09- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Primo amore

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: Il mare

Primo amore

Prima di conoscere Nino non m’ero mai accorto che i ragazzi con cui gridavo e correvo sulla strada fossero sporchi e malrattoppati. Li invidiavo anzi perché andavano scalzi e qualcuno sapeva premere il tallone sulle stoppie senza farsi male. I miei pallidi piedi cittadini invece si rattrappivano persino alla prova di posarli sull’acciottolato.

Di ciò che avevo imparato da loro soltanto certe bestemmie interessavano Nino. Nino stava in una villetta all’uscita del paese e aveva molte sorelle maggiori che m’intimidivano. Io mi fermavo sotto il muricciolo e guardavo tra le sbarre, sperando che Nino stesse già scendendo gli scalini del giardino; se ritardava, fischiavo piano fingendo d’essere una serpe e continuavo rinforzando a poco a poco, finché il cane non abbaiava. Nino giungeva correndo, perché aveva anche lui paura del cane.

Era impossibile proporre a Nino di scalzarsi o di giocare con gli altri. Senza avergliene mai parlato, dopo pochi incontri m’accorsi che con lui mi vergognavo di quei compagni. Ma il bello è che, da quanto diceva casualmente, appariva come li conoscesse tutti, sapesse i loro giochi, capisse i loro discorsi: pareva insomma uno di noi, tranne che portava una camicia e dei calzoncini piú puliti ancora dei miei e amava girare con le mani in tasca in viuzze fuorimano, sbirciando fra l’erba o per le finestre, guardando dietro ai passanti e facendo di tanto in tanto una smorfia.

Avevamo tredici anni, forse quattordici, e veramente anch’io mi sentii d’improvviso, quell’estate, insoddisfatto di quegli straccioncelli: se avevano la nostra età erano molli e sciocchi, se parevano magri e vivaci come noi erano già diciottenni e non s’andava più d’accordo.

Di che parlassimo con Nino nei primi giorni non ricordo bene. So che una volta gli chiesi quante sorelle avesse. — Nessuna, — mi rispose. — Come: e tutte quelle donne? non sono tue sorelle? — Sono tutte come la mamma, – mi disse, piegando il viso da una parte, come faceva spesso. – Che siano veramente sorelle non ce n’è.

Io gli raccontavo che una volta ero stato a caccia con un soldato in licenza; glielo raccontai tante volte, per dritto e per traverso, che un bel giorno Nino mi disse: — Bum. — Che c’è? – gli feci. – Vado a caccia anch’io; non si può?

Provai a portarlo alla bialera, dove certi miei compagni del mattino stavano a pescare con ceste, tutti inzaccherati d’acqua e di fango. Nino si teneva in disparte, sorridendo assente quando dall’acqua cercavo il suo sguardo e la sua approvazione; e una volta che il figlio del fabbro gli tirò addosso la cesta grondante, gridandogli di acchiapparla, lui si scostò, e non la raccolse. Gli diedero allora del «morto in piedi» e io tentai di giustificarlo spiegando che aveva il vestito nuovo. Ma Nino li insolentì e, siccome presero a tirarci del fango, gridò esasperato che aveva lui chi li avrebbe messi a posto.

Nino passava le mattinate in casa sua, a girare per le stanze; la prima volta che venni a cercarlo, allungando il collo in direzione della sua finestra, comparve una donna alta e bella che guardò attraverso il giardino e mi fece cenno di avvicinarmi. Io finsi disattenzione e sgusciai via. Temetti che Nino poi me ne parlasse, ma non fu nulla.

Da quel giorno divisi il mio tempo. Andavo al pascolo delle capre, di nascosto, quasi ogni mattino, coi ragazzetti di prima, e li sbalordivo con storie della città che a poco a poco divenne come una mia fattoria, dove accadevano straordinarie avventure sui tram e dentro gli ascensori. M’interrompevo ogni tanto e rincorrevo anch’io una capra, o scortecciavo un ramo, o cacciavo cavallette. Al pomeriggio nelle ore calde, che un tempo passavo sul fienile o nella stalla, andavo invece a prender Nino, e mi pareva di perdere il tempo, di annoiarmi, eppure ogni giorno ero là e, quando tornavamo dopo una tortuosa passeggiata su per la salita della chiesa o lungo i campi, avrei voluto entrar con lui nel giardino, sedermi sulle poltroncine di vimini e farmi mortificare dalle sorelle. Ma la prima volta che Nino m’invitò non osai.

Di ritorno dalla nostra avventura della bialera, lo sconsigliai dall’immischiare i parenti nei fatti nostri. Nino rise tra i denti e mi disse che, se avevo paura che le donne di casa sua sapessero di quei miei straccioni, potevo starmene tranquillo. Ben altro era il suo amico.

Me lo fece sentire che rideva, un pomeriggio, passando davanti al retrobottega dei Concimi. C’era ferma nella stradetta un’automobile bassa che avevo già vista. Veniva dalla soglia socchiusa un vocío basso di molti e una solida risata dominò a un tratto le voci, seguita da qualche altra piú rauca. Nel tanfo di zolfo e concimi, Nino si spiegò innanzi e disse: — Ora esce —. Uscì un vecchio bracciante che ci riconobbe ammiccando; poi, spalancata la porta, gridò: — Butta.

Volò un sacchetto sodo, che il vecchio pigliò a volo e depose nell’auto. Ne volò un altro, poi un altro.

— Aiutaci, signorino, — disse il bracciante scoprendo le gengive. Nino saltò la soglia e scomparve. Io rimasi vicino all’auto, cercando d’indovinare le ombre che si agitavano là dentro.

Quando l’auto fu quasi piena e io aiutavo il vecchio a raggiustare i sacchetti, apparvero sulla soglia Nino e un uomo riccio, fazzoletto al collo, cintura rossa e stivali. Era a maniche rimboccate e teneva tutta la porta. Nino gli arrivava al gomito.

Parlò, con una voce sorridente a Nino, e anche a me: — Vi siete fatti amici, eh? — Mi strizzò l’occhio e mi prese una mano; io mi divincolavo. Mi fletté a forza due o tre volte l’avambraccio, poi disse: — Nino, non farti picchiare perché è piú forte di te —. Poi rialzandosi, girò tutt’intorno il capo e disse: — Finito?

Trasse una sigaretta e se l’accese. Saltò nell’auto, ci disse: — Saluto, — e partì.

Quella sera Nino s’infervorò parlandomi: non poteva star fermo sul muricciolo dove andammo a sederci, ma non aveva i soliti occhi inquieti. Alle mie domande sfavillava.

Bruno faceva il conducente, ma era un suo vero amico. Era venuto a prenderli alla stazione il giorno dell’arrivo e per tutta la strada intorno alla collina verso la villa aveva parlato con lui, dando appena risposta alla mamma e alle sorelle quando parlavano, spiegando a lui ogni cosa. E ancor adesso gli chiedeva qualche volta come se la passavano quelle manzette di sue sorelle, e manzette voleva dire «stupide come le manze». Una cosa sola piaceva a Bruno delle sue sorelle: le sigarette americane che si faceva portare da Nino ogni volta che poteva, con la scatola, perché il pregio stava nella scatola.

Nino parlò di tutto quella sera; parlò del bagno di casa sua dove c’era un profumo migliore che nei prati, e avrebbe voluto condurci Bruno che si lavasse il suo puzzo d’uomo fatto ma pulito; ma soprattutto avrebbe voluto accompagnarsi con lui e con me sull’auto, in giro per i paesi delle colline, divertendosi e imparando a guidare.

