09- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Primo amore

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: Il mare

Primo amore

Prima di conoscere Nino non m’ero mai accorto che i ragazzi con cui gridavo e correvo sulla strada fossero sporchi e malrattoppati. Li invidiavo anzi perché andavano scalzi e qualcuno sapeva premere il tallone sulle stoppie senza farsi male. I miei pallidi piedi cittadini invece si rattrappivano persino alla prova di posarli sull’acciottolato.

Di ciò che avevo imparato da loro soltanto certe bestemmie interessavano Nino. Nino stava in una villetta all’uscita del paese e aveva molte sorelle maggiori che m’intimidivano. Io mi fermavo sotto il muricciolo e guardavo tra le sbarre, sperando che Nino stesse già scendendo gli scalini del giardino; se ritardava, fischiavo piano fingendo d’essere una serpe e continuavo rinforzando a poco a poco, finché il cane non abbaiava. Nino giungeva correndo, perché aveva anche lui paura del cane.

Era impossibile proporre a Nino di scalzarsi o di giocare con gli altri. Senza avergliene mai parlato, dopo pochi incontri m’accorsi che con lui mi vergognavo di quei compagni. Ma il bello è che, da quanto diceva casualmente, appariva come li conoscesse tutti, sapesse i loro giochi, capisse i loro discorsi: pareva insomma uno di noi, tranne che portava una camicia e dei calzoncini piú puliti ancora dei miei e amava girare con le mani in tasca in viuzze fuorimano, sbirciando fra l’erba o per le finestre, guardando dietro ai passanti e facendo di tanto in tanto una smorfia.

Avevamo tredici anni, forse quattordici, e veramente anch’io mi sentii d’improvviso, quell’estate, insoddisfatto di quegli straccioncelli: se avevano la nostra età erano molli e sciocchi, se parevano magri e vivaci come noi erano già diciottenni e non s’andava più d’accordo.

Di che parlassimo con Nino nei primi giorni non ricordo bene. So che una volta gli chiesi quante sorelle avesse. — Nessuna, — mi rispose. — Come: e tutte quelle donne? non sono tue sorelle? — Sono tutte come la mamma, – mi disse, piegando il viso da una parte, come faceva spesso. – Che siano veramente sorelle non ce n’è.

Io gli raccontavo che una volta ero stato a caccia con un soldato in licenza; glielo raccontai tante volte, per dritto e per traverso, che un bel giorno Nino mi disse: — Bum. — Che c’è? – gli feci. – Vado a caccia anch’io; non si può?

Provai a portarlo alla bialera, dove certi miei compagni del mattino stavano a pescare con ceste, tutti inzaccherati d’acqua e di fango. Nino si teneva in disparte, sorridendo assente quando dall’acqua cercavo il suo sguardo e la sua approvazione; e una volta che il figlio del fabbro gli tirò addosso la cesta grondante, gridandogli di acchiapparla, lui si scostò, e non la raccolse. Gli diedero allora del «morto in piedi» e io tentai di giustificarlo spiegando che aveva il vestito nuovo. Ma Nino li insolentì e, siccome presero a tirarci del fango, gridò esasperato che aveva lui chi li avrebbe messi a posto.

Nino passava le mattinate in casa sua, a girare per le stanze; la prima volta che venni a cercarlo, allungando il collo in direzione della sua finestra, comparve una donna alta e bella che guardò attraverso il giardino e mi fece cenno di avvicinarmi. Io finsi disattenzione e sgusciai via. Temetti che Nino poi me ne parlasse, ma non fu nulla.

Da quel giorno divisi il mio tempo. Andavo al pascolo delle capre, di nascosto, quasi ogni mattino, coi ragazzetti di prima, e li sbalordivo con storie della città che a poco a poco divenne come una mia fattoria, dove accadevano straordinarie avventure sui tram e dentro gli ascensori. M’interrompevo ogni tanto e rincorrevo anch’io una capra, o scortecciavo un ramo, o cacciavo cavallette. Al pomeriggio nelle ore calde, che un tempo passavo sul fienile o nella stalla, andavo invece a prender Nino, e mi pareva di perdere il tempo, di annoiarmi, eppure ogni giorno ero là e, quando tornavamo dopo una tortuosa passeggiata su per la salita della chiesa o lungo i campi, avrei voluto entrar con lui nel giardino, sedermi sulle poltroncine di vimini e farmi mortificare dalle sorelle. Ma la prima volta che Nino m’invitò non osai.

Di ritorno dalla nostra avventura della bialera, lo sconsigliai dall’immischiare i parenti nei fatti nostri. Nino rise tra i denti e mi disse che, se avevo paura che le donne di casa sua sapessero di quei miei straccioni, potevo starmene tranquillo. Ben altro era il suo amico.

Me lo fece sentire che rideva, un pomeriggio, passando davanti al retrobottega dei Concimi. C’era ferma nella stradetta un’automobile bassa che avevo già vista. Veniva dalla soglia socchiusa un vocío basso di molti e una solida risata dominò a un tratto le voci, seguita da qualche altra piú rauca. Nel tanfo di zolfo e concimi, Nino si spiegò innanzi e disse: — Ora esce —. Uscì un vecchio bracciante che ci riconobbe ammiccando; poi, spalancata la porta, gridò: — Butta.

Volò un sacchetto sodo, che il vecchio pigliò a volo e depose nell’auto. Ne volò un altro, poi un altro.

— Aiutaci, signorino, — disse il bracciante scoprendo le gengive. Nino saltò la soglia e scomparve. Io rimasi vicino all’auto, cercando d’indovinare le ombre che si agitavano là dentro.

Quando l’auto fu quasi piena e io aiutavo il vecchio a raggiustare i sacchetti, apparvero sulla soglia Nino e un uomo riccio, fazzoletto al collo, cintura rossa e stivali. Era a maniche rimboccate e teneva tutta la porta. Nino gli arrivava al gomito.

Parlò, con una voce sorridente a Nino, e anche a me: — Vi siete fatti amici, eh? — Mi strizzò l’occhio e mi prese una mano; io mi divincolavo. Mi fletté a forza due o tre volte l’avambraccio, poi disse: — Nino, non farti picchiare perché è piú forte di te —. Poi rialzandosi, girò tutt’intorno il capo e disse: — Finito?

Trasse una sigaretta e se l’accese. Saltò nell’auto, ci disse: — Saluto, — e partì.

Quella sera Nino s’infervorò parlandomi: non poteva star fermo sul muricciolo dove andammo a sederci, ma non aveva i soliti occhi inquieti. Alle mie domande sfavillava.

Bruno faceva il conducente, ma era un suo vero amico. Era venuto a prenderli alla stazione il giorno dell’arrivo e per tutta la strada intorno alla collina verso la villa aveva parlato con lui, dando appena risposta alla mamma e alle sorelle quando parlavano, spiegando a lui ogni cosa. E ancor adesso gli chiedeva qualche volta come se la passavano quelle manzette di sue sorelle, e manzette voleva dire «stupide come le manze». Una cosa sola piaceva a Bruno delle sue sorelle: le sigarette americane che si faceva portare da Nino ogni volta che poteva, con la scatola, perché il pregio stava nella scatola.

Nino parlò di tutto quella sera; parlò del bagno di casa sua dove c’era un profumo migliore che nei prati, e avrebbe voluto condurci Bruno che si lavasse il suo puzzo d’uomo fatto ma pulito; ma soprattutto avrebbe voluto accompagnarsi con lui e con me sull’auto, in giro per i paesi delle colline, divertendosi e imparando a guidare.

Bruno gliel’aveva promesso, ma non veniva mai l’occasione. Bruno tormentava tutti, e si divertiva a dirgli sempre che tutti erano piú forti di lui. Qui mi piantò un pizzicotto da strapparmi la pelle e saltò indietro. — Vediamo se sei piú forte, — gridò invelenito, e raccolse un sasso.

«Perché fai questo?» avrei chiesto a Nino, se fosse stato uno dei momenti che ci fermavamo zitti al cancello della villa, prima di lasciarci. Ma se fosse stato quei momenti, non avremmo nemmeno parlato. Non capivo proprio che bisogno avesse Nino d’interrompere la contentezza del discorso per dirmi una cattiveria. Io non facevo il bagno in una bella vasca come lui, ma mi rincresceva di essere piú forte.

— Dice a tutti che sono piú forti, — disse Nino, lasciando cadere il sasso e avvicinandosi con una faccia maligna.

Non mi fidai di rispondere con lo stesso sorriso.

— Anche a te piace Bruno, eh? – continuò Nino. – Sta’ attento che a lui piacciono le manze. Le mie sorelle.

— Tutte quante? — esclamai.

— Tutte, — disse Nino.

— Ma gli uomini ne scelgono una, — dissi.

— Quanto sei stupido, – disse Nino. – Non le può mica sposare.

— Ma se hai detto che parlava solo con te.

— È perché loro non gli dànno risposta. Sono stupide.

Tornai a casa disgustato, vergognandomi dei baffi di mio padre e della tela cerata sporca di vino sulla quale mangiavamo la cena. La mia sorellina strillava. Non avevo mai viaggiato in automobile e pensavo quanto sarebbe stato bello salirci con Nino e Bruno; ma che le sorelle di Nino fossero stupide, e lui tanto maligno, mi umiliava. Per fortuna non gli avevo detto che una notte me le ero sognate.

Il mattino dopo provai onta di uscire ancora al pascolo coi soliti ragazzi, e mi disposi a passare il tempo come Nino, facendo colazione, lavandomi, girando per la casa: arrivare insomma come lui a mezzogiorno. Ma alle dieci ero in cortile e non sapevo piú che fare.

I bassi meli in fondo, di fianco al rustico, li sapevo a memoria. Gironzai sotto il porticato di fronte, dove c’era la catasta di fascine dell’anno prima, e passò la moglie del mezzadro con un secchio. Aveva sul capo grigio un fazzoletto giallo e le maniche rimboccate. Allora capii perché Nino poteva stare tutta la mattina senza giocare: nel suo giardino le sorelle andavano e venivano, e doveva esser davvero molto bello vivere con loro, se piacevano perfino al conducente. Io non avevo che mia madre e la serva che s’affaccendavano come i contadini, e mio padre tornava soltanto la sera.

La mezzadra corse alla stalla. Sentii la vacca muggire con uno scoppio rabbioso, che pareva piangesse. Mi feci sulla porta. La donna accorse irritata. — Va’, va’, – mi disse, mettendomisi davanti per riempire il vano, – non si deve guardare. Va’ e chiama Pietro; digli che è ora. Capito? — Pietro zappava in fondo a un campo, dietro la casa. Ritornai con lui, che passò prima nella cucina a bere un sorso alla bottiglia; e ci facemmo alla stalla. Di nuovo la vecchia mi respinse. Pietro si volse e brontolò: — Vai a dire a tua madre che le facciamo il vitello.

Rimasi a gironzare, sussultando di paura a certi muggiti bestiali che scoppiavano nell’aria fresca, seguiti da gorgoglii moribondi. Poi uscirono voci concitate; la mezzadra esclamava, e infine scrosci d’acqua e un tintinnio di catena. Io pensavo al pancione sformato della vacca, che avevo veduto giorni prima.

D’un tratto mi venne in mente Nino, e mi buttai a correre per giungere in tempo. Capitai davanti alla villa mentre usciva una sua sorella, quella bionda, che aveva una pelle bianca bianca, e mi piaceva quando passava in bicicletta. Mi posò una mano sulla testa, ridendo, e mi chiese cos’avevo. Cercavo Nino. — Perché? — insistette lei. — C’è nato un vitello, — balbettai tutto rosso. La donna mi guardava e levò la mano, e rise forte.

— È carino? — mi chiese. Io non seppi che dire. Quella rise ancora e si volse e chiamò: — Nino! — Qualcuno rispose. Allora mi accennò con la mano, sogguardandomi appena, e se ne andò, aprendo il parasole.

Quando giunse Nino – il cane abbaiava e scorrazzava facendo tintinnare la catena – non avevo più voglia di portarlo alla stalla. M’aveva ripreso la vergogna di quel cortile sporco davanti a casa. Dissi soltanto: — Vuoi venire?

Finimmo quel mattino alla bialera, dove c’erano le lavandaie. Tacevamo tutti e due.

— Hai già veduto nascere un vitello? – dissi a un tratto. – Io ne ho veduto nascere uno stamattina. Faceva paura.

Nino mi chiese: — Gridava?

— No, gridava la mamma, – dissi: – la vacca.

— Perché non mi hai chiamato?

Io feci un viso offeso, come il giorno prima.

— Stupido, – disse Nino tutto in orgasmo, – avremmo veduto come nascono i bambini. Hai proprio visto come ha fatto?

— Non hai mai veduto nascere un bambino? — risposi con importanza.

Nino tacque e guardò a terra. Le lavandaie sbattevano i panni sulle pietre. Ce n’era una grassa, rimboccata fino alle spalle, che menava certi colpi robusti, mostrando l’ascella e ridendo a una compagna. Le sussultava tutto il corpo, accovacciato nel fagotto delle sottane.

— È come vedere un cavallo cacare, – ripresi con la voce malferma. – Solamente ch’è più grosso.

— Hai proprio visto?

— Sicuro, — risposi.

— Anche tu sei nato così, — disse Nino con rabbia.

— Sì, anch’io, — risposi tranquillo.

Allora Nino si tirò un pugno in faccia e si lasciò cadere a terra. In piedi accanto a lui, lo guardavo imbarazzato. Mi sedetti per confessargli la verità ma in quel momento si mise a ridere.

Però rideva verde. — Se vuoi venire in automobile con noi, dimmi com’è.

Fissai Nino: aveva occhi e labbra accesi. Balbettò adagio: — Hai veduto tua mamma?

Lo guardai stupefatto e dissi: — Stupido che sei.

— Dimmelo, chi hai veduto?

— Ho veduto il vitello.

— Non le donne?

— No, — e fissai terra.

La voce di Nino mi scoppiò vicino all’orecchio: — Allora non sai come fanno?

Confessai che non avevo veduto nemmeno il vitello.

Allora Nino si rotolò nell’erba e saltò in piedi. — Io so come fanno, – disse. – Esce del sangue e devono strappargli il bambino.

— Non sempre esce il sangue.

— Sì, esce sempre perché le donne gridano.

— No, – dissi, – senti, — e gli spiegai che avevo veduto una vacca dopo ch’era nato il vitellino, e non c’era sangue e il vitellino era soltanto un po’ umido.

— Le donne fanno sangue, – insisté Nino. – Tu non sai niente.

Mi spiegò a voce rauca come facevano le donne. Non lo interruppi, ma fissavo l’erba.

— Anche le tue sorelle? — dissi alla fine.

— Anche.

Quel pomeriggio Bruno arrivò inaspettato in paese e ci prese con sé sulla macchina, perché portava una damigiana alla stazione e c’era posto. Ci mise sul sedile posteriore a tenere la damigiana e si partì. Per tutta la strada ebbi il cuore in gola e mi pareva di volare come volavano gli alberi e i paracarri e i passanti. Socchiudevo gli occhi nel sole, vedevo la nuca ferma di Bruno sul fazzoletto rosso e gli scatti del suo braccio posato sul volante. Temevo che fermandoci la damigiana sarebbe caduta.

