26- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Mal di mestiere

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Mal di mestiere

Talvolta se mi accosto a questa terra, ne ho un urto impetuoso che mi rapisce come un’acqua in piena e vuol sommergermi. Una voce, un odore bastano a prendermi e buttarmi chi sa dove. Son fatto pietra, umidità, letame, succo di frutto, vento. Del limite umano non mi resta che l’istinto di rapprendermi in parole, ma queste non sono più nulla e mi dibatto come un albero o una belva già stata uomo e ora incapace di esprimersi. Cedo, riluttando perché so che la mia natura è un’altra, e ogni volta trovo in fondo a questo impeto una vana sazietà. Ogni sforzo d’inturgidire il senso serbando coscienza, porta a questa disfatta. È insomma peccato, come il libertinaggio, come il sadismo e l’ubriachezza.

Il limite umano – il mio – reca in sé questa norma: ciò che si vuole e non si può esprimere è peccato. Peggio: è futilità. Ad esso è consentito questo solo perdono: il ricordo. Attraverso il ricordo, ciò che era disumano e bestiale può forse riscattarsi e rendere un suono di chiara ragione. Ma appunto diventando ricordo cessa d’essere turgore del senso.

Io parlo qui di tentazione attuale. Fermo davanti a una campagna, smemorato, a un cielo chiaro, a un corso d’acqua, a un bosco, mi sorprende la rabbia improvvisa di non esser più io, di farmi quel campo, quel cielo, quel bosco, di cercar la parola che lo traduca tutto quanto, fino ai fili dell’erba, fino al sentore, fino al vuoto. Io non esisto; esiste il campo, esiste il cielo. Esistono i miei sensi, spalancati come bocche a divorare l’oggetto. Due naturalità sono affrontate: una tesa, spasmodica; l’altra, inesorabile e bruta. Ripeto che sto tutto teso all’esterno; non inseguo me stesso, non brancico un’idea fuggitiva; anzi, dentro, lo spirito mi è come strozzato. Nella sua brutalità questo stato è, sia pur futile, uno sforzo d’indiarsi attraverso la bestia. Come il bere o l’uccidere. Se appare più veniale e quasi meritorio perché tende insomma a un frutto spirituale, è tuttavia più velenoso perché inestricabile dalla vita interiore genuina e con ciò sempre pronto a guastare il lavoro legittimo. È una crisi, una sommossa delle facoltà buone che, ingannate da un urto dei sensi, presumono di guadagnare abbandonandosi alle cose. E queste afferrano, travolgono, inghiottono come un mare agitato, elusive, inafferrabili a lor volta, come spuma. C’è in esse qualcosa di osceno: esattamente lo stesso che abbandonarsi al sesso e volerne narrare le sensazioni segrete.

Nel ricordo il tumulto si placa. Ciò si dice, beninteso, del ricordo-rinuncia, del ricordo che ha saputo insignorirsi delle cose attraverso il distacco, l’assunzione del naturale all’assoluto. Di qui nasce che il più sicuro vivaio di simboli sia quello dell’infanzia: sensazioni remote che si sono spogliate, macerandosi a lungo, di ogni materia, e hanno assunto nella memoria la trasparenza dello spirito. Di qui nasce che agli ingegni contemplativi non si raccomanderà mai abbastanza di tapparsi i sensi davanti alla realtà e accontentarsi di quella che, filtrata dagli anni, riaffiora dal fondo della chiusa coscienza. L’illusoria ricchezza del reale non può essere giustamente valutata se non da chi sa che solo è nostro ciò che abbiamo posseduto sempre; e questo spiega perché siano Così inenarrabilmente noiosi i libri di viaggio o, come si dice, documentari. Un solo documento c’interessa sempre e riesce nuovo: ciò che sapevamo fin da bambini.

Perché davvero nell’infanzia eravamo un’altra cosa. Piccoli bruti inconsapevoli, il reale ci accoglieva come accoglie semi e pietre. Nessun pericolo che allora lo ammirassimo e volessimo tuffarci nel suo gorgo. Eravamo il gorgo stesso. Ma la storia segreta dell’infanzia di tutti è fatta appunto dei sussulti e degli strappi che ci hanno sradicati dal reale, per cui – oggi una forma e domani un colore – attraverso il linguaggio ci siamo contrapposti alle cose e abbiamo imparato a valutarle e contemplarle. Ciò che è prezioso in fondo a noi sarà dunque questa concordia discorde d’incontri, di scoperte, di sviluppo. La tentazione di riattingere con amplesso innaturale l’universo preinfantile delle cose, è il peccato. Se mai, ci tocca esercitarci nell’opposto: respingere quella naturalità che ci fosse rimasta intorno, respingerla per poterla possedere. Ma ben poco la vita adulta può aggiungere al tesoro infantile di scoperte. Si può bensí riportare alla luce quelle forme primigenie e contemplarne la fresca salute, come di radici che il terriccio dei giorni ha continuato a nutrire. Poi da cosa nasce cosa, e anche i giorni futuri germoglieranno su questi ceppi.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.