Bruno gliel’aveva promesso, ma non veniva mai l’occasione. Bruno tormentava tutti, e si divertiva a dirgli sempre che tutti erano piú forti di lui. Qui mi piantò un pizzicotto da strapparmi la pelle e saltò indietro. — Vediamo se sei piú forte, — gridò invelenito, e raccolse un sasso.

«Perché fai questo?» avrei chiesto a Nino, se fosse stato uno dei momenti che ci fermavamo zitti al cancello della villa, prima di lasciarci. Ma se fosse stato quei momenti, non avremmo nemmeno parlato. Non capivo proprio che bisogno avesse Nino d’interrompere la contentezza del discorso per dirmi una cattiveria. Io non facevo il bagno in una bella vasca come lui, ma mi rincresceva di essere piú forte.

— Dice a tutti che sono piú forti, — disse Nino, lasciando cadere il sasso e avvicinandosi con una faccia maligna.

Non mi fidai di rispondere con lo stesso sorriso.

— Anche a te piace Bruno, eh? – continuò Nino. – Sta’ attento che a lui piacciono le manze. Le mie sorelle.

— Tutte quante? — esclamai.

— Tutte, — disse Nino.

— Ma gli uomini ne scelgono una, — dissi.

— Quanto sei stupido, – disse Nino. – Non le può mica sposare.

— Ma se hai detto che parlava solo con te.

— È perché loro non gli dànno risposta. Sono stupide.

Tornai a casa disgustato, vergognandomi dei baffi di mio padre e della tela cerata sporca di vino sulla quale mangiavamo la cena. La mia sorellina strillava. Non avevo mai viaggiato in automobile e pensavo quanto sarebbe stato bello salirci con Nino e Bruno; ma che le sorelle di Nino fossero stupide, e lui tanto maligno, mi umiliava. Per fortuna non gli avevo detto che una notte me le ero sognate.

Il mattino dopo provai onta di uscire ancora al pascolo coi soliti ragazzi, e mi disposi a passare il tempo come Nino, facendo colazione, lavandomi, girando per la casa: arrivare insomma come lui a mezzogiorno. Ma alle dieci ero in cortile e non sapevo piú che fare.

I bassi meli in fondo, di fianco al rustico, li sapevo a memoria. Gironzai sotto il porticato di fronte, dove c’era la catasta di fascine dell’anno prima, e passò la moglie del mezzadro con un secchio. Aveva sul capo grigio un fazzoletto giallo e le maniche rimboccate. Allora capii perché Nino poteva stare tutta la mattina senza giocare: nel suo giardino le sorelle andavano e venivano, e doveva esser davvero molto bello vivere con loro, se piacevano perfino al conducente. Io non avevo che mia madre e la serva che s’affaccendavano come i contadini, e mio padre tornava soltanto la sera.

La mezzadra corse alla stalla. Sentii la vacca muggire con uno scoppio rabbioso, che pareva piangesse. Mi feci sulla porta. La donna accorse irritata. — Va’, va’, – mi disse, mettendomisi davanti per riempire il vano, – non si deve guardare. Va’ e chiama Pietro; digli che è ora. Capito? — Pietro zappava in fondo a un campo, dietro la casa. Ritornai con lui, che passò prima nella cucina a bere un sorso alla bottiglia; e ci facemmo alla stalla. Di nuovo la vecchia mi respinse. Pietro si volse e brontolò: — Vai a dire a tua madre che le facciamo il vitello.

Rimasi a gironzare, sussultando di paura a certi muggiti bestiali che scoppiavano nell’aria fresca, seguiti da gorgoglii moribondi. Poi uscirono voci concitate; la mezzadra esclamava, e infine scrosci d’acqua e un tintinnio di catena. Io pensavo al pancione sformato della vacca, che avevo veduto giorni prima.

D’un tratto mi venne in mente Nino, e mi buttai a correre per giungere in tempo. Capitai davanti alla villa mentre usciva una sua sorella, quella bionda, che aveva una pelle bianca bianca, e mi piaceva quando passava in bicicletta. Mi posò una mano sulla testa, ridendo, e mi chiese cos’avevo. Cercavo Nino. — Perché? — insistette lei. — C’è nato un vitello, — balbettai tutto rosso. La donna mi guardava e levò la mano, e rise forte.

— È carino? — mi chiese. Io non seppi che dire. Quella rise ancora e si volse e chiamò: — Nino! — Qualcuno rispose. Allora mi accennò con la mano, sogguardandomi appena, e se ne andò, aprendo il parasole.

Quando giunse Nino – il cane abbaiava e scorrazzava facendo tintinnare la catena – non avevo più voglia di portarlo alla stalla. M’aveva ripreso la vergogna di quel cortile sporco davanti a casa. Dissi soltanto: — Vuoi venire?

Finimmo quel mattino alla bialera, dove c’erano le lavandaie. Tacevamo tutti e due.

— Hai già veduto nascere un vitello? – dissi a un tratto. – Io ne ho veduto nascere uno stamattina. Faceva paura.

Nino mi chiese: — Gridava?

— No, gridava la mamma, – dissi: – la vacca.

— Perché non mi hai chiamato?

Io feci un viso offeso, come il giorno prima.

— Stupido, – disse Nino tutto in orgasmo, – avremmo veduto come nascono i bambini. Hai proprio visto come ha fatto?

— Non hai mai veduto nascere un bambino? — risposi con importanza.

Nino tacque e guardò a terra. Le lavandaie sbattevano i panni sulle pietre. Ce n’era una grassa, rimboccata fino alle spalle, che menava certi colpi robusti, mostrando l’ascella e ridendo a una compagna. Le sussultava tutto il corpo, accovacciato nel fagotto delle sottane.

— È come vedere un cavallo cacare, – ripresi con la voce malferma. – Solamente ch’è più grosso.

— Hai proprio visto?

— Sicuro, — risposi.

— Anche tu sei nato così, — disse Nino con rabbia.

— Sì, anch’io, — risposi tranquillo.

Allora Nino si tirò un pugno in faccia e si lasciò cadere a terra. In piedi accanto a lui, lo guardavo imbarazzato. Mi sedetti per confessargli la verità ma in quel momento si mise a ridere.

Però rideva verde. — Se vuoi venire in automobile con noi, dimmi com’è.

Fissai Nino: aveva occhi e labbra accesi. Balbettò adagio: — Hai veduto tua mamma?

Lo guardai stupefatto e dissi: — Stupido che sei.

— Dimmelo, chi hai veduto?

— Ho veduto il vitello.

— Non le donne?

— No, — e fissai terra.

La voce di Nino mi scoppiò vicino all’orecchio: — Allora non sai come fanno?

Confessai che non avevo veduto nemmeno il vitello.

Allora Nino si rotolò nell’erba e saltò in piedi. — Io so come fanno, – disse. – Esce del sangue e devono strappargli il bambino.

— Non sempre esce il sangue.

— Sì, esce sempre perché le donne gridano.

— No, – dissi, – senti, — e gli spiegai che avevo veduto una vacca dopo ch’era nato il vitellino, e non c’era sangue e il vitellino era soltanto un po’ umido.

— Le donne fanno sangue, – insisté Nino. – Tu non sai niente.

Mi spiegò a voce rauca come facevano le donne. Non lo interruppi, ma fissavo l’erba.

— Anche le tue sorelle? — dissi alla fine.

— Anche.