Invece tutto andò bene e fui io che traballai tutto sudato, una volta a terra. Bruno trasportò vociando la damigiana nel deposito; poi ci condusse all’osteria della stazione. Mi sedetti, intimidito, nella penombra fresca, facendo come Nino che fissava tutti in faccia e rideva con Bruno, levando la faccia a guardarlo.

Bruno chiese da bere e Nino volle per sé la ghiacciata.

C’eravamo bagnata la bocca, quando Nino deglutí e disse sornione: — Berto, racconta a Bruno che hai visto fare un bambino.

Bruno mi guardò di traverso, con un occhio solo. Posò il bicchiere, aggrottando le labbra.

— Se sei tu… — scattai inferocito.

Bruno s’asciugò il sudore. Si volse a Nino: — Digli che impari a far l’uomo, piuttosto. Ne avete bisogno, alla vostra età. Al resto ci pensano le donne.

— È nato un vitello… — disse Nino.

— Sono nati due asini, – interruppe Bruno. – Non avete altro da parlare?

S’asciugò un’altra volta il sudore. Pareva seccato e noi tacevamo, abbassando gli occhi. Nino masticava il suo ghiaccio, a capo basso.

— Nino, ti ha dato le sigarette, Clara?

Clara era la sorella bionda. – Le ha nascoste, — disse Nino.

Bruno arrotolò la sua, dicendo indifferente: — Volete venire domani ai Robini? Ritorniamo per mezzogiorno. Vieni anche tu, Berto?

Nino disse: — Dammi da fumare.

Guardai la manona di Bruno arrotolare la sigaretta e non osai chiederne anch’io. — Nino, ci vai domani? — dissi invece. Nino guardò di sottecchi Bruno e chiese piano: — Staremo al muretto? — Bruno annuí e gli tese la sigaretta. Non capivo la faccia pallida di Nino. Lo vidi accendere con Bruno e la mano tremargli.

— Bevi del vino, – disse Bruno. – Il ghiaccio è per i malati —. Sapevo che a Nino il vino rosso ripugnava eppure lo vidi tendere il bicchiere e accostarselo adagio alle labbra. Lo trangugiò tutto.

— Allegro, – disse Bruno. – Quest’inverno quando sarete in città, non avrete piú del vino buono. Crescete magri, in città. Tu, Berto, hai già la ragazza?

Dissi imbarazzato: — Non c’è tempo: d’inverno andiamo a scuola.

— Perché, d’estate ce l’hai?

— Io… no.

Bruno si mise a ridere, franco. — Bravo, vi vedete d’inverno con Nino?

— Quest’anno ci vedremo, — dissi di scatto a Nino.

— Sta’ attento che Nino studia la scherma e t’infilza, — mi disse Bruno, ammiccando.

Nino non parlava. Bevve un altro bicchiere e mi ascoltava appena. Seguiva con gli occhi il bracciale di cuoio che cingeva il polso quadrato di Bruno. D’un tratto chiese a che cosa serviva.

— A rompere la faccia ai prepotenti, – spiegò Bruno. – Si dà un colpo per storto, a soprammano, così non si feriscono le dita, e fa l’effetto di un guantone. Una notte a Spigno c’era uno che mi passa vicino alla macchina – ero fermo alla stazione – e sputa dentro. Sputa e tira avanti. Non bisogna mai tollerare uno sputo, perché chi sputa ha paura. Gli volo addosso e gli sfianco la faccia. Così. Vedete a cosa serve?

Nino tossì sulla sigaretta, senza distogliere gli occhi dal volto fiero di Bruno. Come già le altre volte che avevamo fumato dietro la chiesa, lui sopportava benissimo il fumo. Doveva essere il vino che lo confondeva. O forse qualche pasticcio con Bruno. Perché Bruno chiamava la sua sorella per nome?

— Quando tua mamma e le tue sorelle faranno quella gita in Acqui che hanno detto ti farò vedere la piazza dove una volta ho fermato un cane arrabbiato mettendogli in bocca il cuoio. Vedete i segni dei denti?

— Io non verrò in Acqui con voi, — disse Nino.

Bruno si mise a ridere. — Berto, finisci di bere. Domani allora.

Andammo ai Robini, e per tutta la strada, che fece in velocità, Bruno fischiettava volgendosi a me dopo ogni curva. Nino, seduto accanto a lui, teneva il mento sul petto, come se qualcuno l’avesse picchiato; e due o tre volte girò gli occhi alle colline, nel cielo, con uno scatto quasi si svegliasse allora.

— La campagna è asciutta quest’anno, — dissi con tono rassegnato come faceva mio padre.

Bruno non si volse, e infilò invece una stradetta laterale, che saliva fra le gaggie. Dopo un cinque minuti di frasche in faccia, ci fermò a mezzacosta presso un ponticello murettato su di una balza. Saltò a terra e ci disse: — Allora aspettate. Guardate la macchina –. Chiuse il motore e tolse la chiavetta. – Non toccate, perché tanto non si muove. Allegro, Nino –. Ci diede una sigaretta per uno e ce l’accese. – Se qualcuno sale la strada, chiunque sia, suonate il clacson. Capito? Se tutto va bene poi ti lascio guidare, Nino. Anche tu, Berto, e state attenti, chiunque sia —. Prese il sentiero della costa e scomparve fra le gaggie.

Ora, faceva un gran sole e noi, riparati all’ombra delle gaggie, dominavamo dall’alto un lungo tratto della stradetta ripida. Nessuno poteva entrarci dallo stradone, senza che ce ne accorgessimo. Non ero mai stato lassù.

Nino evidentemente c’era già stato. Senza voltarsi, fumava seduto al volante e non s’interessava dei comandi che aveva sott’occhio. Fumava come un uomo, senza guardare la sigaretta, a scatti.

— Starà via molto Bruno? — dissi.

Nino non rispose. Saltai a terra e feci il giro della macchina e diedi un’occhiata ai fari e alle gomme impolverate. Guardai giù dal muretto la balza disseccata: soltanto nelle piogge d’autunno doveva riempirsi e schiumare. Vi affioravano radici nodose che mettevano voglia di calarsi giù, non fosse stata la paura delle serpi. Vi buttai il mozzicone della sigaretta, e poi cercai di spegnerlo a sputi. Nino non si muoveva.

— Lascia sedere un po’ anche me, — dissi voltandomi.

Nino mi guardò con gli occhi strizzati di quando era maligno.

— Lo sai dov’è andato? — disse.

Alzai le spalle. In quel momento un cane, non lontano, si mise a latrare.

— Ecco, – disse Nino, – è arrivato adesso dalla donna. Va a trovare la moglie o la figlia del Martino, che l’aspettano e legano il cane, e vanno a letto insieme.

— Ma se è giorno, — dissi.

Nino alzò, le spalle. — Si mettono sul letto, – continuò. – Così fanno più presto. Però sta anche un’ora, – e rise, – se non viene nessuno.

— E dov’è Martino?

— Il Martino è andato alla stazione. Ho sentito ieri.

— E se arriva?

— Se arriva, ci siamo noi per suonare.

Non ero convinto. — Te lo ha detto Bruno?

Nino mi diede un’occhiataccia e buttò via la sigaretta.

— Non ci credo, – ripresi. – Ci vorrebbe troppo tempo. Bruno ha altro da pensare. E poi deve guidare l’automobile…

— Ebbene?

— … Sarebbe troppo stanco… — dissi esitando.

— Bruno è forte, – disse Nino con rabbia. – Ma vedrai.

— Che cosa?

— Vedrai.

La stradetta chiazzata di sole era sempre deserta, e nel calore mi tremavano le foglie sotto gli occhi. O piuttosto era il mio cuore che pulsava sbigottito, e il paese, la casa, parevano tanto lontani da quella solitudine e con quei pensieri. Se soltanto Nino non avesse avuto quel tono ostile. Mi tornò a mente Clara ch’era alla villa e non sapeva niente di noialtri. Anche lei era una donna. Malfermo, mi sedetti allora sul montatoio della macchina.

— Non ci credo, – dissi a un tratto. – La Martina va sempre in chiesa.

— Tutte le donne vanno in chiesa. Non sai che si sposano in chiesa? E due si sposano per andare a letto, no?

— Non ci credo, – dissi. – Bruno è un uomo come noi.

— Sai che cosa gli faccio?

— Che cosa?

— Vedrai.

Salii nell’auto e mi sedetti accanto a Nino, che mi guardava di sottecchi. Fischiettava tra sé.

— Adesso si baciano, — disse a denti stretti.

— Nino, – esclamai, – se torna il Martino, che cosa facciamo? lo racconterà a casa…

— Non tornerà, – disse Nino. – C’è qualcuno? — Si volse e scrutò la stradetta, lo stradone e tutta la pianura. Tendemmo l’orecchio. Nessuno.

— A quest’ora si sono svestiti, — continuò Nino pallido.

— Macché… — balbettai.

— E allora, pronti, — gridò Nino e premette il bottone del clacson.

Risposero i latrati del cane. Mi parve che tutta la boscaglia stormisse, nell’attimo che seguì. Feci per fermare la mano di Nino, ma già l’urlo rauco del clacson, che parve d’un uomo strozzato, tornava a scoppiare.

Quando Bruno sbucò, saltando dal sentiero, noi stavamo accovacciati nell’erba dietro i tronchi, dove m’aveva trascinato Nino. Bruno si guardò intorno e guardò la stradetta, mentre gli pendeva dalla mano la cintura rossa.

Cingendosi i calzoni, guardò ancora tutt’attorno e chiamò: — Nino! — a bassa voce. Nino mi strinse il braccio.

Bruno era salito sull’auto e scrutava lo stradone là in basso, muovendo le labbra. Aveva i capelli in disordine e la faccia come uscita allora da sotto la pompa. Scese dall’auto e andò contro le piante. Volgendoci la schiena si piantò a gambe larghe e dopo un poco lo sentii che zampillava. Nino soffocò una risatella.

Allora Bruno venne alla nostra volta, guardando in aria e abbottonandosi. Si piegò a un tratto e saltò in mezzo ai rami. Afferrò per una gamba Nino che fuggiva e lo rovesciò a terra. Io ero saltato in piedi e vedevo. Senza parlare. Bruno strinse nel pugno i due polsi di Nino e lo sollevò come un coniglio. Tenendolo discosto, perché scalciava mugolando, cominciò col taglio della mano a menargli dei colpi sui fianchi e a ogni botta cacciava un ruggito e serrava le labbra. Un istante mi guardò, senza vedermi, e allora scappai sulla strada. Sentii ancora qualche tonfo, e poi Bruno comparve tenendo Nino sotto l’ascella, e lo buttò nell’automobile. Mi disse con una brutta voce: — Sali su che torniamo.

Per tutta la corsa Nino rattrappito al fianco di Bruno non disse parola. Io mi sentivo il vento fresco in faccia come avessi la febbre. Davanti alla villa, Bruno fermò. Mi guardò scendere e un istante mi parve che ridesse. Nino levò la faccia, respinse il mio braccio e si calò malcerto. Sputò in terra e s’allontanò nel giardino, zoppicando.

L’indomani non osai chiamare Nino perché, quando mi feci al cancello, vidi sedute in giardino due delle sorelle, quelle brune, che sporgevano al sole le gambe, e una leggeva.

Fu di nuovo Clara che, verso sera, mentre gironzavo preoccupato là d’attorno, mi giunse alle spalle in bicicletta e saltò a terra.

— Dove siete andati ieri? — mi chiese.

— Che cos’ha fatto Bruno a Nino? dov’eravate? — continuò.

— Parla. Tanto lo so. Nino per oggi è a letto. Che cos’avete fatto a Bruno?

— Dov’è Bruno? — dissi.

Allora Clara mi guardò attenta e prese a camminare verso il cancello, spingendo la bicicletta.

— Non so dov’è Bruno. Io non lo conosco. Però gli avete fatto qualcosa, perché Nino non me lo vuol dire. Siete andati ai Robini?

— Si è rovesciata la macchina, — dissi.

— Che cosa facevate ai Robini?

— Niente. Imparavamo a guidare.

Eravamo in mezzo al giardino. E le sedie di vimini sotto l’ombrellone erano vuote. La ghiaia ci scricchiolava sotto i piedi.

— Siete andati a trovare qualcuno?

— Oh, no.

Clara disse seria: — Nino è a letto. Vuoi venire a trovarlo?

— Oh no, passerò domani a prenderlo. È tardi, — dissi fermandomi.

Clara sorrise. — Come sta il vitello?

— Che vitello?…

— Quello che è nato l’altro giorno. È tuo?

Risposi con un cenno del capo. Clara poggiò la bicicletta al muro e salí i gradini. — Ciao, vitellino, — gridò volgendosi. Osservai ch’era ben alta.

Per vari giorni Nino non uscì e io passavo davanti alla villa, sperando di vedere qualcuno. Era una stagione – i primi d’agosto – che in campagna non c’è niente: le mele e le prime susine finiscono con luglio, e fino a settembre non incomincia l’uva. Non valeva la pena, in attesa di Nino, di rifare amicizia con gli altri, e gironzolai per i viottoli. Però, star solo è bello un momento, quando viene in mente qualcosa, o si è veduto fra le sbarre del giardino Clara; tutto il giorno annoiava.

Ricordo che ci fu in quei pomeriggi un tremendo temporale, senza grandine, ma freddo e nero, che spaventò molto mia madre e le bestie della stalla, e a me non dispiacque perché la sera fu fresca e l’indomani mattina c’erano le pozze d’acqua e strati di foglie riversi a terra. Anche allora pensai a Clara e alle sue sorelle: se i fulmini le avevano spaventate.

Quando finalmente si fece rivedere, Nino fu di poche parole, e una volta o due mi scappò da ridere guardandolo sedersi sui muriccioli con qualche cautela. Lui mi guardava di sottecchi e parevano tornati i primi tempi, quando passeggiavamo taciturni. Venne con un pacchetto intiero di belle sigarette scritte in arabo, che mi lasciarono intontito e profumato. Un mattino ch’ero tornato alla bialera, lo vidi giungere chiotto con la giacchetta sulle spalle, e si mise a fumare seduto sull’argine. Gli fummo subito tutti d’attorno e lui diede sigarette a due o tre e sputò nell’acqua. Poi disse svogliato:

— Avete visto il conducente delle Ca’ Nere?

Ne parlò col biondo dei Mulini che aveva un fratello facchino alla stazione e si decise che, se non prima, Bruno doveva passare in paese per la Madonna d’agosto a caricare della farina.

Nino disse con calma: — C’è il Martino che lo cerca per fargli la pelle.

Il figlio del fabbro osservò che quella sigaretta sapeva di miele, però era forte. Ritornammo verso casa noi quattro ragazzi (il fabbro aveva già certi calzonacci lunghi fino alle caviglie scalze e si grattava sovente sotto la camicia sul petto). In due o tre giorni Nino ebbe fatto amicizia con loro e si parlavano a risatine e gomitate.

Venne il giorno che Nino mi chiese: — A te non ha fatto niente quella volta Bruno?

— Chi ha suonato il clacson? — risposi.

Nino – aveva gli occhi sfuggenti in quei giorni – mi sogguardò camminando.

— Tu, Berto, sei ingenuo.

