

Disse ch’erano andati per comprare il cavallo. Il giorno prima, si capisce. Roia era andato con lui per vedere il cavallo e comprarlo. Dovevano vivere insieme e girare i paesi. Ganola li aveva condotti nella stalla, ma testardo diceva che prima di venderlo l’avrebbe ammazzato. Tornando a casa Roia aveva detto che i vecchi son tutti cosí ma un rosso piú bello non l’aveva mai visto. E poi stanotte eran tornati perché Roia diceva che ci vuole costanza. E che prima di svegliare il vecchio, erano entrati nella stalla. Ma mentre il cavallo sbuffava, Ganola era arrivato in camicia. Roia gli aveva detto qualcosa ridendo, poi, volandogli addosso, l’aveva ammazzato.

Scannato. Poi aveva staccato il cavallo, e gridava a Pino di aiutarlo; lui diceva soltanto: «volevamo comprarlo, perché l’hai ammazzato?» e scappava, e allora il cavallo s’era messo a drizzarsi, a ringhiare, a spaccare le stanghe, e non l’avevano piú visto.

Io chiesi a Pino se aveva davvero creduto che Roia comprasse quella bestia. Gli dissi che Roia voleva servirsi di lui per entrare in casa, non altro, e che il cavallo voleva poi venderlo, non girare i paesi.

— E adesso Roia dov’è?

Corremmo alla cascina. Il fuoco aveva preso tutta la stalla e non si poteva entrarci. — È Roia che l’ha acceso.

— Andiamo via, – diceva Pino, – andiamo.

Stavolta non aveva torto. Non bisognava essere i primi lassú. E poi tremava come uno straccio. Era tutto graffiato. Lo presi e, passando dai boschi, andammo a chiuderci in casa.

Il fuoco lo spensero gli altri. Si vede che Roia sapeva il suo mestiere, perché di Ganola non trovarono gran che. Ma del cavallo meno ancora e si spiegavano l’incendio dicendo che aveva ammazzato Ganola con un calcio e rovesciato la lanterna. Lo cercarono un pezzo per queste colline, ma io sono convinto che Roia l’ha acchiappato e se l’è portato via. La gente invece, e Pino con loro, dicono che il cavallo gira i boschi, e certi giorni lo sentono passare sulle creste.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.