Quel pomeriggio Bruno arrivò inaspettato in paese e ci prese con sé sulla macchina, perché portava una damigiana alla stazione e c’era posto. Ci mise sul sedile posteriore a tenere la damigiana e si partì. Per tutta la strada ebbi il cuore in gola e mi pareva di volare come volavano gli alberi e i paracarri e i passanti. Socchiudevo gli occhi nel sole, vedevo la nuca ferma di Bruno sul fazzoletto rosso e gli scatti del suo braccio posato sul volante. Temevo che fermandoci la damigiana sarebbe caduta.

Invece tutto andò bene e fui io che traballai tutto sudato, una volta a terra. Bruno trasportò vociando la damigiana nel deposito; poi ci condusse all’osteria della stazione. Mi sedetti, intimidito, nella penombra fresca, facendo come Nino che fissava tutti in faccia e rideva con Bruno, levando la faccia a guardarlo.

Bruno chiese da bere e Nino volle per sé la ghiacciata.

C’eravamo bagnata la bocca, quando Nino deglutí e disse sornione: — Berto, racconta a Bruno che hai visto fare un bambino.

Bruno mi guardò di traverso, con un occhio solo. Posò il bicchiere, aggrottando le labbra.

— Se sei tu… — scattai inferocito.

Bruno s’asciugò il sudore. Si volse a Nino: — Digli che impari a far l’uomo, piuttosto. Ne avete bisogno, alla vostra età. Al resto ci pensano le donne.

— È nato un vitello… — disse Nino.

— Sono nati due asini, – interruppe Bruno. – Non avete altro da parlare?

S’asciugò un’altra volta il sudore. Pareva seccato e noi tacevamo, abbassando gli occhi. Nino masticava il suo ghiaccio, a capo basso.

— Nino, ti ha dato le sigarette, Clara?

Clara era la sorella bionda. – Le ha nascoste, — disse Nino.

Bruno arrotolò la sua, dicendo indifferente: — Volete venire domani ai Robini? Ritorniamo per mezzogiorno. Vieni anche tu, Berto?

Nino disse: — Dammi da fumare.

Guardai la manona di Bruno arrotolare la sigaretta e non osai chiederne anch’io. — Nino, ci vai domani? — dissi invece. Nino guardò di sottecchi Bruno e chiese piano: — Staremo al muretto? — Bruno annuí e gli tese la sigaretta. Non capivo la faccia pallida di Nino. Lo vidi accendere con Bruno e la mano tremargli.

— Bevi del vino, – disse Bruno. – Il ghiaccio è per i malati —. Sapevo che a Nino il vino rosso ripugnava eppure lo vidi tendere il bicchiere e accostarselo adagio alle labbra. Lo trangugiò tutto.

— Allegro, – disse Bruno. – Quest’inverno quando sarete in città, non avrete piú del vino buono. Crescete magri, in città. Tu, Berto, hai già la ragazza?

Dissi imbarazzato: — Non c’è tempo: d’inverno andiamo a scuola.

— Perché, d’estate ce l’hai?

— Io… no.

Bruno si mise a ridere, franco. — Bravo, vi vedete d’inverno con Nino?

— Quest’anno ci vedremo, — dissi di scatto a Nino.

— Sta’ attento che Nino studia la scherma e t’infilza, — mi disse Bruno, ammiccando.

Nino non parlava. Bevve un altro bicchiere e mi ascoltava appena. Seguiva con gli occhi il bracciale di cuoio che cingeva il polso quadrato di Bruno. D’un tratto chiese a che cosa serviva.

— A rompere la faccia ai prepotenti, – spiegò Bruno. – Si dà un colpo per storto, a soprammano, così non si feriscono le dita, e fa l’effetto di un guantone. Una notte a Spigno c’era uno che mi passa vicino alla macchina – ero fermo alla stazione – e sputa dentro. Sputa e tira avanti. Non bisogna mai tollerare uno sputo, perché chi sputa ha paura. Gli volo addosso e gli sfianco la faccia. Così. Vedete a cosa serve?

Nino tossì sulla sigaretta, senza distogliere gli occhi dal volto fiero di Bruno. Come già le altre volte che avevamo fumato dietro la chiesa, lui sopportava benissimo il fumo. Doveva essere il vino che lo confondeva. O forse qualche pasticcio con Bruno. Perché Bruno chiamava la sua sorella per nome?

— Quando tua mamma e le tue sorelle faranno quella gita in Acqui che hanno detto ti farò vedere la piazza dove una volta ho fermato un cane arrabbiato mettendogli in bocca il cuoio. Vedete i segni dei denti?

— Io non verrò in Acqui con voi, — disse Nino.

Bruno si mise a ridere. — Berto, finisci di bere. Domani allora.

Andammo ai Robini, e per tutta la strada, che fece in velocità, Bruno fischiettava volgendosi a me dopo ogni curva. Nino, seduto accanto a lui, teneva il mento sul petto, come se qualcuno l’avesse picchiato; e due o tre volte girò gli occhi alle colline, nel cielo, con uno scatto quasi si svegliasse allora.

— La campagna è asciutta quest’anno, — dissi con tono rassegnato come faceva mio padre.

Bruno non si volse, e infilò invece una stradetta laterale, che saliva fra le gaggie. Dopo un cinque minuti di frasche in faccia, ci fermò a mezzacosta presso un ponticello murettato su di una balza. Saltò a terra e ci disse: — Allora aspettate. Guardate la macchina –. Chiuse il motore e tolse la chiavetta. – Non toccate, perché tanto non si muove. Allegro, Nino –. Ci diede una sigaretta per uno e ce l’accese. – Se qualcuno sale la strada, chiunque sia, suonate il clacson. Capito? Se tutto va bene poi ti lascio guidare, Nino. Anche tu, Berto, e state attenti, chiunque sia —. Prese il sentiero della costa e scomparve fra le gaggie.

Ora, faceva un gran sole e noi, riparati all’ombra delle gaggie, dominavamo dall’alto un lungo tratto della stradetta ripida. Nessuno poteva entrarci dallo stradone, senza che ce ne accorgessimo. Non ero mai stato lassù.

Nino evidentemente c’era già stato. Senza voltarsi, fumava seduto al volante e non s’interessava dei comandi che aveva sott’occhio. Fumava come un uomo, senza guardare la sigaretta, a scatti.

— Starà via molto Bruno? — dissi.

Nino non rispose. Saltai a terra e feci il giro della macchina e diedi un’occhiata ai fari e alle gomme impolverate. Guardai giù dal muretto la balza disseccata: soltanto nelle piogge d’autunno doveva riempirsi e schiumare. Vi affioravano radici nodose che mettevano voglia di calarsi giù, non fosse stata la paura delle serpi. Vi buttai il mozzicone della sigaretta, e poi cercai di spegnerlo a sputi. Nino non si muoveva.

— Lascia sedere un po’ anche me, — dissi voltandomi.

Nino mi guardò con gli occhi strizzati di quando era maligno.

— Lo sai dov’è andato? — disse.

Alzai le spalle. In quel momento un cane, non lontano, si mise a latrare.

— Ecco, – disse Nino, – è arrivato adesso dalla donna. Va a trovare la moglie o la figlia del Martino, che l’aspettano e legano il cane, e vanno a letto insieme.

— Ma se è giorno, — dissi.

Nino alzò, le spalle. — Si mettono sul letto, – continuò. – Così fanno più presto. Però sta anche un’ora, – e rise, – se non viene nessuno.

— E dov’è Martino?

— Il Martino è andato alla stazione. Ho sentito ieri.

— E se arriva?

— Se arriva, ci siamo noi per suonare.