Già da diversi pomeriggi scompariva. Era in giro con qualcuno degli altri; andarono perfino a pescare e seppi che una volta Nino aveva portato, oltre alle sigarette, una scatola di pesche sciroppate. Gli dissi allora: — Sta’ attento che ti vogliono male e vengono con te solo perché porti la roba —. Ma Nino mi rispose che sapeva anche questo.

La sera dei falò della Madonna, Nino non si fece vedere e le sue sorelle non uscirono in giardino a guardare i fuochi che punteggiavano le colline. Era il primo anno che passavo solo e inquieto quella festa. Seppi l’indomani da un ragazzo, che Nino era andato con gli altri a fare un falò sul campo dei Mulini e un bel momento aveva buttato con uno spintone il figlio del fabbro nel fuoco. Poi era scappato a casa e adesso quell’altro lo cercava per ammazzarlo.

Nino stavolta mi fece chiamare dal giardiniere e mi supplicò di andargli a chiamare Bruno. Le Ca’ Nere erano lontane; pure ci andai e lasciai detto nell’autorimessa che mandassero Bruno alla villa. Mentre rientravo in giardino, sassi e terra mi fioccarono addosso: erano il figlio del fabbro con gli altri, appostati, caso mai Nino uscisse.

Qualche ora dopo, giunse Bruno tutto svelto, fazzolettaccio e stivali, e lo fermammo sul cancello sperando che gli altri tirassero. Bruno credeva che la chiamata fosse per quella gita in Acqui e menò uno scapaccione a Nino, e Nino avvampando gli tornò accanto e gli chiese se voleva far la pace. Bruno non si commosse e guardava in fondo al giardino. Poi fece una gran risata e disse: — Va bene, di che cosa hai bisogno?

In quel momento un tocco di terra colse Nino nella schiena. Nino saltò da lato, strinse il pugno di Bruno e gli disse: — Dalle a quei vagabondi —. Quando Bruno seppe chi erano e che cosa volevano, si volse un poco a guardarli e ci disse forte: — Siete peggio delle donne, anche voi. E quelli laggiù non secchino perché ce n’è per tutti —. In quel momento sbucò Clara, si riconobbero e presero a parlare della gita in Acqui. Nino mi chiamò nell’aiuola per mostrarmi qualcosa e io entrai nel giardino, rivolgendomi a guardare Clara che ascoltava poggiata al cancello.

Un minuto dopo Bruno si prese una sassata in faccia e Clara cacciò uno strillo; noi accorremmo: Bruno stava già trattando a calci due della banda, tra cui il figlio del fabbro. Mi fermai sul cancello fremendo d’orgasmo e stringendo i pugni, sotto gli occhi di Clara: se quei tali volevano il resto, ero pronto.

Bruno tornò ridendo e, accomiatandosi da Clara, tirò un altro scappellotto a Nino. Eravamo tutti eccitati.

Seguirono bei giorni d’agosto e Nino mi ammetteva sovente in giardino (il cane era legato dietro la villa) rientrando da qualche scorribanda. Una volta ci sedemmo a far merenda con pane e marmellata sotto l’ombrellone, e Nino sdraiato sulla poltrona mi disse che anche in città mangiava sempre marmellata e quell’inverno mi avrebbe fatto venire a lezione di scherma con lui e avrei veduto com’era bello. Poi, un altr’anno sarebbe tornato al mare in luglio e, se venivo anch’io, saremmo usciti in barca insieme. Mi descrisse i sandolini, ma per andarci avrei dovuto prima imparare a nuotare.

— Non si sposano le tue sorelle? — gli chiesi.

— Una è sposata, – mi disse, – non è qui. L’altr’anno doveva sposarsi Clara, ma poi hanno litigato.

— E tua madre?

Sua madre era una delle brune, che avevo preso per sua sorella. Non ci volevo credere.

— Non ci sono che donne in casa mia, – diceva Nino. – Almeno se ne fosse andata Clara.

Così era bello stare con Nino. Non mi diceva più malignità. Si fece con Bruno un’altra gita in automobile al paese vicino, stavolta senza litigare. Clara gli mandò per mezzo nostro delle sigarette, che lui si ficcò in tasca ridendo.

Solo il figlio del fabbro ci dava qualche apprensione: aveva ancora i capelli bruciacchiati e ci guardava fieramente, da lontano, storcendo la bocca.

Ma una volta comparve sornione sul piazzale della chiesa dove passeggiavamo, e ci venne incontro. Chiese a Nino una sigaretta. Nino alzò le spalle. Allora gli disse: — Se me la dai, ti dico una cosa che poi me ne regali un pacchetto.

— Dagliela, – sussurrai a Nino, – così fate la pace.

Ma Nino era senza. Quell’altro rideva. — Non fa niente. Venite fino all’Orto, vi faccio vedere una cosa mondiale.

Nino disse: — Ci prendi per stupidi?

Allora il figlio del fabbro accostò i denti gialli all’orecchio di Nino e bisbigliò qualcosa soffiando. Nino si fece pallido, saltò indietro, guardò me, guardò lui, e disse balbettando: — Parola?

— Cosa c’è? — chiesi.

— Andiamo, — disse Nino.

L’Orto era una cascina dietro la villa sul declivio della collina. Tra la villa e un primo burrone si stendeva una gran vigna, quasi piana, chiusa da un canneto e mezzo in gerbido. Giungemmo al canneto e saltammo, sbucando tra i filari. Io raccolsi in silenzio uno sterpo nodoso, caso mai il figlio del fabbro ci preparasse un’imboscata.

— Hai veduto Bruno oggi? — chiesi a un tratto perché Nino capisse, e capisse l’altro.

Nino, cui tremavano le labbra, non rispose. Si dirigevano al Casotto Rosso, una baracca abbandonata, coperta d’alberi, in fondo ai filari. Ci avevo giocato al fortino l’anno prima.

— Piano, – mormorò Nino quando fummo a poca distanza. – Fermatevi. Tu, Berto, tienilo —. Avanzò ancora e si fermò sullo spiazzo. La porta di legno era chiusa. Nino girò leggero il cantone e si alzò, in punta di piedi alla finestretta.

Il mio compagno se la rideva a bassa voce. — Cosa c’è? — Vieni a vedere.

Avanzammo anche noi e raggiungemmo Nino, che stava appoggiato all’asse sottostante la finestra e fissava attraverso il vetro screpolato. Gettai lo sguardo dentro anch’io e non vidi nulla perché avevo gli occhi intontiti dal sole. Qualcosa però si muoveva nell’ombra.

Poi distinsi una forma bianca distesa, da cui si staccò un uomo che aveva al collo il fazzoletto rosso. Era Bruno. E la donna era Clara e aveva nel grembo nudo una chiazza dorata. Il vetro polveroso copriva la scena come di una nebbia.

— È bianca, — bisbigliò il figlio del fabbro.

Nino saltò indietro. — Venite via, – disse piano, tra i denti. – Venite via.

Mi sentii strappare la schiena dalle sue unghie. Il figlio del fabbro gli tirò un calcio, all’indietro. — Se non vieni, chiamo Bruno, — disse Nino rabbioso. Quello allora si staccò e con una brutta occhiata sogghignante indietreggiò nello spiazzo. Si fissarono un attimo e poi Nino gli corse addosso. L’altro scappò.

Corsi anch’io disperatamente, stringendo il mio sterpo. Sotto un filare, quasi al canneto, Nino l’aveva raggiunto e l’aveva atterrato. Si mordevano avvoltolandosi. Mi buttai sul viluppo e menai botte anch’io su quei calzoni rattoppati, sulla camicia sporca, sui denti gialli. Picchiando pensavo che mi vedesse Clara.

Quando il figlio del fabbro si mise a piangere e urlare, io mi divincolai, e staccai pure Nino. Lasciammo il nostro nemico nel solco e corremmo via.

Credo che Nino avesse in mente la mia stessa idea, perché, stracco e pesto com’era anche lui, filava come un cavallo cercando di distanziarmi. D’un tratto mi fermai e lo lasciai andare. Così evitammo di parlarci.

Lo vidi da lontano girar l’angolo della villa e restai solo, sopra il mucchio di ghiaia dello stradone. Solamente presso casa mi accorsi che avevo il collo pieno di sangue ma non me ne importava: entrai sotto il portone e mi buttai nel fieno. Era già buio quando mi alzai tutto indolenzito e, stropicciandomi la guancia per scrostare il sangue secco che parevano lacrime, pensavo se come Clara erano tutte le sorelle.

Seppi l’indomani che Nino s’era rotto un braccio e non osai presentarmi alla villa, perché temevo che ci avessero visti.

Per molte notti restai sveglio ore e ore, chiudendo gli occhi e stringendo il guanciale. Una notte, che c’era la luna, se non avessi avuto paura mi sarei levato e avrei fatto una corsa alla baracca per cercare se restava qualche traccia. Ci andai poi la mattina, ma girava nella vigna un contadino e non osai entrare.

Dal mio cortile uscivo di rado, perché temevo agguati e sassate, ma i ragazzi mi chiamarono a pescare perché ebbero bisogno della mia rete. E siccome Nino aveva un braccio rotto, il figlio del fabbro non osò dir parola. Ma un giorno che facevamo certi discorsi, nascosti in fienile col biondo dei Mulini, questo mi chiese se anche la sorella di Nino era bionda. Dopo mi vergognai, ma lí per lí non seppi tacere. Parlai però col cuore in gola e d’un tratto mi sentii disperato, come quando bambino, seduto nudo sulla sedia in cucina, guardavo versare l’acqua per il bagno. Allora tacqui, e anche il biondo taceva.

Finalmente un mattino, Bruno passando in bicicletta mi sorprese che tagliuzzavo un ramo sotto i salici e mi chiamò, fermandosi. Aveva al collo un fazzoletto nero e la blusa coi taschini.

— Hai litigato con Nino?

Nino gli aveva detto ieri di cercarmi e mandarmi da lui. S’era picchiato con me? La storia che aveva raccontato dell’albero secco, non reggeva. Quel graffio d’unghie sulla faccia era d’un ragazzo. — E se non vi conoscessi, direi ch’è di ragazza, — concluse.

Io lo guardavo incredulo.

— Vai anche tu a trovarlo: tra uomini non bisogna mai stare in guerra. Vai, Nino ti vuole. Vi racconterete come nascono i bambini.

— Ma tu sei andato a trovarlo? — chiesi esitante.

— Sicuro. Siamo amici, no? È in gamba quel ragazzo. Un braccio rotto da due settimane e vuol tornare in automobile con me.

Bruno estrasse una sigaretta e l’accese. Soffiò il fumo e drizzò la bicicletta.

— Che cosa dicono le sue sorelle? — chiesi.

— Oh quelle se ne infischiano, – rispose Bruno volgendo il capo. – E la madre più di tutte. L’unica che lo cura un poco è la bionda —. S’allontanò per lo stradone mentre io lo seguivo con gli occhi stupito, e in fondo contento.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

RETROBOTTEGA, il pre-festival di BOOKOLICA 2022, presenta il programma della terza settimana su Twitch 

BOOKOLICA 2022

Il festival dei lettori creativi

Il programma della terza settimana tutto digital su Twitch di RETROBOTTEGA il pre-festival di BOOKOLICA 2022

Da mercoledì 10 agosto prosegue il programma di RetroBottega, il pre-festival digitale di Bookolica 2022, in diretta sul canale Twitch BottegaNoMade (dalle 19 alle 20), tenendovi compagnia fino ai giorni del festival in presenza.

I temi affrontati di questa settimana: impegno sociale, mafia e ambiente

10 agostoDon Pino Puglisi, fede e cultura contro la mafia

La fede e l’impegno sociale per don Pino Puglisi erano due elementi inscindibili: cultura della legalità, impegno e socialità erano i suoi strumenti per curare le ferite della mafia nella sua Sicilia. E l’ha fatto, specialmente nel quartiere Brancaccio di Palermo. Per questo il 15 settembre 1993, il giorno del suo 56esimo compleanno, fu assassinato dai fratelli Graviano.  Riccardo Pagani e Marco Sonseri hanno raccontato la sua storia, per la prima volta a fumetti, nella graphic novel Don Puglisi, edita ReNoir (2021). Modera Virginia Padovani.

11 agosto L’emergenza che non può più aspettare

La crisi energetico-ambientale è l’emergenza delle emergenze, acuita da crisi internazionali e assetti geopolitici problematici. E nonostante sia una questione complessa da risolvere, non c’è più tempo da aspettare. In Emergenza Energia: non abbiamo più tempo (edizioni Dedalo, 20220) Nicola Armaroli mette l’accento proprio sul rischio che si corre nel non agire: la transizione energetica è una necessità inderogabile da cui dipenderà la ripresa e la tenuta dell’intera società. Moderano Massimo Carta e Marzio Chirico.

17 agostoI nuovi percorsi possibili

Laura Centemeri, ricercatrice in sociologia dell’ambiente al CNRS francese, nello studio Rethinking Post-Disaster Recovery: Socioanthropological Perspectives on Repairing Environments. Routledge-Taylor and Francis («New Security Studies») propone un approccio interdisciplinare per il recupero di quei territori colpiti dal disastro ambientale. Con Massimo Carta si affronteranno i casi di studio e diversi percorsi di ripresa possibili.

Gli incontri saranno curati da Massimo Carta, Docente presso il Dipartimento di Architettura (DIDA) dell’UNIFI, da Marzio Chirico e Eleonora Savona; le dirette saranno poi ripubblicate sul canale Youtube, per essere sempre fruibili e alimentare così il dialogo tra la dimensione digitale e quella fisica.

Il programma di Bookolica 2022 sarà disponibile su www.bookolica.it


INFORMAZIONI UTILI

RETROBOTTEGA – Pre-festival di Bookolica 2022
QUANDO: dal 26 luglio al 25 agosto, ogni martedì, mercoledì e giovedì, dalle 19 alle 20
DOVE: in streaming su Twitch https://www.twitch.tv/botteganomade

BOOKOLICA 2022 – V edizione

QUANDO: Dal 30 agosto al 4 settembre 2022 in presenza
DOVE: La Maddalena, Torralba, Tempio Pausania, Scano di Montiferro (Sardegna)
L’ACCESSO A TUTTE LE INIZIATIVE È GRATUITO
Organizzato da: Associazione Culturale Bottega No-Made

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08- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – La giacchetta di cuoio

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: Il mare

La giacchetta di cuoio

Mio padre mi lascia passare le giornate alla baracca dell’imbarco, perché così mi divago e imparo un mestiere senz’accorgermene. Adesso c’è una padrona grassa, che grida sempre, e se faccio tanto di toccare una barca, mi vede, fosse anche dalla cantina, e grida che non è roba mia. Dietro la baracca ci sono i tavolini e le sedie per i clienti, ma questa padrona non si fa piú aiutare, e se le porto un’ordinazione dice subito a suo figlio di prendere lui i bicchieri. Nella baracca è un pezzo che non entro più, e più ancora che non salgo di sopra a guardare l’acqua e le barche dalla finestra di Ceresa. Qui non viene più nessuno ormai, e sta fresco mio padre se crede che possa ancora imparare il mestiere.