Non ero convinto. — Te lo ha detto Bruno?

Nino mi diede un’occhiataccia e buttò via la sigaretta.

— Non ci credo, – ripresi. – Ci vorrebbe troppo tempo. Bruno ha altro da pensare. E poi deve guidare l’automobile…

— Ebbene?

— … Sarebbe troppo stanco… — dissi esitando.

— Bruno è forte, – disse Nino con rabbia. – Ma vedrai.

— Che cosa?

— Vedrai.

La stradetta chiazzata di sole era sempre deserta, e nel calore mi tremavano le foglie sotto gli occhi. O piuttosto era il mio cuore che pulsava sbigottito, e il paese, la casa, parevano tanto lontani da quella solitudine e con quei pensieri. Se soltanto Nino non avesse avuto quel tono ostile. Mi tornò a mente Clara ch’era alla villa e non sapeva niente di noialtri. Anche lei era una donna. Malfermo, mi sedetti allora sul montatoio della macchina.

— Non ci credo, – dissi a un tratto. – La Martina va sempre in chiesa.

— Tutte le donne vanno in chiesa. Non sai che si sposano in chiesa? E due si sposano per andare a letto, no?

— Non ci credo, – dissi. – Bruno è un uomo come noi.

— Sai che cosa gli faccio?

— Che cosa?

— Vedrai.

Salii nell’auto e mi sedetti accanto a Nino, che mi guardava di sottecchi. Fischiettava tra sé.

— Adesso si baciano, — disse a denti stretti.

— Nino, – esclamai, – se torna il Martino, che cosa facciamo? lo racconterà a casa…

— Non tornerà, – disse Nino. – C’è qualcuno? — Si volse e scrutò la stradetta, lo stradone e tutta la pianura. Tendemmo l’orecchio. Nessuno.

— A quest’ora si sono svestiti, — continuò Nino pallido.

— Macché… — balbettai.

— E allora, pronti, — gridò Nino e premette il bottone del clacson.

Risposero i latrati del cane. Mi parve che tutta la boscaglia stormisse, nell’attimo che seguì. Feci per fermare la mano di Nino, ma già l’urlo rauco del clacson, che parve d’un uomo strozzato, tornava a scoppiare.

Quando Bruno sbucò, saltando dal sentiero, noi stavamo accovacciati nell’erba dietro i tronchi, dove m’aveva trascinato Nino. Bruno si guardò intorno e guardò la stradetta, mentre gli pendeva dalla mano la cintura rossa.

Cingendosi i calzoni, guardò ancora tutt’attorno e chiamò: — Nino! — a bassa voce. Nino mi strinse il braccio.

Bruno era salito sull’auto e scrutava lo stradone là in basso, muovendo le labbra. Aveva i capelli in disordine e la faccia come uscita allora da sotto la pompa. Scese dall’auto e andò contro le piante. Volgendoci la schiena si piantò a gambe larghe e dopo un poco lo sentii che zampillava. Nino soffocò una risatella.

Allora Bruno venne alla nostra volta, guardando in aria e abbottonandosi. Si piegò a un tratto e saltò in mezzo ai rami. Afferrò per una gamba Nino che fuggiva e lo rovesciò a terra. Io ero saltato in piedi e vedevo. Senza parlare. Bruno strinse nel pugno i due polsi di Nino e lo sollevò come un coniglio. Tenendolo discosto, perché scalciava mugolando, cominciò col taglio della mano a menargli dei colpi sui fianchi e a ogni botta cacciava un ruggito e serrava le labbra. Un istante mi guardò, senza vedermi, e allora scappai sulla strada. Sentii ancora qualche tonfo, e poi Bruno comparve tenendo Nino sotto l’ascella, e lo buttò nell’automobile. Mi disse con una brutta voce: — Sali su che torniamo.

Per tutta la corsa Nino rattrappito al fianco di Bruno non disse parola. Io mi sentivo il vento fresco in faccia come avessi la febbre. Davanti alla villa, Bruno fermò. Mi guardò scendere e un istante mi parve che ridesse. Nino levò la faccia, respinse il mio braccio e si calò malcerto. Sputò in terra e s’allontanò nel giardino, zoppicando.

L’indomani non osai chiamare Nino perché, quando mi feci al cancello, vidi sedute in giardino due delle sorelle, quelle brune, che sporgevano al sole le gambe, e una leggeva.

Fu di nuovo Clara che, verso sera, mentre gironzavo preoccupato là d’attorno, mi giunse alle spalle in bicicletta e saltò a terra.

— Dove siete andati ieri? — mi chiese.

— Che cos’ha fatto Bruno a Nino? dov’eravate? — continuò.

— Parla. Tanto lo so. Nino per oggi è a letto. Che cos’avete fatto a Bruno?

— Dov’è Bruno? — dissi.

Allora Clara mi guardò attenta e prese a camminare verso il cancello, spingendo la bicicletta.

— Non so dov’è Bruno. Io non lo conosco. Però gli avete fatto qualcosa, perché Nino non me lo vuol dire. Siete andati ai Robini?

— Si è rovesciata la macchina, — dissi.

— Che cosa facevate ai Robini?

— Niente. Imparavamo a guidare.

Eravamo in mezzo al giardino. E le sedie di vimini sotto l’ombrellone erano vuote. La ghiaia ci scricchiolava sotto i piedi.

— Siete andati a trovare qualcuno?

— Oh, no.

Clara disse seria: — Nino è a letto. Vuoi venire a trovarlo?

— Oh no, passerò domani a prenderlo. È tardi, — dissi fermandomi.

Clara sorrise. — Come sta il vitello?

— Che vitello?…

— Quello che è nato l’altro giorno. È tuo?

Risposi con un cenno del capo. Clara poggiò la bicicletta al muro e salí i gradini. — Ciao, vitellino, — gridò volgendosi. Osservai ch’era ben alta.

Per vari giorni Nino non uscì e io passavo davanti alla villa, sperando di vedere qualcuno. Era una stagione – i primi d’agosto – che in campagna non c’è niente: le mele e le prime susine finiscono con luglio, e fino a settembre non incomincia l’uva. Non valeva la pena, in attesa di Nino, di rifare amicizia con gli altri, e gironzolai per i viottoli. Però, star solo è bello un momento, quando viene in mente qualcosa, o si è veduto fra le sbarre del giardino Clara; tutto il giorno annoiava.

Ricordo che ci fu in quei pomeriggi un tremendo temporale, senza grandine, ma freddo e nero, che spaventò molto mia madre e le bestie della stalla, e a me non dispiacque perché la sera fu fresca e l’indomani mattina c’erano le pozze d’acqua e strati di foglie riversi a terra. Anche allora pensai a Clara e alle sue sorelle: se i fulmini le avevano spaventate.

Quando finalmente si fece rivedere, Nino fu di poche parole, e una volta o due mi scappò da ridere guardandolo sedersi sui muriccioli con qualche cautela. Lui mi guardava di sottecchi e parevano tornati i primi tempi, quando passeggiavamo taciturni. Venne con un pacchetto intiero di belle sigarette scritte in arabo, che mi lasciarono intontito e profumato. Un mattino ch’ero tornato alla bialera, lo vidi giungere chiotto con la giacchetta sulle spalle, e si mise a fumare seduto sull’argine. Gli fummo subito tutti d’attorno e lui diede sigarette a due o tre e sputò nell’acqua. Poi disse svogliato:

— Avete visto il conducente delle Ca’ Nere?