Questa madama Pina non sa mica fare: trattano i clienti come trattano me. Non basta portare la giacchetta di cuoio per governare un imbarco; bisogna che la gente venga di voglia e veda dalla faccia del padrone che gli piacciono le barche e il Po e che divertirsi è una bella cosa. Ceresa sí che era l’uomo: sembrava che giocasse con tutti e sulle barche ci stava piú lui che i clienti. Quando c’era Ceresa non mancava mai da ridere: si stava in mutandine nell’acqua, si preparava il catrame, si vuotavano le barche, e alla stagione buona si faceva merenda col secchio dell’uva sul tavolo, sotto le piante. Le ragazze che andavano in barca si fermavano a scherzare sotto la tettoia, e ce n’era una che voleva farsi accompagnare da Ceresa su per il Po. Ceresa le diceva sempre che non poteva piantare l’imbarco e l’osteria, e che venisse la mattina presto prima del sole. Una bella mattina quella stupida era venuta, e Ceresa allora le disse che si alzasse cosí tutti i giorni e le sarebbe passato il mal di testa.

La giacchetta di cuoio, che adesso la vecchia si butta sulle spalle quando piove, Ceresa la portava sempre e mi ricordo che, una volta che eravamo in barca e venne un temporale, se la tolse e me la diede per coprirmi. Sotto, era sempre a torso nudo, e mi diceva che, se avessi fatto la vita del Po, da grande mi sarebbero venuti i suoi muscoli. Aveva i baffetti e a forza di stare al sole era biondo.

L’altr’anno, per via di Nora, qualcuno smise di venire. Nora prima era la serva che portava le bibite ai clienti e la sera se ne andava via; poi l’altr’anno, per tardi che me ne andassi a casa, lei restava ancora nella baracca, e la mattina quando arrivavo la vedevo già guardare dalla finestra. Nora era una bella donna; Ceresa non lo diceva mai, ma lo dicevano i giovanotti e i vecchi che giocavano alle bocce. Nora stava appoggiata alla porta, tenendosi un gomito con la mano, vestita di rosso, e guardava tutti senza parlare. A me, una volta che mi sedetti sullo scalino aspettando Ceresa, mi disse: — Stupido, va’ a casa tua —. Ma delle altre volte rideva quando mi sedevo in una barca coi piedi nell’acqua, e se qualcuno chiedeva un remo o un cuscino e non c’era Ceresa, mi diceva di andarli a prendere sotto la tettoia.

A me fece subito pena che Nora non se ne andasse piú dalla baracca. Prima, quando me la ricordavo, dicevo anch’io: «È una bella ragazza» e non ci pensavo piú; ma, se adesso teneva compagnia a Ceresa, voleva dire ch’era proprio qualcosa di straordinario, e mi faceva pena perché non capivo che cosa.

Mangiavano sotto la tettoia, insieme; e io restavo ancora un poco, per aiutarli se tornavano barche, ché non dovessero alzarsi; e loro discorrevano, a me dicevano qualcosa ogni tanto, ma piú che tutto si strizzavano l’occhio e, se Nora andava in cucina a prendere un piatto, Ceresa stava zitto, guardando la porta. Tra loro parlavano come non parlavano con me; neanche Ceresa, che con tutti scherzava, con lei era il solito, ma diceva delle cose adagio, battendo la punta delle dita sul tavolo e guardando in su, oppure menava la cerniera-lampo della giacchetta come fosse un ventaglio, e Nora strizzava tutti e due gli occhi e guardava la cerniera ridendo.

Si capiva che stavano insieme per compagnia ma non per sposarsi, perché Nora non portava mai un vestito qualunque di quelli che si mettono in casa, ma aveva quello rosso, e un altro bianco ancora piú bello, e una volta lavati i piatti e scopato, restava sulla porta o veniva a guardare l’acqua come fanno le ragazze che prendono la barca. Quando Ceresa la cercava, lei veniva camminando adagio e sembrava sempre che non avesse niente da fare. Invece la giornata era lunga e ci stavano tante cose: lei serviva nell’osteria, lavava le camicie e le avanzava ancora il tempo per fumare la sigaretta.

Adesso che Nora era la padrona, Ceresa mi diceva che un giorno avremmo ripreso la barca io e lui e saremmo stati via fino alla sera risalendo il Po oltre la diga. Nora in barca con noi non ci veniva, diceva che l’acqua puzzava, e quando partivamo con le reti e la cesta per pescare sotto il ponte, ci guardava dalla finestra ridendo. Per pescare, Ceresa si metteva soltanto la giacchetta e le mutandine nere strette strette, e saltavamo in acqua e piazzavamo la cesta contro le pietre e, mentre io tenevo la barca, Ceresa disturbava i pesci con le mani. Oltre la diga sapeva un lago straordinario che si tornava con la cesta piena, e diceva sempre che saremmo partiti un bel mattino per tornare la sera. Per molte mattine arrivai all’imbarco sperando che fosse la volta buona, ma capitava sempre qualcosa da fare, oppure Ceresa aveva da finire un discorso con Nora, o da catramare una barca avanzata la sera prima, e si rimandava.

Finii per andarci da solo, oltre la diga. Un giorno che Ceresa aveva da fare a Torino, io restai solo con Nora che puliva della verdura in un secchio sotto la tettoia. Nora mi teneva d’occhio senza parlare e allora mi annoiai. Le dissi che prendevo la barca e partii. Restai fino a mezzogiorno sull’acqua e tornai convinto che quel giorno non avrei visto Ceresa e che facevo meglio ad andarmene a casa. Invece Ceresa era tornato e rideva dalla finestra infilandosi la giacca e mi chiamò di sopra. Feci un passo ma poi vidi Nora sulla porta, che mi guardava di traverso, e non ebbi il coraggio di entrare per salire. Dissi: — Ceresa chiama, — e andai sotto la tettoia a posare il remo. Nora mi guardò mi guardò, poi salí lei.

Le mattinate erano l’ora piú bella, perché si poteva sempre sperare di piú che non alla sera. Alla sera dovevo andarmene perché dopo cena Ceresa e Nora si vestivano e si prendevano a braccetto: andavano a Torino, al cine, a spasso. L’imbarco restava vuoto, chiudevano l’osteria appena buio. Prima c’era sempre qualcuno e Ceresa ci faceva divertire: lui non aveva freddo, restava in mutandine anche al buio. Mi faceva rabbia che Nora, che non prendeva mai sole e doveva essere bianca come la pancia di un pesce, gli desse del tu e stessero sempre a braccetto. Avrei pagato per saper fare i loro discorsi.

— Vedrai quando mi sposo, – mi disse un mattino Ceresa, – sarà tutto come prima —. Io gli tenevo il catrame e avevo voglia di piangere. Non piangevo e guardavo la barca, perché non ridesse. Stavo attento che Nora dalla cucina non mi sentisse, eppure sapevo benissimo che voleva sposarla davvero.

— Io non mi sposerei, – dissi piano, – vedrai che, quando ti sposi, Nora non si mette piú il vestito rosso e cominciate a litigare.

— Cos’è che hai detto con lo Zucca ieri mentre giocava alle bocce?

Ceresa sapeva sempre tutto. Ma era lo Zucca, quello dal gozzo, che parlando con un altro aveva detto che Nora era una mula e Ceresa non doveva sposarla. Io avevo soltanto ascoltato portando i bicchieri.

— Tu sei un ragazzo, – disse Ceresa, – non fare i discorsi dei grandi. Se Nora ti dice qualcosa, dillo a me.

Ma Nora non mi diceva mai niente d’importante. Certe volte mi cacciava via. Quando lavoravamo con Ceresa intorno a una barca, lei dalla porta ci guardava con una faccia da padrona, e non capivo se guardava cosí me o Ceresa. Adesso aspettavo soltanto che tornasse il discorso, per dirgli che Nora era una donna cattiva.

Qualche giorno dopo il fatto dello Zucca, aspettavo in barca che Ceresa scendesse, ma Ceresa non veniva. Era salito un momento a prendere da fumare, e dall’acqua vedevo la finestra aperta, ma siccome era bel sereno potevano venire clienti a portarmi via Ceresa, e non vedevo l’ora che scendesse. Era un pomeriggio caldo, e non si sentiva neanche il rumore dell’acqua contro le barche. Poi intravedo la schiena di Ceresa alla finestra e sento che parla verso la stanza e non si volta a dirmi niente. Allora guardo il sole, poi chiudo gli occhi e me li premo, e vedevo tante macchie rosse e verdi e mi annoiavo. Aspettai non so quanto, e un bel momento vedo Ceresa sotto la tettoia che accendeva la sigaretta e mi chiedeva che facevamo. Gli mostrai il remo e Ceresa fece un gesto come a dire che gli seccava, ma saltò nella barca. Si lasciò portare da me fino al ponte e stava seduto senza parlare. Poi saltò in acqua e pescammo, e ogni tanto diceva qualcosa dei pesci, ma non smetteva di fumare e di drizzarsi a guardare l’acqua. Io gli parlai del motoscafo e discutemmo se andava a benzina, ma lui non mi prese piú in giro come faceva di solito, e sbatteva i pesci piccoli in fondo alla barca dicendo: — Crepate anche voi. Quella sera passò lo Zucca col barcone e disse: «Ehilà». — Tu sí che sei furbo, — dico io vuotando l’acqua sui pesci, e Ceresa lo guarda, poi mi guarda ridendo e mi pianta la mano sulla testa e mi fa il massaggio.

Eppure con Nora non aveva litigato. Alle donne piace fare del baccano o almeno piangere; le donne sono diverse da noi. Ma con Nora si stava zitti; scommetto che anche a lui Nora diceva delle volte come a me: «Come sei stupido. Va’ via», e allora Ceresa non poteva far altro che torcerle il polso e romperglielo. Una volta sola che in presenza di due clienti le disse di cucire il cuscino rotto di una barca, Nora prese il cuscino e lo tirò nell’acqua. Poi si chiuse di sopra e non voleva piú aprirgli. Io mi misi a servire ai tavolini dietro la baracca, dove non si erano accorti di niente. Ceresa non mi parlò per tutto il giorno e stette sotto la tettoia a limare uno scalmo e si pompava da solo la forgia e prendeva i carboni e li buttava con le mani nel Po ancora stridenti.

L’indomani trovo l’uscio di legno. Chiamo; non c’è nessuno. Allora me ne vado perché non volevo che mi trovassero i clienti e dovergli dire che Ceresa aveva litigato. L’imbarco fu morto per due giornate; poi un bel mattino giravo per caso sulla riva e vedo del movimento tra le barche. Era tornato Ceresa; era tornata Nora, che se ne stava alla finestra e si cambiava la camicetta. Ceresa imbarcava allora due ragazze, di quelle che si spogliano sotto la tettoia, e gridavano delle stupidaggini. Ceresa rideva e teneva la barca.

La sera ci fu la festa perché Nora era tornata. Vennero in cinque o sei, barcaioli e clienti – lo Zucca, Damiano, i soliti – ma parevano piú allegri e fecero mezzanotte discorrendo e scherzando. Dicevano tutti che Nora doveva fare il bagno e dicevano che l’indomani avrebbe comperato il costume e avrebbe servito in maglietta i giocatori di bocce. Poi venne fuori la luna, e il battuto era chiaro come a mezzogiorno; allora Damiano portò il vino e si misero a giocare. Io cascavo dal sonno ma non volevo andarmene; ci pensò Nora che mi disse: — A casa tua non ti vogliono? — e allora tornai.

Da quel giorno Nora divenne piú allegra ma con Ceresa era sempre pronta a rispondere, e Ceresa ci rideva sopra e alzava le spalle. Alle volte mi vergognavo io per lui quando quella strega diceva delle sciocchezze in presenza degli altri. S’era comperato il costume da bagno, un costume rosso come quel vestito, e lo metteva a mezzogiorno per prendere il sole mentre andava e veniva davanti alla tettoia, e lo teneva anche dopo, finché Ceresa non la prendeva per un braccio e la guardava con due occhiacci. Nora aveva una pelle che sembrava burro bianco, ma nel Po non faceva mai il bagno. Quando venivano Damiano o il figlio dello Zucca o dei soldati, si fermava a ridere con loro e farsi vedere. Io non capisco che cosa ci trova la gente nelle donne. — Vedrai, – mi disse una volta Ceresa, – che piaceranno anche a te.

Ma finora non mi è ancora capitato.

Poi Ceresa litigò con Damiano. Litigò un giorno che io non c’ero, e ne sentii parlare all’osteria il giorno dopo. Si erano presi a pugni e avevano gridato tanto che i tranvieri dell’altra riva sentivano. Quella volta guardai di nascosto la faccia di Nora, se fosse arrabbiata anche lei; ma piú che arrabbiata mi pareva spaventata. Invece Ceresa non disse niente e venne con me a pescare e quel giorno non c’era un pesce a pagarlo, e lui dalla rabbia prese la cesta e la sbatté contro la pila. Poi si distese in fondo alla barca e mi disse di portarlo a casa.

Ormai, se non mi diceva lui che c’era da fare qualcosa, io ci venivo malvolentieri all’imbarco. C’era delle giornate che stavamo sotto la tettoia senza parlare e Nora non si vedeva. Ma era ancor peggio quando Nora circolava in cucina o serviva i clienti, perché allora mi aspettavo sempre che dicesse qualcosa. Poi una volta cerco la mia barchetta – quella che mi ero fatto io sul banco della tettoia quando Ceresa mi lasciava lavorare – e non la trovo piú. Ceresa era seduto per terra contro il palo e gli chiedo dov’era la barchetta; lui mi dice che non sa. Allora corro in cucina e lo chiedo a Nora e la sento dire tranquilla che l’ha bruciata nel fuoco.

Ceresa mi chiese quel giorno, perché non imparavo un mestiere. — Ma voglio fare il barcaiolo, — rispondo. — Sei matto, – dice lui, – non vedi che mestiere dannato? Di’ a tuo padre che ti metta in fabbrica, diglielo. Piuttosto devi fare il soldato —. Mi fece pena, non per me che tanto ero niente, ma per lui che non gli piaceva piú il Po. Volevo dirgli che sposasse Nora, cosí l’avrebbe comandata meglio, ma non sapevo se mi avrebbe risposto. Mi rimisi i calzoni e tornai a casa.

Nora si era accorta di avermela fatta grossa, perché l’indomani mi chiamò in cucina e mi fece discorrere. Mi chiese se mi piaceva tanto fare il barcaiolo e se non avevo paura di annegare. Io le risposi che mi piaceva perché era il mestiere di Ceresa. Poi mi chiese se ero capace di portarla in barca. — Domandiamo a Ceresa se ci lascia andare a vedere la diga. Se domani fa bello, andiamo.

L’indomani si mise in costume e si fece imprestare la giacchetta di Ceresa. Prendemmo il cestino della merenda e lei si sedette sui cuscini; Ceresa ci guardò partire ridendo. Una volta passato il ponte, mi misi a remare lungo, e Nora mi chiese se era lontano. Le spiegai come si faceva a puntare il remo, e lei provò: mi venne vicino e per poco non cadevamo nell’acqua; le donne sono tutte uguali. Tornò a sedersi e mi chiese se sapevo nuotare nell’acqua alta. Sapeva che sotto la diga non si può nuotare e mi disse di fermarci allo sbocco del Sangone dove c’era l’acqua tranquilla.