Ne parlò col biondo dei Mulini che aveva un fratello facchino alla stazione e si decise che, se non prima, Bruno doveva passare in paese per la Madonna d’agosto a caricare della farina.

Nino disse con calma: — C’è il Martino che lo cerca per fargli la pelle.

Il figlio del fabbro osservò che quella sigaretta sapeva di miele, però era forte. Ritornammo verso casa noi quattro ragazzi (il fabbro aveva già certi calzonacci lunghi fino alle caviglie scalze e si grattava sovente sotto la camicia sul petto). In due o tre giorni Nino ebbe fatto amicizia con loro e si parlavano a risatine e gomitate.

Venne il giorno che Nino mi chiese: — A te non ha fatto niente quella volta Bruno?

— Chi ha suonato il clacson? — risposi.

Nino – aveva gli occhi sfuggenti in quei giorni – mi sogguardò camminando.

— Tu, Berto, sei ingenuo.

Già da diversi pomeriggi scompariva. Era in giro con qualcuno degli altri; andarono perfino a pescare e seppi che una volta Nino aveva portato, oltre alle sigarette, una scatola di pesche sciroppate. Gli dissi allora: — Sta’ attento che ti vogliono male e vengono con te solo perché porti la roba —. Ma Nino mi rispose che sapeva anche questo.

La sera dei falò della Madonna, Nino non si fece vedere e le sue sorelle non uscirono in giardino a guardare i fuochi che punteggiavano le colline. Era il primo anno che passavo solo e inquieto quella festa. Seppi l’indomani da un ragazzo, che Nino era andato con gli altri a fare un falò sul campo dei Mulini e un bel momento aveva buttato con uno spintone il figlio del fabbro nel fuoco. Poi era scappato a casa e adesso quell’altro lo cercava per ammazzarlo.

Nino stavolta mi fece chiamare dal giardiniere e mi supplicò di andargli a chiamare Bruno. Le Ca’ Nere erano lontane; pure ci andai e lasciai detto nell’autorimessa che mandassero Bruno alla villa. Mentre rientravo in giardino, sassi e terra mi fioccarono addosso: erano il figlio del fabbro con gli altri, appostati, caso mai Nino uscisse.

Qualche ora dopo, giunse Bruno tutto svelto, fazzolettaccio e stivali, e lo fermammo sul cancello sperando che gli altri tirassero. Bruno credeva che la chiamata fosse per quella gita in Acqui e menò uno scapaccione a Nino, e Nino avvampando gli tornò accanto e gli chiese se voleva far la pace. Bruno non si commosse e guardava in fondo al giardino. Poi fece una gran risata e disse: — Va bene, di che cosa hai bisogno?

In quel momento un tocco di terra colse Nino nella schiena. Nino saltò da lato, strinse il pugno di Bruno e gli disse: — Dalle a quei vagabondi —. Quando Bruno seppe chi erano e che cosa volevano, si volse un poco a guardarli e ci disse forte: — Siete peggio delle donne, anche voi. E quelli laggiù non secchino perché ce n’è per tutti —. In quel momento sbucò Clara, si riconobbero e presero a parlare della gita in Acqui. Nino mi chiamò nell’aiuola per mostrarmi qualcosa e io entrai nel giardino, rivolgendomi a guardare Clara che ascoltava poggiata al cancello.

Un minuto dopo Bruno si prese una sassata in faccia e Clara cacciò uno strillo; noi accorremmo: Bruno stava già trattando a calci due della banda, tra cui il figlio del fabbro. Mi fermai sul cancello fremendo d’orgasmo e stringendo i pugni, sotto gli occhi di Clara: se quei tali volevano il resto, ero pronto.

Bruno tornò ridendo e, accomiatandosi da Clara, tirò un altro scappellotto a Nino. Eravamo tutti eccitati.

Seguirono bei giorni d’agosto e Nino mi ammetteva sovente in giardino (il cane era legato dietro la villa) rientrando da qualche scorribanda. Una volta ci sedemmo a far merenda con pane e marmellata sotto l’ombrellone, e Nino sdraiato sulla poltrona mi disse che anche in città mangiava sempre marmellata e quell’inverno mi avrebbe fatto venire a lezione di scherma con lui e avrei veduto com’era bello. Poi, un altr’anno sarebbe tornato al mare in luglio e, se venivo anch’io, saremmo usciti in barca insieme. Mi descrisse i sandolini, ma per andarci avrei dovuto prima imparare a nuotare.

— Non si sposano le tue sorelle? — gli chiesi.

— Una è sposata, – mi disse, – non è qui. L’altr’anno doveva sposarsi Clara, ma poi hanno litigato.

— E tua madre?

Sua madre era una delle brune, che avevo preso per sua sorella. Non ci volevo credere.

— Non ci sono che donne in casa mia, – diceva Nino. – Almeno se ne fosse andata Clara.

Così era bello stare con Nino. Non mi diceva più malignità. Si fece con Bruno un’altra gita in automobile al paese vicino, stavolta senza litigare. Clara gli mandò per mezzo nostro delle sigarette, che lui si ficcò in tasca ridendo.

Solo il figlio del fabbro ci dava qualche apprensione: aveva ancora i capelli bruciacchiati e ci guardava fieramente, da lontano, storcendo la bocca.

Ma una volta comparve sornione sul piazzale della chiesa dove passeggiavamo, e ci venne incontro. Chiese a Nino una sigaretta. Nino alzò le spalle. Allora gli disse: — Se me la dai, ti dico una cosa che poi me ne regali un pacchetto.

— Dagliela, – sussurrai a Nino, – così fate la pace.

Ma Nino era senza. Quell’altro rideva. — Non fa niente. Venite fino all’Orto, vi faccio vedere una cosa mondiale.

Nino disse: — Ci prendi per stupidi?

Allora il figlio del fabbro accostò i denti gialli all’orecchio di Nino e bisbigliò qualcosa soffiando. Nino si fece pallido, saltò indietro, guardò me, guardò lui, e disse balbettando: — Parola?

— Cosa c’è? — chiesi.

— Andiamo, — disse Nino.

L’Orto era una cascina dietro la villa sul declivio della collina. Tra la villa e un primo burrone si stendeva una gran vigna, quasi piana, chiusa da un canneto e mezzo in gerbido. Giungemmo al canneto e saltammo, sbucando tra i filari. Io raccolsi in silenzio uno sterpo nodoso, caso mai il figlio del fabbro ci preparasse un’imboscata.

— Hai veduto Bruno oggi? — chiesi a un tratto perché Nino capisse, e capisse l’altro.

Nino, cui tremavano le labbra, non rispose. Si dirigevano al Casotto Rosso, una baracca abbandonata, coperta d’alberi, in fondo ai filari. Ci avevo giocato al fortino l’anno prima.

— Piano, – mormorò Nino quando fummo a poca distanza. – Fermatevi. Tu, Berto, tienilo —. Avanzò ancora e si fermò sullo spiazzo. La porta di legno era chiusa. Nino girò leggero il cantone e si alzò, in punta di piedi alla finestretta.

Il mio compagno se la rideva a bassa voce. — Cosa c’è? — Vieni a vedere.

Avanzammo anche noi e raggiungemmo Nino, che stava appoggiato all’asse sottostante la finestra e fissava attraverso il vetro screpolato. Gettai lo sguardo dentro anch’io e non vidi nulla perché avevo gli occhi intontiti dal sole. Qualcosa però si muoveva nell’ombra.

Poi distinsi una forma bianca distesa, da cui si staccò un uomo che aveva al collo il fazzoletto rosso. Era Bruno. E la donna era Clara e aveva nel grembo nudo una chiazza dorata. Il vetro polveroso copriva la scena come di una nebbia.

— È bianca, — bisbigliò il figlio del fabbro.

Nino saltò indietro. — Venite via, – disse piano, tra i denti. – Venite via.

Mi sentii strappare la schiena dalle sue unghie. Il figlio del fabbro gli tirò un calcio, all’indietro. — Se non vieni, chiamo Bruno, — disse Nino rabbioso. Quello allora si staccò e con una brutta occhiata sogghignante indietreggiò nello spiazzo. Si fissarono un attimo e poi Nino gli corse addosso. L’altro scappò.

Corsi anch’io disperatamente, stringendo il mio sterpo. Sotto un filare, quasi al canneto, Nino l’aveva raggiunto e l’aveva atterrato. Si mordevano avvoltolandosi. Mi buttai sul viluppo e menai botte anch’io su quei calzoni rattoppati, sulla camicia sporca, sui denti gialli. Picchiando pensavo che mi vedesse Clara.

Quando il figlio del fabbro si mise a piangere e urlare, io mi divincolai, e staccai pure Nino. Lasciammo il nostro nemico nel solco e corremmo via.

Credo che Nino avesse in mente la mia stessa idea, perché, stracco e pesto com’era anche lui, filava come un cavallo cercando di distanziarmi. D’un tratto mi fermai e lo lasciai andare. Così evitammo di parlarci.

Lo vidi da lontano girar l’angolo della villa e restai solo, sopra il mucchio di ghiaia dello stradone. Solamente presso casa mi accorsi che avevo il collo pieno di sangue ma non me ne importava: entrai sotto il portone e mi buttai nel fieno. Era già buio quando mi alzai tutto indolenzito e, stropicciandomi la guancia per scrostare il sangue secco che parevano lacrime, pensavo se come Clara erano tutte le sorelle.

Seppi l’indomani che Nino s’era rotto un braccio e non osai presentarmi alla villa, perché temevo che ci avessero visti.

Per molte notti restai sveglio ore e ore, chiudendo gli occhi e stringendo il guanciale. Una notte, che c’era la luna, se non avessi avuto paura mi sarei levato e avrei fatto una corsa alla baracca per cercare se restava qualche traccia. Ci andai poi la mattina, ma girava nella vigna un contadino e non osai entrare.

Dal mio cortile uscivo di rado, perché temevo agguati e sassate, ma i ragazzi mi chiamarono a pescare perché ebbero bisogno della mia rete. E siccome Nino aveva un braccio rotto, il figlio del fabbro non osò dir parola. Ma un giorno che facevamo certi discorsi, nascosti in fienile col biondo dei Mulini, questo mi chiese se anche la sorella di Nino era bionda. Dopo mi vergognai, ma lí per lí non seppi tacere. Parlai però col cuore in gola e d’un tratto mi sentii disperato, come quando bambino, seduto nudo sulla sedia in cucina, guardavo versare l’acqua per il bagno. Allora tacqui, e anche il biondo taceva.

Finalmente un mattino, Bruno passando in bicicletta mi sorprese che tagliuzzavo un ramo sotto i salici e mi chiamò, fermandosi. Aveva al collo un fazzoletto nero e la blusa coi taschini.

— Hai litigato con Nino?

Nino gli aveva detto ieri di cercarmi e mandarmi da lui. S’era picchiato con me? La storia che aveva raccontato dell’albero secco, non reggeva. Quel graffio d’unghie sulla faccia era d’un ragazzo. — E se non vi conoscessi, direi ch’è di ragazza, — concluse.

Io lo guardavo incredulo.

— Vai anche tu a trovarlo: tra uomini non bisogna mai stare in guerra. Vai, Nino ti vuole. Vi racconterete come nascono i bambini.

— Ma tu sei andato a trovarlo? — chiesi esitante.

— Sicuro. Siamo amici, no? È in gamba quel ragazzo. Un braccio rotto da due settimane e vuol tornare in automobile con me.

Bruno estrasse una sigaretta e l’accese. Soffiò il fumo e drizzò la bicicletta.

— Che cosa dicono le sue sorelle? — chiesi.

— Oh quelle se ne infischiano, – rispose Bruno volgendo il capo. – E la madre più di tutte. L’unica che lo cura un poco è la bionda —. S’allontanò per lo stradone mentre io lo seguivo con gli occhi stupito, e in fondo contento.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

08- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – La giacchetta di cuoio

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: Il mare

La giacchetta di cuoio

Mio padre mi lascia passare le giornate alla baracca dell’imbarco, perché così mi divago e imparo un mestiere senz’accorgermene. Adesso c’è una padrona grassa, che grida sempre, e se faccio tanto di toccare una barca, mi vede, fosse anche dalla cantina, e grida che non è roba mia. Dietro la baracca ci sono i tavolini e le sedie per i clienti, ma questa padrona non si fa piú aiutare, e se le porto un’ordinazione dice subito a suo figlio di prendere lui i bicchieri. Nella baracca è un pezzo che non entro più, e più ancora che non salgo di sopra a guardare l’acqua e le barche dalla finestra di Ceresa. Qui non viene più nessuno ormai, e sta fresco mio padre se crede che possa ancora imparare il mestiere.

Questa madama Pina non sa mica fare: trattano i clienti come trattano me. Non basta portare la giacchetta di cuoio per governare un imbarco; bisogna che la gente venga di voglia e veda dalla faccia del padrone che gli piacciono le barche e il Po e che divertirsi è una bella cosa. Ceresa sí che era l’uomo: sembrava che giocasse con tutti e sulle barche ci stava piú lui che i clienti. Quando c’era Ceresa non mancava mai da ridere: si stava in mutandine nell’acqua, si preparava il catrame, si vuotavano le barche, e alla stagione buona si faceva merenda col secchio dell’uva sul tavolo, sotto le piante. Le ragazze che andavano in barca si fermavano a scherzare sotto la tettoia, e ce n’era una che voleva farsi accompagnare da Ceresa su per il Po. Ceresa le diceva sempre che non poteva piantare l’imbarco e l’osteria, e che venisse la mattina presto prima del sole. Una bella mattina quella stupida era venuta, e Ceresa allora le disse che si alzasse cosí tutti i giorni e le sarebbe passato il mal di testa.

La giacchetta di cuoio, che adesso la vecchia si butta sulle spalle quando piove, Ceresa la portava sempre e mi ricordo che, una volta che eravamo in barca e venne un temporale, se la tolse e me la diede per coprirmi. Sotto, era sempre a torso nudo, e mi diceva che, se avessi fatto la vita del Po, da grande mi sarebbero venuti i suoi muscoli. Aveva i baffetti e a forza di stare al sole era biondo.

L’altr’anno, per via di Nora, qualcuno smise di venire. Nora prima era la serva che portava le bibite ai clienti e la sera se ne andava via; poi l’altr’anno, per tardi che me ne andassi a casa, lei restava ancora nella baracca, e la mattina quando arrivavo la vedevo già guardare dalla finestra. Nora era una bella donna; Ceresa non lo diceva mai, ma lo dicevano i giovanotti e i vecchi che giocavano alle bocce. Nora stava appoggiata alla porta, tenendosi un gomito con la mano, vestita di rosso, e guardava tutti senza parlare. A me, una volta che mi sedetti sullo scalino aspettando Ceresa, mi disse: — Stupido, va’ a casa tua —. Ma delle altre volte rideva quando mi sedevo in una barca coi piedi nell’acqua, e se qualcuno chiedeva un remo o un cuscino e non c’era Ceresa, mi diceva di andarli a prendere sotto la tettoia.