Legai la barca a terra e, mentre lei mi guardava, feci un bel tuffo. Poi nuotai nel Sangone e le gridai che l’acqua era piú fredda che nel Po. Quando arrivai sotto la barca e cominciavo a toccare, vidi uscire sulla riva Damiano e un soldato. Erano amici, ma il soldato non l’avevo mai visto. Allora vennero vicino alla barca e cominciarono a discorrere con Nora. Io salutai Damiano, ma senza dargli confidenza. Salii da me sulla barca e mi sedetti.

Mi faceva rabbia Damiano, perché sapevo che remava meglio di me e, se Nora gli diceva di portarci alla diga, facevo la parte dello stupido. Ma Damiano e il soldato si sedettero sulla riva e cominciarono a scherzare. Non rispondeva, e dopo un po’ saltò anche lei a terra e disse che voleva passeggiare. Il soldato le mise la mano sulla cerniera della giacchetta e disse ridendo: — Ci vuol aria —. Era un napoletano.

Rimasi solo nella barca e pensavo che, se Ceresa lo avesse saputo, guai al mondo, e allora tornai nell’acqua perché chi passava non capisse che la barca era di Ceresa. Nora tornò ch’era già sera e mi disse che non dovevamo dire a Ceresa di aver visto Damiano. Questo lo sapevo anch’io.

Ma l’indomani cercò di nuovo di farsi portare – stavolta ai Mulini –, e mi toccò di non venire all’imbarco, perché tra Ceresa che insisteva e lei che mi guardava come fanno le donne quando sono arrabbiate, non potevo dir di no. Ci venni verso sera e la trovai che s’era già messa la gonna, ma, invece della camicetta, aveva ancora la giacca di cuoio. Si vede che adesso teneva il costume sotto la gonna. Mi guardò brutto, ma io stetti con Ceresa.

Erano belle le mattine di settembre, quando il Po faceva nebbia e aspettavamo che il sole poco alla volta la rompesse. Adesso c’era sempre qualcosa da fare alla forgia o nel catrame, e Nora non si vedeva tanto presto perché andava al mercato. Ceresa parlava meno di una volta ma gli stavo volentieri insieme perché capivo che era svogliato e mi lasciava pasticciare sotto la tettoia come volevo. Ogni tanto diceva qualcosa, e gli tenevo compagnia così.

Venne finalmente la stagione dell’uva, e un pomeriggio ne staccammo dalle viti che coprivano l’osteria e facemmo merenda col secchio. C’era anche Nora e mangiavamo ridendo, tutti e tre. Nora diceva che bisognava stare attenti perché di notte ce la rubavano. Poi per farci vedere dove i ladri potevano nasconderla, si aprì la cerniera-lampo della giacchetta. Intravidi che sotto c’era nudo, qualcosa di bianco e chiazzato; non aveva il costume. Chiuse subito.

Mentre noi facevamo merenda, c’erano due soldati che bevevano la birra a un tavolino, e uno mi pareva proprio quell’amico di Damiano che aveva scherzato con Nora. Ma come si fa a dire? si somigliano tutti. Nora portandogli la birra non s’era fermata.

Ma dopo un’ora li rividi tali e quali, che ridevano e discorrevano con Nora. Ceresa era entrato in casa. Vidi Nora chinarsi sul tavolino, e il soldato allungare la mano come quel giorno, ma stavolta tirar giú la cerniera, e Nora chinata rideva anche lei. Mi voltai soltanto quando sentii che Ceresa era sulla porta. Mi chiamò e non disse niente.

Un momento dopo io ero solo sul battuto delle bocce, i tavolini erano vuoti, e Nora e Ceresa erano in casa. Stetti a sentire se gridavano ma niente si muoveva. Avevo soltanto paura che arrivasse un cliente o tornasse una barca e dover chiamare Ceresa. Tra le piante era sereno e veniva sera; avevo freddo. Di là dalle piante sentivo gli uccelli che volavano basso. Sulla scarpata non passava neanche un’automobile. Parevano tutti morti.

Mi prese vergogna, paura, non so. Pensavo ancora a quel bianco di Nora. Mi pareva che tutto gridasse e di sentirmi chiamare. Poi s’aprí la finestra e Ceresa si sporse e disse: — Pino, fila a casa —. Chiuse subito.

L’indomani ci tornai col cuore in gola. Passai sulla scarpata senza scendere; l’imbarco era tranquillo in mezzo alle piante. Non c’era nessuno. Tanto dovevo fare una commissione al Dazio. Ma dopo pranzo mi decisi: Ceresa doveva saperlo che non ci avevo colpa. Vedo un mucchio di barche che andavano e venivano davanti all’imbarco; vedo due in borghese fermi vicino a un’automobile all’imbocco del sentiero. Capisco che non si può passare, e allora faccio il giro del prato. Sotto la tettoia tutti vanno e vengono, ma Ceresa non c’è. Allora trovo il figlio dello Zucca che mi dice che Ceresa ha strozzato Nora e l’ha buttata nel Po.

Io volevo vederlo per dirgli di quel giorno del Sangone, ma ci fecero sgombrare quanti eravamo e quando lui uscì si sentì soltanto il rumore dell’automobile. Poi mio padre mi disse che meno ne parlavo meglio era, per me e per tutti.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

ARTHEMISIA, le mostre d’autunno – Trieste, Museo Revoltella, I MACCHIAIOLI

Vincenzo Cabianca
Acquaiole della Spezia, 1864
Olio su tela, 60×127 cm
Collezione privata
Courtesy Butterfly
Institute Fine Art,
Galleria d’arte, Lugano

I MACCHIAIOLI
Trieste, Museo Revoltella
19 novembre 2022 – 10 aprile 2023

Col termine “Macchiaioli” si definisce il gruppo di artisti italiani più importante dell’Ottocento.
Spiriti indipendenti e ribelli che abbandonano le scene storiche e mitologiche del neoclassicismo e del romanticismo per aprirsi a una pittura realista e immediata, senza disegni preparatori, dipingendo per l’appunto “a macchie” dense e colorate la vita quotidiana, con brevi pennellate che rendono molto più veritieri i soggetti. I contorni nei loro dipinti sono sfumati nel tentativo di riprodurre la realtà così come appare a un colpo d’occhio.

Attivi negli anni ’50 e ’60, i Macchiaioli – i cui principali esponenti sono Telemaco Signorini, Giovanni Fattori e Silvestro Lega – si ritrovavano al Caffè Michelangelo di Firenze per discutere e confrontarsi sulla pittura “moderna”, e mostrano in pubblico le loro opere per la prima volta all’Esposizione Nazionale del 1861, ricevendo critiche sprezzanti (“macchiaioli” è il termine dispregiativo con cui vengono definiti nel 1862 dal giornale conservatore e cattolico “Nuova Europa”).

Come tutti gli artisti che segnano un cambiamento, non vengono compresi subito, ma nel Novecento vengono rivalutatati ed oggi sono considerati i precursori dell’Impressionismo, occupando un posto sempre più importante nella storia dell’arte europea.

I principali protagonisti del movimento furono, oltre i citati Signorini, Fattori e Lega, anche Giuseppe Abbati, Cristiano Banti, Odoardo Borrani, Vito d’Ancona, Giovanni Boldini, Federico Zandomeneghi e vari altri.

Attraverso un corpus di oltre 80 opere altamente significative del movimento, la mostra I Macchiaioli, che si svolgerà nella splendida cornice del Museo Revoltella di Trieste dal 19 novembre 2022 al 16 aprile 2023, racconta l’intera esperienza artistica dei Macchiaioli, a partire dal 1855.
Prodotta da Arthemisia e curata da Tiziano Panconi, la mostra è un’importante occasione per riscoprire i capolavori dell’arte dell’Ottocento italiano, fra dipinti celebri e opere mai esposte prima, provenienti dalle più prestigiose collezioni private italiane ed europee.

Opere dai contenuti innovativi per l’epoca che vertono sulla potenza espressiva della luce, che rappresentano la punta di diamante di ricchissime raccolte di grandi mecenati di quel tempo, personaggi di straordinario interesse, accomunati dalla passione per la pittura, imprenditori e uomini d’affari innamorati della bellezza, senza i quali oggi non avremmo potuto ammirare questi capolavori.

Al Museo Revoltella, si potranno ammirare opere quali Bambino a Riomaggiore (1894-95) e Solferino (1859) di Telemaco SignoriniMamma con bambino(1866-67) di Silvestro LegaFanteria italiana e Tramonto in Maremma(1900-05) di Giovanni Fattori e Bambino al sole(1869) di Giuseppe De Nittis accanto a Signore al pianoforte (1869) di Giovanni Boldini.

In occasione della mostra, si potrà visitare con un unico biglietto d’ingresso lo stupendo Museo Revoltella, Galleria d’arte moderna di Trieste che vanta una prestigiosa collezione: a partire dal ricchissimo lascito dell’omonimo barone Pasquale Revoltella – che ne fece la sua dimora fino al 1869 – per giungere alle più recenti acquisizioni con opere di grandi artisti come Fattori, De Nittis, Sironi, Carrà, De Chirico, Fontana, Pomodoro, Hayez e molti altri importanti esponenti dell’arte moderna e contemporanea.

La mostra, promossa e organizzata dal Comune di Trieste – Assessorato alle politiche della cultura e del turismo, con il supporto di Trieste Convention and Visitors Bureau PromoTurismo FVG, è prodotta da Arthemisia ed è curata da Tiziano Panconi.
Sostenuta da Generali Valore Cultura, la mostra vede come special partnerRicola ed è consigliata da Sky Arte.
Catalogo edito da Skira.


Info e prenotazioni
www.arthemisia.it

Ufficio StampaArthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
press@arthemisia.it | T. +39 06 69380306 | T. +39 06 87153272 – int. 332

07- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – L’eremita

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: il mare

L’eremita

Nino era un ragazzo dispettoso – così avevo sempre creduto – ma ora mi accorgevo che i suoi dispetti non erano capricci, o almeno non piú dei miei. Cominciavo a capire che quella casa non era per lui quello che era per me. Il corridoio che la traversava tutta, dalla porta d’ingresso all’uscio sull’orto – riempiendola di verde e di luce per chi vi entrava – era per lui una promessa di libertà, un richiamo all’aperto; per me il semplice sfondo di un’amarezza indurita. C’erano stanze – una stanza – sempre chiuse e se quando mia cognata per riordinare le apriva Nino vi ficcava il naso, provavo una fitta ribellione perché capivo che a lui le tendine, il comò, la toeletta, sarebbero rimasti in mente soltanto come un bello e strano scenario da fantasticarci.

Dopo la morte di mia moglie non credevo che sarei più riuscito a vivere in quella casa. Invece c’ero tornato, con Nino, nel forte del luglio, e i primi giorni Nino non smise di rimpiangere il mare da cui provenivamo. C’era stato quell’anno per la prima volta nella sua vita, e non gli aveva fatto troppo bene: come sua madre negli ultimi tempi già con gli occhi cerchiati s’incaponiva a mangiare certa frutta che le era piaciuta da ragazza, anche Nino aveva disperatamente tentato di nascondermi le nausee, gli sfinimenti che l’aria marina gli causava. Aveva dodici anni e non gli era parso vero di giocare tutto il giorno con l’acqua e coi coetanei. Quando gli dichiarai che saremmo inesorabilmente partiti, mi disse: — Vedrai che a casa starò ancora peggio.

Adesso s’andava rassegnando e rimettendo, anche grazie al permesso che gli davo di bagnarsi nel fiume. Ma gli vietavo d’andarci solo; lo accompagnavo io stesso, e Nino era abbastanza ragionevole da non cercare d’ingannarmi e farci scappate, anche perché sapeva che in questo caso ci avrebbe rimesso sui bagni futuri. Del resto lui che al mare si era fatto tanti compagni, in paese aveva l’aria di non intendersi né coi contadinotti, né coi pochi ragazzi della sua condizione che stavano sulla nostra strada. Faceva crocchio con loro, magari giocava, ma in casa non ne portava mai. Credo che fin dai primi giorni se li fosse messi contro ostentando con troppo calore i suoi ricordi marini. La mattina la passava scatenato per i prati dietro la casa, o aggirandosi sul mercato rumoroso fra le donne e i villani, avido specialmente d’incontri con venditori e ciarlatani che venissero da lontano, dai paesi dietro la collina, oltre le terrazze del fiume: gente che parlava in modi vivaci e vestita con larghe fasce rosse sui fianchi e qualche volta si vantava di essere stata in terre esotiche. Ricordo ancora la gioia con cui fece la conoscenza di Colino il pescivendolo, che teneva anche un barile di acciughe e gli raccontò che tutti gli anni andava in Spagna per rinnovarlo. Ne parlava a tavola con agitazione. Mia cognata – una buona donna che non era mai uscita da quella piazzetta – lo canzonò e Nino la guardò con odio. A metà pomeriggio prendevamo i prati, io e Nino – lui mi correva avanti – per andarci a bagnare. Il fiume in quel punto era larghissimo, sproporzionato al paese che vi digradava coi suoi orti, ma non molto profondo. Lo attraversavamo a guado e poi, spogliatici fra i salici, si prendeva il sole sul grande greto, ci si tuffava in un laghetto presso l’altra riva, e a volte per curiosità ci s’inoltrava nella macchia che correva indisturbata fino al piede della collina. Nino era molto orgoglioso della sua pelle abbronzata.

Sentii parlare dell’eremita la prima volta a tavola. A una parola di Nino mia cognata aveva rimbeccato: — È uno sporcaccione e non basterebbero tutte quelle donne a lavarlo —. Nino diceva che quella mattina l’eremita era comparso sul mercato a vendere pelli di conigli.

— E chi è? — chiesi.

Pare fosse un giovanotto che, stufo di lavorare, s’era stabilito a mezza costa della collina sul fiume, vi aveva scavato una grotta, teneva la capra, e si lasciava visitare da gente devota. — Ma il parroco in pulpito ha già avvertito le donne, — interloquì mia cognata. Nino, senza badarle, disse che aveva la barba bionda, una giacca di pelle e i sandali. — È un eretico, — disse mia cognata. Dichiarai ridendo che probabilmente era soltanto un fannullone. E allora Nino con foga si mise a spiegare che prima di fare l’eremita quello era stato marinaio e aveva girato il mondo, era stato ricco e aveva dato via i soldi. Queste cose le sapevano tutti in paese. Per esempio, Colino.

— Tu smettila, – gridò a mia cognata che rideva. – Sei una bigotta qualunque.

Così quel pomeriggio non andammo a bagnarci, e Nino che in castigo non piangeva mai scomparve per l’usciolo dell’orto. Verso sera uscii sulla strada a cercarlo, e ne chiesi ai muratori che lavoravano in fondo al paese alla chiesa nuova, ritrovo di tutti i ragazzi. Non l’avevano visto. Quando rientrai per la cena, andò mia cognata a prenderlo nell’orto, dov’era stato tutte quelle ore a passeggiare tra i fagioli e la griglia. Dovemmo metterci a ridere per rasserenarlo, e non toccargli più il suo eremita. Diverse volte nell’anno si era già comportato così, che era il modo di fare di sua madre – a uno screzio, a un rabbuffo anche innocente si chiudeva in sé stesso e impallidiva, stringeva i pugni, fuggiva a nascondersi. Si sarebbe detto che, morta lei, volesse prenderne il posto.