A me fece subito pena che Nora non se ne andasse piú dalla baracca. Prima, quando me la ricordavo, dicevo anch’io: «È una bella ragazza» e non ci pensavo piú; ma, se adesso teneva compagnia a Ceresa, voleva dire ch’era proprio qualcosa di straordinario, e mi faceva pena perché non capivo che cosa.

Mangiavano sotto la tettoia, insieme; e io restavo ancora un poco, per aiutarli se tornavano barche, ché non dovessero alzarsi; e loro discorrevano, a me dicevano qualcosa ogni tanto, ma piú che tutto si strizzavano l’occhio e, se Nora andava in cucina a prendere un piatto, Ceresa stava zitto, guardando la porta. Tra loro parlavano come non parlavano con me; neanche Ceresa, che con tutti scherzava, con lei era il solito, ma diceva delle cose adagio, battendo la punta delle dita sul tavolo e guardando in su, oppure menava la cerniera-lampo della giacchetta come fosse un ventaglio, e Nora strizzava tutti e due gli occhi e guardava la cerniera ridendo.

Si capiva che stavano insieme per compagnia ma non per sposarsi, perché Nora non portava mai un vestito qualunque di quelli che si mettono in casa, ma aveva quello rosso, e un altro bianco ancora piú bello, e una volta lavati i piatti e scopato, restava sulla porta o veniva a guardare l’acqua come fanno le ragazze che prendono la barca. Quando Ceresa la cercava, lei veniva camminando adagio e sembrava sempre che non avesse niente da fare. Invece la giornata era lunga e ci stavano tante cose: lei serviva nell’osteria, lavava le camicie e le avanzava ancora il tempo per fumare la sigaretta.

Adesso che Nora era la padrona, Ceresa mi diceva che un giorno avremmo ripreso la barca io e lui e saremmo stati via fino alla sera risalendo il Po oltre la diga. Nora in barca con noi non ci veniva, diceva che l’acqua puzzava, e quando partivamo con le reti e la cesta per pescare sotto il ponte, ci guardava dalla finestra ridendo. Per pescare, Ceresa si metteva soltanto la giacchetta e le mutandine nere strette strette, e saltavamo in acqua e piazzavamo la cesta contro le pietre e, mentre io tenevo la barca, Ceresa disturbava i pesci con le mani. Oltre la diga sapeva un lago straordinario che si tornava con la cesta piena, e diceva sempre che saremmo partiti un bel mattino per tornare la sera. Per molte mattine arrivai all’imbarco sperando che fosse la volta buona, ma capitava sempre qualcosa da fare, oppure Ceresa aveva da finire un discorso con Nora, o da catramare una barca avanzata la sera prima, e si rimandava.

Finii per andarci da solo, oltre la diga. Un giorno che Ceresa aveva da fare a Torino, io restai solo con Nora che puliva della verdura in un secchio sotto la tettoia. Nora mi teneva d’occhio senza parlare e allora mi annoiai. Le dissi che prendevo la barca e partii. Restai fino a mezzogiorno sull’acqua e tornai convinto che quel giorno non avrei visto Ceresa e che facevo meglio ad andarmene a casa. Invece Ceresa era tornato e rideva dalla finestra infilandosi la giacca e mi chiamò di sopra. Feci un passo ma poi vidi Nora sulla porta, che mi guardava di traverso, e non ebbi il coraggio di entrare per salire. Dissi: — Ceresa chiama, — e andai sotto la tettoia a posare il remo. Nora mi guardò mi guardò, poi salí lei.

Le mattinate erano l’ora piú bella, perché si poteva sempre sperare di piú che non alla sera. Alla sera dovevo andarmene perché dopo cena Ceresa e Nora si vestivano e si prendevano a braccetto: andavano a Torino, al cine, a spasso. L’imbarco restava vuoto, chiudevano l’osteria appena buio. Prima c’era sempre qualcuno e Ceresa ci faceva divertire: lui non aveva freddo, restava in mutandine anche al buio. Mi faceva rabbia che Nora, che non prendeva mai sole e doveva essere bianca come la pancia di un pesce, gli desse del tu e stessero sempre a braccetto. Avrei pagato per saper fare i loro discorsi.

— Vedrai quando mi sposo, – mi disse un mattino Ceresa, – sarà tutto come prima —. Io gli tenevo il catrame e avevo voglia di piangere. Non piangevo e guardavo la barca, perché non ridesse. Stavo attento che Nora dalla cucina non mi sentisse, eppure sapevo benissimo che voleva sposarla davvero.

— Io non mi sposerei, – dissi piano, – vedrai che, quando ti sposi, Nora non si mette piú il vestito rosso e cominciate a litigare.

— Cos’è che hai detto con lo Zucca ieri mentre giocava alle bocce?

Ceresa sapeva sempre tutto. Ma era lo Zucca, quello dal gozzo, che parlando con un altro aveva detto che Nora era una mula e Ceresa non doveva sposarla. Io avevo soltanto ascoltato portando i bicchieri.

— Tu sei un ragazzo, – disse Ceresa, – non fare i discorsi dei grandi. Se Nora ti dice qualcosa, dillo a me.

Ma Nora non mi diceva mai niente d’importante. Certe volte mi cacciava via. Quando lavoravamo con Ceresa intorno a una barca, lei dalla porta ci guardava con una faccia da padrona, e non capivo se guardava cosí me o Ceresa. Adesso aspettavo soltanto che tornasse il discorso, per dirgli che Nora era una donna cattiva.

Qualche giorno dopo il fatto dello Zucca, aspettavo in barca che Ceresa scendesse, ma Ceresa non veniva. Era salito un momento a prendere da fumare, e dall’acqua vedevo la finestra aperta, ma siccome era bel sereno potevano venire clienti a portarmi via Ceresa, e non vedevo l’ora che scendesse. Era un pomeriggio caldo, e non si sentiva neanche il rumore dell’acqua contro le barche. Poi intravedo la schiena di Ceresa alla finestra e sento che parla verso la stanza e non si volta a dirmi niente. Allora guardo il sole, poi chiudo gli occhi e me li premo, e vedevo tante macchie rosse e verdi e mi annoiavo. Aspettai non so quanto, e un bel momento vedo Ceresa sotto la tettoia che accendeva la sigaretta e mi chiedeva che facevamo. Gli mostrai il remo e Ceresa fece un gesto come a dire che gli seccava, ma saltò nella barca. Si lasciò portare da me fino al ponte e stava seduto senza parlare. Poi saltò in acqua e pescammo, e ogni tanto diceva qualcosa dei pesci, ma non smetteva di fumare e di drizzarsi a guardare l’acqua. Io gli parlai del motoscafo e discutemmo se andava a benzina, ma lui non mi prese piú in giro come faceva di solito, e sbatteva i pesci piccoli in fondo alla barca dicendo: — Crepate anche voi. Quella sera passò lo Zucca col barcone e disse: «Ehilà». — Tu sí che sei furbo, — dico io vuotando l’acqua sui pesci, e Ceresa lo guarda, poi mi guarda ridendo e mi pianta la mano sulla testa e mi fa il massaggio.