Le somigliava anche in un certo ardore rattenuto, che a volte lo faceva tremare e pareva consumarlo in fondo agli occhi. Io non sapevo che dirmi riconoscendo ora nei suoi gesti e nelle sue parole lei rediviva. Col dolore sempre presente, sempre incolmabile, della sua perdita, rifermentava in me l’antico rancore, l’astio inconfessabile che è il rovescio di ogni attaccamento troppo forte. Né mi sorprese affatto quando quella sera, portandolo noi a letto, Nino volle che la zia uscisse, la cacciò quasi, e poi mi disse supplichevole: — Papà, mandala via da questa casa. Mandala via perché la uccido —. Sua madre avrebbe detto lo stesso.

Per calmarlo dovetti promettergli di portarlo a visitare l’eremita. Ci andammo dopo un bagno più rapido uno di quei giorni, e ricordo che prendendo quegli erti sentieri mi lasciavo guidare da Nino che mi scappava innanzi come chi conosce la strada. — Sei già venuto quassù? — gli dissi. — Me l’ha spiegato il massaro —. La macchia di rovi e di felci continuava per un tratto di costa e ci fece sudare, esposta al sole e impervia com’era. Arrivammo sullo spiazzo trafelati. Nino vi giunse prima di me e si voltò a chiamarmi.

— Questo diavolo vive in mezzo alle vipere, — gli dissi raggiungendolo.

Un sentierino di lastre di tufo accostate portava alla bocca nera della caverna, che una siepe di spini rugginosi ostruiva. Sull’orlo della balza che dava nel vuoto facevano da ringhiera certe rampicanti attorcigliate a un traliccio di canne.

Parlavamo forte, ma nessuno si fece vivo. Mi avvicinai alla caverna per togliere Nino dalla brezza. — Te l’ho detto che a quest’ora va nei boschi con la capra, — disse lui, correndomi innanzi a far capolino sopra la siepe.

— Non entrare. È casa d’altri.

— C’è dell’acqua, – disse Nino. – Ho sete.

Ero stupito della sua audacia che non conoscevo, e mi sporgevo nella grotta con qualche esitazione, ma Nino scappò dentro scavalcando gli spini. Quando entrai, già beveva al ramaiolo.

Dal fondo della caverna veniva un tanfo di stalla. Il suolo era asciutto e sabbioso. Rivolgendosi all’entrata, non si vedevano che le rampicanti azzurrine nel vuoto.

— Usciamo, – dissi. – Siamo sudati.

Nino volle che accendessi un cerino per mostrarmi la volta. — Non bere più. Non sai mica che acqua sia.

— Oh è buona, — mi disse ansante.

Ottenni che si muovesse soltanto lasciando un mezzo sigaro nella tasca di un panciotto appeso al muro. Dirò la verità. Provavo una certa invidia sentimentale per quel poco di buono che aveva escogitato un modo cosí comodo e grandioso di spassarsela e vivere a simile altezza sopra tutte le seccature del paese e del mondo. Durante la discesa tra le felci guardavo Nino che, imbronciato, mi camminava innanzi senz’esitare mai sul sentiero da prendere. Era evidente che per quella costa c’era già salito altre volte. Gli tenni un discorso saltuario, interrotto dai fossati piovani, sul suo modo d’impiegare le giornate. Non era il caso di rimproverarlo. Ma gli chiesi di che cosa intendeva occuparsi, ora che s’avvicinava ai tredici anni e non era più un bambino. Questo discorso lo facevamo spesso, di ritorno dal fiume, e si finiva sempre in confidenze reciproche sul mondo e sulla nostra vita. Io gli parlavo di quand’ero ragazzo, lui m’interrompeva coi suoi progetti. Quella sera fu taciturno più del solito, tanto che m’impensierì.

Seguirono giorni immensi e bruciati – era mezz’agosto – tanto afosi anche tra quelle ventilate colline, che la campagna ne soffriva e dovetti fare scappate più assidue su certe terre che possedevo a mezz’ora dal paese. Nino veniva con me volentieri e conosceva tutti i miei contadini. Erano terre dov’era nata e cresciuta mia moglie, e dicevamo ancora «andare dalla Mamma», andar lassù. Con noi certi pomeriggi veniva la zia, contenta che così non andassimo al fiume. Sapevo bene che per contentarla avrei dovuto troncare del tutto i nostri bagni. Per non stare in ansia su Nino, quella buona donna era giunta a persuadersi che anche per me c’era pericolo a pigliare tanto sole.

Una mattina di mercato Nino uscì sperando d’incontrare l’eremita. All’una non era ancora tornato, e già tremavo pensando a quella chiesa in costruzione da cui non riuscivo a staccarlo. La zia brontolava in cucina. Quando apparve, trafelato e sudato, fu lei che lo interrogò. La zia sapeva dov’era andato. L’avevano veduto scendere al fiume con l’eremita. La zia gli tolse le scarpe. La zia gli trovò la sabbia tra le dita dei piedi.

Quello che Nino non voleva ammettere era di aver fatto senza mutandine il bagno in compagnia. Ma, se da solo, era peggio: aveva corso il rischio di annegare. Finalmente ammise che l’eremita l’aveva tenuto d’occhio dalla riva.

Lo castigai senza convinzione, parendomi la nostra una mera vendetta per l’ansia sofferta. Nino aveva un bel ripetere: — Sono forse annegato? —: la zia ce l’aveva con l’eremita vagabondo e peccatore.

Quel pomeriggio presi Nino in disparte e gli parlai seriamente. Gli dissi che capivo il suo dolore, che ero stato anch’io ragazzo, che non era questione delle mutandine, ma che bisogno aveva di scappare di nascosto e mettersi nei pericoli col primo venuto, quando sapeva che la sera stessa ce l’avrei portato io?

— La mattina è più bello, — disse Nino.

Allora lo misi in guardia contro l’eremita, gli dissi che non sapevamo chi fosse, ma che un gran che di buono non poteva essere se, così giovane e robusto, invece di lavorare fuggiva la gente e viveva come le bestie, si faceva mantenere d’elemosina e nemmeno la caverna dove stava era sua. Gli chiesi se era andato altre volte da lui.

Nino non mi rispondeva e fissava indignato la parete. La cena ci andò a tutti per traverso, perché Nino mi disse freddamente che non aveva fame. Si ritirò senza farselo ordinare e quando passai dalla sua stanza lo trovai muto, con gli occhi spalancati, come avesse la febbre. Gli toccai la fronte, che mi parve scottante. Gli dissi di non ammalarsi se voleva venire l’indomani a fare il bagno con me.

L’indomani Nino era sparito. Il letto ancor tiepido diceva ch’era uscito non prima dell’alba. Come per accompagnare il colpo, il tempo, torrido fino alla sera avanti, s’era guastato nella notte, e la luce fredda rompeva fra lampi e umide ventate. Sapevo che Nino aveva un affascinato terrore della folgore.

Lo cercammo per tutta la casa. Ne chiedemmo ai vicini; corsi nei campi a cercarlo dai nostri contadini dove qualche volta si rifugiava per nascondere le sue umiliazioni; mossi acerbi e ingiusti rimproveri alla zia, che mi guardava costernata. Ogni colpo di tuono mi rimescolava. A mezza mattina riprese a diluviare. Anche il fiume si sarebbe gonfiato, e forse Nino non aveva un tetto. Alla prima schiarita corsi dai carabinieri.

Era mezzogiorno e rientravo spossato sotto l’acqua, quando sbucò sulla piazza un gigante irsuto e biondo, avvolto in una stinta mantella militare. Quando fu sulla soglia, aprì la mantella ed ecco Nino, testa e gambe penzoloni come un capretto, che si rimise in piedi vergognoso.

— Questo ragazzo va sfangato, — disse con una voce allegra e rauca. Gli colavano stille dalla barba bionda, e il mantello esalava il tanfo dei cani bagnati. Nino lo fissava incantato, benché gli vedessi sulle gote tracce di lacrime recenti.

— Se col bel tempo volete venire a respirare l’aria buona, – disse il gigante serio serio, – non dico di no, ma ognuno ha la sua casa, anche le bestie.

Mi salutò con un cenno del capo, e se ne andò coi piedi enormi di fango.

Nino lo mettemmo a letto temendo la febbre, ma verso sera senz’averci parlato prese un sonno tranquillo. L’indomani si alzò cupo e assorto, e non volle bere il suo latte. Mi guardò di sfuggita quando la zia cominciò le domande, e non le rispose. Io colsi il momento e dissi a mia cognata che volevo salire dall’eremita per ringraziarlo.

Nino mi seguì nella mia stanza e balbettò che non ci andassi. L’eremita non voleva nessuno nella caverna. — Allora tu ci sei andato? — C’era entrato per ripararsi dalla pioggia. — Alle quattro del mattino? — Non andarci, non vuole nessuno, — ripeté Nino.

Gli dissi allora: — Sei tu che volevi restarci, sciocco. Sei tu che volevi scappare di casa. Chi vuoi che ti prenda. Non sei mica suo figlio. Lui ha dimostrato di avere la testa sul collo.

— È un vagabondo, papà.

— È un brav’uomo. Che cosa ti abbiamo fatto noi di male?

Tremavo nel mio cuore piú di lui. Non mi rispose. Ma se in quei giorni non tentò altre fughe, non fu certo per farmi piacere.

Agosto volgeva alla fine, e l’imminenza dei primi raccolti cominciò a scuotere la calma delle mattinate. Cigolavano carri; si sentiva parlare di feste e di balli nei paesi vicini. Un giorno che passavo sotto i ponti della chiesa (Nino era nei campi di meliga) sentii chiamarmi come per scherzo da una voce chiara. Da un davanzale apparve la faccia bionda dell’eremita. Risposi stupefatto.

— Ho trovato una casa ma non il tetto, — mi disse ridendo e tergendosi la fronte. Facce di muratori facevano capolino.

— Non state più lassù?

— Nei boschi? No. La guardia campestre non vuole. Solamente le bestie hanno il libero transito.

— Ma voi sapete un mestiere.

L’eremita fece un gesto come a dire che ne sapeva cento. Era curiosa la sua barbetta spruzzata di calce.

— Se vi occorre qualcosa, venite a trovarmi.

Mi ascoltò con gli occhi socchiusi e fece un cenno d’intesa. Scomparve nella finestra.

A Nino dissi ogni cosa. Glielo dissi per un senso di lealtà, di esultanza, e anche perché l’avrebbe saputo egualmente. Gli dissi la sera stessa: — L’eremita non fa più l’eremita, è diventato muratore —. Nino ascoltò impassibile e l’indomani traversò la piazza in quella direzione.

L’eremita ricoverava sé e la capra nello scantinato di un ciabattino, sito tanto umido che vi cresceva il capelvenere. La notte – mi disse Nino ridendo – era più sano non dormirci e passare il tempo all’osteria e sui pagliai. Capii che Nino voleva chiedermi, e non osava, ospitalità per l’eremita.

Colsi l’occasione e gliela proposi io stesso. Ma non potevo prendermelo in casa; gli feci far posto dai contadini sotto un portico. L’eremita lasciò il lavoro per venire a ringraziarmi e io gli dissi di tenermi d’occhio Nino su quei ponti. L’altra speranza era che Nino, non più impedito di vederlo, s’accorgesse ch’era un villano come gli altri e se ne staccasse.

Ma Pietro non era un villano come gli altri. Era stato perfino in qualche porto di mare e masticava nel suo dialetto parole esotiche che rapivano Nino. Ormai che all’odore del troglodita aveva sostituito quello della calce, capivo che il suo odore vero era di salute, d’aria aperta e di sagacia animale. Mi sentivo più vecchio con lui che con mio figlio.

In quei giorni anche il fiume perse ogni interesse per Nino. O meglio, il fiume in mia compagnia. Mentre se Pietro che non ne aveva voglia lo avesse accompagnato, sarebbe stata per Nino la felicità.

Tuttavia in settembre i muratori non lavorano troppo. I raccolti, e le feste che seguono, vuotano tutti i cantieri: e chi va a tagliare il fieno, chi a staccare la meliga, chi a spalmare le botti. Se non un giorno l’altro, Pietro e Nino partivano insieme: c’era sempre qualche cascina, qualche campo, da cui giungeva sul vento eco di fisarmoniche e di canti; e una volta o due Nino tornò solo, correndo; un’altra volta tornò tardi e scontroso, e finalmente un mattino passarono lui e Pietro per chiedermi il permesso di restare fuori fino a notte. Stavolta non fu contraria nemmeno la zia, che capiva una festa sull’aia.

A una sfogliatura che poteva durare fin sotto l’alba, Nino per poterci restare insistette che l’accompagnassi. Anche Pietro mi disse d’andarci perché non c’è di peggio che aspettare chi tarda.

Fu quella notte che vidi Pietro ballare e Nino prendersi gli scapaccioni perché lo rincorreva. Era buio sull’aia e i discorsi e la musica eccitavano, ma provavo una gran pena a osservare con quanta disinvoltura Nino obbediva al suo amico e nemmeno brontolava come avrebbe fatto con me.

Verso la fine della festa Nino cascava di sonno e Pietro lo prese in spalla e ce ne venimmo via. Eravamo taciturni, come sempre succede dopo ogni festa e disordine; il fresco di settembre ci teneva svegli.

— Non ce l’avete una moglie da qualche parte, Pietro?

— No, – disse Pietro. – Mai farle ballare due volte. Fuggire la tentazione —. Rideva.

— Dico per i figlioli. Sareste un buon padre. Lo vedete come vi cercano.

— Se fossi padre non mi cercherebbero. Li farei lavorare. Quanto piú presto imparano che l’unica cosa è l’allegria e saper fare da sé, tanto meglio. Anche il vostro.

Ai piedi della collina Pietro se lo tolse di spalla, lo posò a terra e lo costrinse a camminare. Nino aperse appena gli occhi, abbandonò una mano a ciascuno di noi e venne avanti a testa bassa.

— Era per stare allegro che facevate l’eremita?

— Sono le donne che mi han detto l’Eremita. Venivano su, mica le spose, e cominciavano a segnarsi. Allora l’ho capita e mi segnavo anch’io… Si sta bene da soli.

— Mi preoccupa questo ragazzo. Sempre nei pericoli.

— Ah! verrà grande anche lui.

Quella notte del ritorno l’ho nel cuore come l’ultima dell’infanzia di Nino. I canti, la stanchezza, l’eccitazione sotto la luna me ne hanno fatto qualcosa d’irreale e di triste. Voglio quasi bene a quel Pietro; si direbbe che il bambino fui io.

E l’indomani Nino, come se lo sapesse, restò nell’orto a leggicchiare e venne a pranzo contento e ancora assonnato. Parlò dell’uva che cominciava ad annerire. Quando gli chiesi se non veniva a bagnarsi, fece una smorfia e allegò la stanchezza. La zia fu contenta e Nino scomparve fino all’ora di cena. Stanco ero anch’io, e vagamente rassegnato.

Quando il dottore mi disse che potevo averne per un mese e fece chiudere le imposte, volli che venisse Nino, e gli dissi di non maltrattare la zia e rincasare regolarmente. Non era questo che intendevo, tante cose mi turbinavano nel cervello, ma non seppi dirgli altro e avevo la febbre. Nino mi ascoltò ai piedi del letto, con l’aria sospesa di chi ha interrotto per un momento un’altra vita.

Stetti malato più di un mese. Non ricordo le giornate perché per me non esistettero giornate. Passai un periodo di delirio e d’incoscienza. Mi curava sollecita la zia, veniva il dottore, venne Pietro a informarsi. Vedevo Nino qualche volta.

Quando fui convalescente e ripresi il piacere di guardarmi attorno, nella mia debolezza m’inteneriva il pensiero d’esser come rinato. Nino venne a trovarmi. Ritornavo alle vecchie abitudini come a cose nuove. Era la fine di ottobre e anche Nino viveva una vita insolita, perché avremmo dovuto essere già tutti in città e lui a scuola. Bisognava far presto, per non danneggiare i suoi studi.

Nino era servizievole e affettuoso piú che in passato, e mi parve anche cresciuto e più sicuro di sé. Ma quando rientrava togliendosi l’impermeabile – la vendemmia era finita da tempo – girava per la casa e rispondeva e si presentava come chi non ha conti da rendere a nessuno.

Che la zia dicesse guardandolo tollerante: — Non è stato cattivo in questo mese, — mi parve assurdo e quasi comico. Anche Nino sorrideva. Alla cascina, dove feci le prime passeggiate, seppi che Pietro li aveva aiutati nella vendemmia e nei lavori, e ora viveva senza far nulla, sugli avanzi delle giornate da muratore. Siccome saremmo partiti per la città fra poco, lo andai a cercare e gli proposi di tenerlo in cascina come bracciante, non più sotto il portico ma nella stalla. Pietro mi trovò buona cera, e mi rispose che aveva intenzione di vendere la capra e muoversi un po’. Il mondo è grande. Allora gli regalai cento lire, con un senso di sollievo.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

GRIMANESA AMORÓS con “SCIENTIA”: una monumentale scultura luminosa che esplora le relazioni umane

Per maggiori informazioni Grimanesa Amorós clicca il link 
Per maggiori informazioni su SCIENTIA clicca il link

L’artista peruviana 
GRIMANESA AMORÓS
con la sua gigantesca scultura

“SCIENTIA”

Fino al 31 agosto 2022 presso il Centro per la Società e la Cultura Contemporanea di Bilbao, Azkuna Zentroa, la spettacolare installazione luminosa della Amorós.

Questa installazione site specific rientra nel programma artistico del primo congresso internazionale The Wellbeing Summit for Social Change.

Fino al 31 agosto, l’atrio di Azkuna Zentroa – Centro per la Società e la Cultura Contemporanea di Bilbao, ospita SCIENTIA, una scultura monumentale dell’artista Grimanesa Amorós.

Partendo dall’importanza della luce per migliorare lo stato d’animo e la salute mentale delle persone, l’autrice peruviana – che vive negli Stati Uniti – presenta la sua installazione per stimolare momenti di riflessione e realizzazione personale.

Per creare sculture immersive su larga scala è necessario comprendere come l’ambiente in cui viviamo influenzi il nostro stato d’animo e il nostro benessere“, afferma l’artista.

La mia scultura luminosa SCIENTIA, per questo luogo specifico, coinvolgerà i visitatori in un dialogo con l’architettura e la comunità circostanti, promuovendo momenti di riflessione con se stessi e realizzazione personale, creando simultaneamente una connessione attraverso l’uso della luce“. 

Il nome del progetto, SCIENTIA –parola latina che rimanda alla conoscenza, all’ esperienza e alla perizia- implica un’attività interattiva a livello sociale, la ricerca e l’interscambio. Quest’opera d’arte esplora le relazioni umane utilizzando gli  elementi naturali: fuoco, acqua, terra e luce.

Afferma l’artista: “Attraverso questa immersione primordiale, SCIENTIA fornisce un mezzo per accedere al nostro io emotivo che nutre il benessere e promuove l’impegno comunitario.”

Questa installazione site specific rientra nel programma artistico del primo congresso internazionale “The Wellbeing Summit for Social Change“, che si è tenuto a Bilbao a giugno con l’obiettivo di affrontare il cambiamento sociale e comunitario attraverso l’azione collettiva.

Grimanesa Amorós 

Grimanesa Amorós ritratta con l’opera Scientia alle sue spalle

Grimanesa Amorós è un’artista nordamericana di origine peruviana che esplora il legame con la comunità nel punto di incontro con la storia, la tecnologia e l’architettura. Le sue monumentali sculture di luce integrano video, illuminazione ed elementi elettronici per creare degli ambienti immersivi. La tecnologia completa i concetti delle sue opere senza definirle. L’artista trae ispirazione da importanti eredità culturali, ma senza avere una visione nostalgica dei propri soggetti. Nell’arte di Grimanesa Amorós, il passato incontra il futuro.

Amorós è spesso invitata come relatrice principale in musei, fondazioni e università, dove le sue conferenze danno potere alle giovani donne, attirando futuri artisti, studenti e professori che lavorano nei campi dell’architettura, della scienza e della tecnologia. Ha esposto negli Stati Uniti, in Europa, Asia, Medio Oriente e America Latina. È stata relatrice invitata presso TEDGlobal, ha ricevuto la borsa di ricerca del “NEA Visual Arts Grants Fellowships” e ha il merito di far parte dell’«Art In Embassies Program of the U.S.» (il Programma di Arte delle Ambasciate degli Stati Uniti) e di contare sulla borsa di studio “Civita Institute NE Chapter Fellowship Grant”. Le sue opere sono state esposte in numerosi musei, tra cui il Museo Ludwig, il Museo CAFA, il Museo Katonah e il Museo d’Arte dell’Università Nazionale di Seoul.

Alhóndiga Bilbao Azkuna Zentroa è il Centro per la Società e la Cultura Contemporanea di Bilbao, con una prospettiva locale e internazionale aperta al dialogo con i diversi gruppi della comunità. Azkuna Zentroa è un luogo per partecipare alla cultura come pratica, processo e spazio di esperienze. Lavoriamo con artisti, agenti e comunità artistiche tramite modelli di programmazione ibridi e multilaterali che mostrano la dimensione quotidiana di tutto ciò che è contemporaneo, per raggiungere qualunque tipo di pubblico. Prestiamo particolare attenzione alla creazione basca moderna e alle prospettive femministe nell’arte, utilizzando la mediazione e l’istruzione come un modo per generare conoscenza critica e trasformare la società attraverso l’arte e gli artisti.

The Wellbeing Project (Il Progetto di Benessere) Il Progetto di Benessere è un’iniziativa globale incentrata sulla catalizzazione di una cultura del benessere interiore per tutti gli agenti di cambiamento e strutturata su quattro pilastri: programmi modello; ricerca e valutazione; apprendimento, convocazione e abilitazione e narrazione di storie e connessione. L’organizzazione si ispira all’amore, all’attenzione e alla compassione per tutte le persone impegnate nel costruire un mondo migliore; inoltre, sostiene le numerose cause e i movimenti per cui tutti noi lavoriamo.

The Wellbeing Project è stato creato in collaborazione con Ashoka, Impact Hub, Porticus, Fondazione Skoll, Istituto Synergos e Università di Georgetown. Nell’ambito di questo progetto, dal 1 al 3 giugno 2022 si è svolto a Bilbao-Bizkaia (Spagna) The Wellbeing Summit for Social Change (Il Summit sul Benessere per il Cambiamento Sociale), un evento mondiale che ha riunito i leader del cambiamento sociale, dei governi, dell’arte e dell’imprenditoria che lavorano nel punto di incontro tra il benessere individuale e quello collettivo. Questo vertice rappresenta un momento critico per promuovere un cambiamento culturale sistemico al fine di migliorare la salute mentale e il benessere di tutti gli agenti del cambiamento. Per ulteriori informazioni: wellbeing-project.org


INFO

Christian Campos Tel. 678 979 098
christian@acercacomunicacion.org
Enrique Llamas Tel. 672 30 08 96
enrique@acercacomunicacion.org

Ash Hagerstrand 
ash@grimanesaamoros.com

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Twitter: @TheWellbeingP @grimanesaamoros @azkunazentroa
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#TheWellbeingSummit #ArtxWellbeing #TheArts #Scientia #TWBS2022 #azkunazentro

Ufficio stampa in collaborazione con Acerca Comunicación
Anastasia Marsella | am@ufficiostampa-arte.it

Milano: Torna la terza edizione di ReA! Art Fair – Alla Fabbrica del Vapore 100 nuovi artisti emergenti

ReA! Art Fair | Edizione 2021 @ Michela Pedranti

MILANO | FABBRICA DEL VAPORE

DAL 13 AL 16 OTTOBRE 2022

ReA! ART FAIR

III edizione

Allo Spazio ex Cisterne, ritorna l’unica fiera italiana di arte contemporanea, interamente dedicata ad autori emergenti che si presentano senza l’intermediazione di gallerie o musei.

Cento saranno gli artisti che proporranno le loro opere capaci di abbracciare una pluralità di tecniche realizzative, dalla pittura alla fotografia, dalla scultura alla performance, dalla Digital Art alla Street Art, agli NFT, presenti per la prima volta.

Dal 13 al 16 ottobre 2022, lo Spazio ex Cisterne della Fabbrica del Vapore a Milano ospita ReA! Art Fair, l’unica fiera italiana di arte contemporanea, interamente dedicata ad autori emergenti che si presentano senza l’intermediazione di gallerie o musei. Obiettivo della fiera è supportare il lavoro dei giovani creativi offrendo loro una prima piattaforma di incontro con i collezionisti e le gallerie, oltre all’opportunità di vendita e di confronto con un ampio pubblico.

La main section di ReA! Art Fair, giunta alla sua la III edizione, promossa e organizzata dall’associazione no profit ReA Arte, col patrocinio del Comune di Milano, di Fondazione Cariplo, presenta 100 artisti selezionati dal comitato scientifico composto dalle curatrici di ReA Arte, Laura Pieri, Maria Myasnikova, Paola Shiamtani, Milena Zanetti, alle quali si sono aggiunte Erica Massacessi e Vittoria Martinotti, tra le oltre 800 candidature giunte da tutto il mondo, attraverso una open call.

La scelta ha privilegiato quegli autori che si sono distinti per il loro potenziale e per la loro prospettiva di crescita e che sono stati considerati pronti per esordire sul palcoscenico dell’arte globale sul quale, in alcuni casi, si affacciano per la prima volta.

ReA! Art Fair offre al visitatore opere che abbracciano una pluralità di tecniche realizzative, dalla pittura alla fotografia, dalla scultura alla performance, dalla Digital Art alla Street Art, agli NFT, presenti per la prima volta.

Tra le novità dell’edizione 2022, un nuovo spazio dedicato ai partner e ai progetti speciali, come lo spazio riservato a Lampoon Magazine e a Balloon Project.

I riconoscimenti agli artisti più meritevoli sono una delle particolarità più apprezzate di ReA! Art Fair. Tra questi, si segnala il Cash prize, un premio di €1.500 che andrà al vincitore scelto da una giuria esterna per conto di Artsted, la piattaforma digitale che offre investimenti nel mondo dell’arte accessibili a un vasto pubblico.

Tra la primavera e l’estate 2023 si terrà a Milano una mostra collettiva di 10 artisti selezionati da ReA!

In collaborazione con ExtrArtis, a due autori sarà offerta l’opportunità di frequentare una residenza d’artista in programma in Italia nel corso del prossimo anno.

Catalogo edizioni ReA Arte.

L’Associazione ReA Arte

Foto del team di ReA! Art Fair @xanikka

L’Associazione no profit ReA Arte nasce nel 2020 su iniziativa di un gruppo di giovani professioniste under 35 impegnate nel settore dell’arte. Pur con background differenti – dalla formazione curatoriale alla comunicazione culturale al fundraising – le organizzatrici si raccolgono intorno a uno scopo comune: promuovere l’arte e la cultura attraverso il sostegno di artisti emergenti, garantendo loro accessibilità al settore ed eque opportunità. A questo obiettivo si aggiunge quello di avvicinare il pubblico a un mercato dell’arte inclusivo e trasparente. Intorno a questa mission nasce ReA! Art Fair, arrivata nel 2022 alla terza edizione. A questa si affianca il dipartimento di formazione ReA! Education & Consulting che propone workshop e servizi di consulenza dedicati agli artisti emergenti e agli operatori di settore con l’obiettivo di trasmettere competenze specifiche per presentarsi e lavorare nel mercato dell’arte contemporanea, in modo strategico ed efficiente.


INFO
ReA! Art Fair 2022
Milano, Fabbrica del Vapore | Spazio ex Cisterne (via Procaccini 4)
13-16 ottobre 2022

Orari: tutti i giorni, dalle 11 alle 21

Ingresso libero

Informazioni:
info@reafair.com

Sito internet:
www.reafair.com

Social:
Facebook | Instagram | LinkedIn: @rea.fair

Ufficio stampa
CLP Relazioni Pubbliche
Anna Defrancesco | T 02 36755700 | anna.defrancesco@clp1968.it |
www.clp1968.it

ARTHEMISIA, le mostre d’autunno – Asti, Palazzo Mazzetti, BOLDINI e il mito della Belle Époque

Giovanni Boldini
La camicetta di voile, 1906 c.
Olio su tela, 72×63,5 cm
Collezione Sacerdoti Ferrario

Boldini e il mito della Belle Époque Asti, Palazzo Mazzetti
26 novembre 2022 – 10 aprile 2023

La Belle Époque, i salotti, le nobildonne e la moda: è il travolgente mondo di Giovanni Boldini, genio della pittura che più di ogni altro ha saputo restituire le atmosfere rarefatte di un’epoca straordinaria.
Letteratura e moda, musica e lusso, arte e bistrot si confondono nel ritmo sensuale del can can e producono una straordinaria rinascita sociale e civile.

Dal 26 novembre 2022 al 10 aprile 2023 Giovanni Boldini, uno degli artisti italiani più amati di ogni tempo, viene celebrato con una grande mostra a Palazzo Mazzetti di Asti. Dopo i successi delle mostre Chagall. Colore e magiaMonet e gli impressionisti in NormandiaI Macchiaioli. L’avventura dell’arte moderna, la collaborazione tra Fondazione Asti Musei e Arthemisia continua a richiamare folle di visitatori ad Asti.
Il nuovo progetto, a cura di Tiziano Panconi, è dedicato al genio indiscusso di Boldini.

Oltre 80 magnifiche opere – tra cui Signora bionda in abito da sera (1889 ca.), La principessa Eulalia di Spagna (1898), Busto di giovane sdraiata (1912 ca.) e La camicetta di voile (1906 ca.) – sono protagoniste di una narrazione cronologica e tematica al tempo stesso.
L’esposizione presenta una ricca selezione di opere che esprime al meglio la maniera di Boldini, il suo saper esaltare con unicità la bellezza femminile e svelare l’anima più intima e misteriosa dei nobili protagonisti dell’epoca.
Una mostra che pone l’accento sulla capacità dell’artista di psicoanalizzare i suoi soggetti, le sue “divine”, facendole posare per ore, per giorni, sedute di fronte al suo cavalletto, parlando con loro senza stancarsi di porle le domande più sconvenienti, fino a comprenderle profondamente e così coglierne lo spirito, scrutandone l’anima.
Farsi ritrarre da Boldini significava svestire i panni dell’aristocratica superbia di cui era munificamente dotata ogni gran dama degna del proprio blasone. Occorreva stare al gioco e accettarne le provocazioni, rispondendo a tono alle premeditate insolenze ma, infine, concedersi, anche solo mentalmente, facendo cadere il muro ideologico dell’alterigia, oltre il quale si celavano profonde fragilità.

Egli coglieva al volo l’attimo fuggente, quel momento unico in cui un’occhiata più sincera rivelava lo stato d’animo e la mimica del corpo si faceva più espressiva, l’istante in divenire fra un’azione e l’altra, quando la forza motoria di un gesto si esauriva, rigenerandosi prontamente in quello successivo.
Negli anni della maturità e poi della senilità, le lunghe e vorticose pennellate, impresse come energiche sciabolate di colore, rimodellavano in senso dinamico i corpi delle sue “divine” creature e il suo stile, a un tempo classico e moderno, costituiva la miglior risposta alle vocazioni estetiste e progressiste manifestate dagli alti ceti sociali.

La mostra Boldini e il mito della Belle Époque è realizzata dalla Fondazione Asti Musei, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Asti, dalla Regione Piemonte e dal Comune di Asti, organizzata da ArthemisiasponsorGruppo Cassa di Risparmio di Asti e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino.
Catalogo edito da Skira.


Info e prenotazioni
www.arthemisia.it

Ufficio StampaArthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
press@arthemisia.it | T. +39 06 69380306 | T. +39 06 87153272 – int. 332

06- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Insonnia

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: il mare

Insonnia

Quando rientravo avanti l’alba sull’aia (rincasavo da feste, da discorsi, da avventure) sapevo che mio padre era là, sotto la macchia nera del noce, e stava immobile, da chi sa quanto tempo, guardando in mezzo agli alberi, dardeggiando gli occhi, sempre sul punto di uscire sotto le stelle. Io sbucavo dal prato e attraversavo l’aia (avrei potuto passare dal portico e non esser veduto), ma era meglio se capiva subito che non volevo nascondermi e quando il buio sarebbe diradato sapesse già ch’ero tornato da un pezzo. Il noce riempiva mezzo il cielo, ma un gran tratto dell’aia restava scoperto e biancheggiava: io passavo su quel bianco, e la notte era tanto serena che mi vedevo sotto i piedi la mia ombra.

Attraversavo quel bianco senza guardare dalla parte del noce, perché se avessi guardato avrei dovuto fermarmi e mio padre mi avrebbe chiamato dicendo qualcosa e uscendo fuori. Mio padre non dormiva di notte perché era vecchio e gli pareva di perdere il tempo. Diceva che il tempo non passato sui beni è tutto sprecato. Nel cuore della notte scendeva dal letto (ci saliva che non era ancor buio), e cominciava a girare, entrava nella stalla vuota, raddrizzava un tridente, raccoglieva una paglia. Da quando le mie sorelle si erano sposate non ci restava che una vigna: due giornate di costa che lui di giorno zappava e di notte sorvegliava dall’aia. Un tempo (quand’eravamo bambini), già mezzo addormentati nel letto lo sentivamo toccare la corda nella stalla e spalancare la porticina che strideva raschiando. Allora quel rugghio ci pareva una minaccia, la voce vera di nostro padre, che insonne vegliava e nella notte esponeva la casa ai tremendi pericoli che un rumore improvviso può suscitare nel buio. Avremmo voluto che la porticina gli si richiudesse alle spalle, per sentirci piú sicuri in fondo ai letti, dove il nostro cuore batteva. Eravamo sempre vissuti in quella casa dove un rumore voleva dire un estraneo.

Adesso sbucavo sull’aia ridendo, e sapevo che mio padre mi aspettava sotto il noce. A volte mi accompagnava qualcuno fin sulla strada sotto la vigna: discorrevamo dell’ultima bottiglia, di quel che s’era fatto e si doveva fare. — A domani, – dicevo. – A domani, — e quell’altro si allontanava a passi lunghi, sotto le piante, anche lui verso casa. In tre passi salivo il sentiero e vedevo il gran noce e mi ritrovavo sull’aia di tutte le notti. Passavo senza fermarmi, davanti all’ombra di mio padre. Sentivo che mi guardava e voleva parlarmi. Non mi voltavo, arrivavo alla porta, e l’incontro era rimandato a un’altra volta.

Di giorno mio padre aveva le sue idee e si sfogava con la mamma e gridava con me. C’erano sempre dei lavori inutili e bisognava farli per amore della pace: si legavano fascine e si vangava. Mio padre chiedeva non tanto che noi ci chinassimo a faticare, quanto che gli fossimo intorno e girassimo sull’aia a fargli credere che c’era lavoro per tutti. Da quando le mie sorelle si erano sposate e gli affittavano la vigna, a casa nostra era una morte, non si vedeva piú nessuno, anche la stalla era vuota. Certi giorni mi annoiavo come quando ero ragazzo e nessuno veniva a giocare. Pigliavo nei campi bruscamente e dicevo che andavo in paese; andavo invece da mia sorella e le chiedevo di darmi un lavoro purchessia: non mi dava lavoro, ma di là passava sempre qualcuno e si discorreva a sazietà.

— Cos’avete fatto? — mi chiedeva a cena mio padre, e non bisognava rispondergli che avevamo chiacchierato, perché cominciava a gridare e a prendersela con la mamma che ci aveva messi al mondo così. Non con me. Venendo notte, non se la prendeva più con me, non osava affrontarmi. Era sempre sul punto di uscire dall’ombra, ma ogni volta io passavo, con la giacchetta sotto braccio, divagato e deciso, tendendo l’orecchio alle voci dei grilli, e nulla succedeva. Succedeva soltanto che, una volta entrato in casa, la mamma mi chiamava, con la sua voce soffocata, dal letto (neanche lei non dormiva piú molto, alla sua età) e voleva sapere se mio padre era sempre sull’aia, sapere che cosa faceva, se aveva detto che rientrava. La tranquillavo borbottando, le dicevo che ero io e che faceva sereno. Rispondevo cosí spazientito, che sembravo mio padre. Era il mese di agosto e non c’era da pigliarsela se un vecchio non voleva dormire. La mamma a poco a poco taceva, ma neanch’io riuscivo a prender sonno (mi agitavano il vino e i discorsi della notte). Fuori c’era la campagna, c’eran le strade deserte, l’indomani col sole sarebbe stata un’altra cosa; ma intanto la smania di finirla, di prendere un treno, di andare in città e fare una vita piú da uomo, non mi lasciava dormire. Anche mio padre era scappato giovanotto, e lui se n’era andato a piedi perché ai suoi tempi non c’era ancora la ferrovia. Ma dopo un anno era tornato. Io non volevo tornare mai più.

La notte della Madonna rincasai ch’era mattino, e una volta tanto il sentiero del prato mi parve diverso dal solito. Mio padre uscì dalla stalla mentre facevo colazione sulla porta.

— Com’è andata la festa?

— Ho trovato il Nanni, – dissi masticando. – Abbiamo parlato.

— Che cosa può dire quel vagabondo…

— Niente. Mi prende insieme a lavorare quando voglio.

Mio padre si fermò irresoluto; aveva in mano una cavezza e la posò sulla finestra. Ancora un anno prima me l’avrebbe appioppata sulla schiena. Ma adesso era inutile, e si voltò verso la stalla di dove usciva la mamma passandosi una mano sugli occhi. Io lasciai che gridassero e intanto guardavo l’ombra lunga del noce.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

Soriano nel Cimino (VT), Palazzo Chigi-Albani: All’interno della mostra “Cielo incluso” due appuntamenti di approfondimento

Cielo incluso, allestimento

Cielo incluso

Opere di Maria Grazia Tata
Fotografie di Salvatore Di Vilio
Testo di Massimiliano Palmesano

Fino al 28 agosto 2022

Incontri a Palazzo

7 agosto ore 10.30
Il Canto degli Uccelli, simbologia e alchimia fra Arte e Natura a Palazzo Chigi Albani

12 agosto ore 17.30
Metamorfosi, la Natura fra miti, riti e poesia

Complesso monumentale Palazzo Chigi-Albani
Giardini pensili e Palazzo
Soriano nel Cimino (VT)

All’interno della mostra Cielo incluso, con le opere di Maria Grazia Tata e le fotografie di Salvatore Di Vilio, accompagnata dal testo di Massimiliano Palmesano, negli spazi di Palazzo Chigi-Albani di Soriano nel Cimino, inaugurata il 23 luglio e visitabile fino al 28 agosto, saranno proposti due appuntamenti di approfondimento. 

Il 7 agosto 2022 alle ore 10.30 Il Canto degli Uccelli, simbologia e alchimia fra Arte e Natura a Palazzo Chigi Albani, con la partecipazione di Francesca Ceci – archeologa Musei Capitolini, Enrico Anselmi – storico dell’arte e curatore, Sigfrido E. F. Höbel – storico dell’arte. Sarà, inoltre, proiettato il video “Fonte Papacqua” di Sigfrido Junior Höbel, archeologo per ProjectTuscia. 

Il 12 agosto 2022 alle ore 17.30 Metamorfosi, la Natura fra miti, riti e poesia. Durante la presentazione del libro “L’Uomo Cervo, pantomima, rito e mito” di Massimiliano Palmesano, l’autore parlerà di creature fantastiche, metamorfosi e sciamani. Sara inoltre proiettato il reportage fotografico “Gl’Ciervo” di Salvatore Di Vilio, accompagnato poi dalle letture di Paco Milea, autore, attore, tratte da “Metamorfosi” di Ovidio, “Metamorfosi”. Siamo un’unica, sola vita di Emanuele Coccia, filosofo.

Cielo incluso si avvale del patrocinio della Regione Lazio, della collaborazione del Comune di Soriano del Cimino e di Raffaella Lupi della Galleria Sinopia Eventi di Roma. 

Nel testo di Massimiliano Palmesano i temi principali del progetto: 

“Ci sono alcuni luoghi in cui gli dèi custodiscono ancora tutto il loro arcaico potere. Dimensioni in cui – parafrasando Talete – tutte le cose sono piene di dèi. Al pari di due sciamani, Maria Grazia Tata e Salvatore Di Vilio hanno esplorato tali dimensioni portando con loro, come al ritorno da un viaggio misterico, le forme e le immagini degli dèi. Le percezioni annotate sul diario di bordo di questa esplorazione nella dimensione del sacro e del fantastico hanno plasmato la mostra Cielo incluso che si terrà all’interno del Complesso monumentale Palazzo Chigi-Albani a Soriano nel Cimino (Viterbo) e nei suoi giardini pensili. L’iniziativa è il risultato di una alchimia tra le opere di Maria Grazia Tata e lo sguardo fotografico di Salvatore Di Vilio che insieme hanno tracciato una cartografia delle dimensioni abitate dagli dèi. Con riferimento particolare a quelle figure che nei pantheon vengono indicate come “minori”, ma non perché esse siano meno importanti di altre: semplicemente perché sono deputate ad aspetti più intimi e quotidiani. Il filologo e storico delle religioni Walter Otto nel suo Teofania sosteneva che «gli dèi non sono frutto di invenzioni, elucubrazioni o rappresentazioni, ma possono soltanto essere sperimentati». E Cielo incluso è soprattutto una ierá odós (via sacra) esperienziale e misterica le cui tappe sono scandite da epifanie divine che si manifestano nel rapporto opera-fotografia. Un percorso di iniziazione ai segreti della sacralità della materia attraverso la primordiale magia delle immagini. Tata e Di Vilio fanno materializzare una “archeologia dell’invisibile” fatta di preziosi e impalpabili orecchini per le ninfe (Diumpae), di collane per le muse e di pettorine di rose e stelle; portano alla luce officine in cui lavorano riparatrici di ali, rammendatrici di foglie e fabbricatrici di stagioni segrete dentro cortecce arrotolate; dischiudono alla vista le dimore incantate delle divinità. Cielo incluso è una fiaba che parla di appartenenza, di legame con il territorio e con chi lo abita; un racconto fatto di boschi millenari, sorgenti dalle acque rigenerative e pietre animate. «Il divino, da cui l’uomo si sente consapevolmente protetto, non è dunque il “totalmente altro” – è ancora la Teofania di Walter Otto – in cui si rifugiano coloro per i quali la realtà del mondo è priva del divino. Esso è piuttosto proprio quel che ci circonda, in cui viviamo e respiriamo […]. Esso è presente ovunque. Ogni cosa, ogni fenomeno ne parla, in quella grandiosa ora nella quale essi parlano di sé». Proprio in quell’ora Maria Grazia Tata ha plasmato quella che ama definire la sua “paccottiglia cosmica”, nel medesimo istante Salvatore Di Vilio ha catturato l’immagine degli dèi.”
Massimiliano Palmesano, antropologo

Maria Grazia Tata

Maria Grazia Tata, da tredici anni trasferitasi a Soriano nel Cimino, lega la sua ricerca artistica al ‘sacro’ e all’invisibile della natura, della poesia, della memoria e dei fatti quotidiani. Lavora con tutti i materiali. Ha esposto in palazzi storici, musei archeologici, gallerie in Italia e all’estero (Sydney, Maputo, Los Angeles). “Opere come luoghi segreti…dove trovare rifugio e stupore. Una visione privilegiata, quella di Maria Grazia Tata, che ci suggerisce le tracce per l’ascolto della Natura e dell’Arte: un invito silenzioso a rispettare quanto di più prezioso ci circonda. Ma anche spartito musicale o pioggia che suona.” (Raffaella Lupi, Galleria Sinopia Eventi, Roma)

Salvatore Di Vilio

Salvatore Di Vilio, originario di Succivo (in provincia di Caserta), da oltre quarant’anni gira l’Italia e il mondo con la sua macchina fotografica realizzando reportage. La sua poetica in bianco e nero ha attraversato diversi stili fotografici, dalla foto-archeologia industriale alla denuncia sociale, pur prediligendo le narrazioni di carattere antropologico. Il suo obiettivo è stato testimone degli ultimi giorni della civiltà contadina meridionale e per tali ragioni la sua dimensione artistica si è sempre intersecata con una prospettiva di ricerca sul campo, dal lavoro dei canapicoltori alle feste religiose e a quelle profane come il Carnevale.


INFO
Cielo incluso
Opere di Maria Grazia Tata
Fotografie di Salvatore Di Vilio
Testo e consulenza storico-antropologica di Massimiliano Palmesano
Con il patrocinio della Regione Lazio
In collaborazione con il Comune di Soriano nel Cimino
In collaborazione con Raffaella Lupi – Galleria Sinopia Eventi
Video “Cielo Incluso”: montaggio e musiche di Michele Mele

Complesso monumentale Palazzo Chigi-Albani
Giardini Pensili e Palazzo
Via Papacqua, 471 – Soriano nel Cimino (VT)
Fino al 28 agosto 2022
Orari: da mercoledì a domenica 10-13 / 15-19

Contatti
info: 0761 748871 – 3783033319 – www.welcometosoriano.it
@tatamariagrazia  mgtata@iol.it – @salvatoredivilio  info@salvatoredivilio.it

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