Eppure con Nora non aveva litigato. Alle donne piace fare del baccano o almeno piangere; le donne sono diverse da noi. Ma con Nora si stava zitti; scommetto che anche a lui Nora diceva delle volte come a me: «Come sei stupido. Va’ via», e allora Ceresa non poteva far altro che torcerle il polso e romperglielo. Una volta sola che in presenza di due clienti le disse di cucire il cuscino rotto di una barca, Nora prese il cuscino e lo tirò nell’acqua. Poi si chiuse di sopra e non voleva piú aprirgli. Io mi misi a servire ai tavolini dietro la baracca, dove non si erano accorti di niente. Ceresa non mi parlò per tutto il giorno e stette sotto la tettoia a limare uno scalmo e si pompava da solo la forgia e prendeva i carboni e li buttava con le mani nel Po ancora stridenti.

L’indomani trovo l’uscio di legno. Chiamo; non c’è nessuno. Allora me ne vado perché non volevo che mi trovassero i clienti e dovergli dire che Ceresa aveva litigato. L’imbarco fu morto per due giornate; poi un bel mattino giravo per caso sulla riva e vedo del movimento tra le barche. Era tornato Ceresa; era tornata Nora, che se ne stava alla finestra e si cambiava la camicetta. Ceresa imbarcava allora due ragazze, di quelle che si spogliano sotto la tettoia, e gridavano delle stupidaggini. Ceresa rideva e teneva la barca.

La sera ci fu la festa perché Nora era tornata. Vennero in cinque o sei, barcaioli e clienti – lo Zucca, Damiano, i soliti – ma parevano piú allegri e fecero mezzanotte discorrendo e scherzando. Dicevano tutti che Nora doveva fare il bagno e dicevano che l’indomani avrebbe comperato il costume e avrebbe servito in maglietta i giocatori di bocce. Poi venne fuori la luna, e il battuto era chiaro come a mezzogiorno; allora Damiano portò il vino e si misero a giocare. Io cascavo dal sonno ma non volevo andarmene; ci pensò Nora che mi disse: — A casa tua non ti vogliono? — e allora tornai.

Da quel giorno Nora divenne piú allegra ma con Ceresa era sempre pronta a rispondere, e Ceresa ci rideva sopra e alzava le spalle. Alle volte mi vergognavo io per lui quando quella strega diceva delle sciocchezze in presenza degli altri. S’era comperato il costume da bagno, un costume rosso come quel vestito, e lo metteva a mezzogiorno per prendere il sole mentre andava e veniva davanti alla tettoia, e lo teneva anche dopo, finché Ceresa non la prendeva per un braccio e la guardava con due occhiacci. Nora aveva una pelle che sembrava burro bianco, ma nel Po non faceva mai il bagno. Quando venivano Damiano o il figlio dello Zucca o dei soldati, si fermava a ridere con loro e farsi vedere. Io non capisco che cosa ci trova la gente nelle donne. — Vedrai, – mi disse una volta Ceresa, – che piaceranno anche a te.

Ma finora non mi è ancora capitato.

Poi Ceresa litigò con Damiano. Litigò un giorno che io non c’ero, e ne sentii parlare all’osteria il giorno dopo. Si erano presi a pugni e avevano gridato tanto che i tranvieri dell’altra riva sentivano. Quella volta guardai di nascosto la faccia di Nora, se fosse arrabbiata anche lei; ma piú che arrabbiata mi pareva spaventata. Invece Ceresa non disse niente e venne con me a pescare e quel giorno non c’era un pesce a pagarlo, e lui dalla rabbia prese la cesta e la sbatté contro la pila. Poi si distese in fondo alla barca e mi disse di portarlo a casa.

Ormai, se non mi diceva lui che c’era da fare qualcosa, io ci venivo malvolentieri all’imbarco. C’era delle giornate che stavamo sotto la tettoia senza parlare e Nora non si vedeva. Ma era ancor peggio quando Nora circolava in cucina o serviva i clienti, perché allora mi aspettavo sempre che dicesse qualcosa. Poi una volta cerco la mia barchetta – quella che mi ero fatto io sul banco della tettoia quando Ceresa mi lasciava lavorare – e non la trovo piú. Ceresa era seduto per terra contro il palo e gli chiedo dov’era la barchetta; lui mi dice che non sa. Allora corro in cucina e lo chiedo a Nora e la sento dire tranquilla che l’ha bruciata nel fuoco.

Ceresa mi chiese quel giorno, perché non imparavo un mestiere. — Ma voglio fare il barcaiolo, — rispondo. — Sei matto, – dice lui, – non vedi che mestiere dannato? Di’ a tuo padre che ti metta in fabbrica, diglielo. Piuttosto devi fare il soldato —. Mi fece pena, non per me che tanto ero niente, ma per lui che non gli piaceva piú il Po. Volevo dirgli che sposasse Nora, cosí l’avrebbe comandata meglio, ma non sapevo se mi avrebbe risposto. Mi rimisi i calzoni e tornai a casa.

Nora si era accorta di avermela fatta grossa, perché l’indomani mi chiamò in cucina e mi fece discorrere. Mi chiese se mi piaceva tanto fare il barcaiolo e se non avevo paura di annegare. Io le risposi che mi piaceva perché era il mestiere di Ceresa. Poi mi chiese se ero capace di portarla in barca. — Domandiamo a Ceresa se ci lascia andare a vedere la diga. Se domani fa bello, andiamo.

L’indomani si mise in costume e si fece imprestare la giacchetta di Ceresa. Prendemmo il cestino della merenda e lei si sedette sui cuscini; Ceresa ci guardò partire ridendo. Una volta passato il ponte, mi misi a remare lungo, e Nora mi chiese se era lontano. Le spiegai come si faceva a puntare il remo, e lei provò: mi venne vicino e per poco non cadevamo nell’acqua; le donne sono tutte uguali. Tornò a sedersi e mi chiese se sapevo nuotare nell’acqua alta. Sapeva che sotto la diga non si può nuotare e mi disse di fermarci allo sbocco del Sangone dove c’era l’acqua tranquilla.

Legai la barca a terra e, mentre lei mi guardava, feci un bel tuffo. Poi nuotai nel Sangone e le gridai che l’acqua era piú fredda che nel Po. Quando arrivai sotto la barca e cominciavo a toccare, vidi uscire sulla riva Damiano e un soldato. Erano amici, ma il soldato non l’avevo mai visto. Allora vennero vicino alla barca e cominciarono a discorrere con Nora. Io salutai Damiano, ma senza dargli confidenza. Salii da me sulla barca e mi sedetti.

Mi faceva rabbia Damiano, perché sapevo che remava meglio di me e, se Nora gli diceva di portarci alla diga, facevo la parte dello stupido. Ma Damiano e il soldato si sedettero sulla riva e cominciarono a scherzare. Non rispondeva, e dopo un po’ saltò anche lei a terra e disse che voleva passeggiare. Il soldato le mise la mano sulla cerniera della giacchetta e disse ridendo: — Ci vuol aria —. Era un napoletano.

Rimasi solo nella barca e pensavo che, se Ceresa lo avesse saputo, guai al mondo, e allora tornai nell’acqua perché chi passava non capisse che la barca era di Ceresa. Nora tornò ch’era già sera e mi disse che non dovevamo dire a Ceresa di aver visto Damiano. Questo lo sapevo anch’io.

Ma l’indomani cercò di nuovo di farsi portare – stavolta ai Mulini –, e mi toccò di non venire all’imbarco, perché tra Ceresa che insisteva e lei che mi guardava come fanno le donne quando sono arrabbiate, non potevo dir di no. Ci venni verso sera e la trovai che s’era già messa la gonna, ma, invece della camicetta, aveva ancora la giacca di cuoio. Si vede che adesso teneva il costume sotto la gonna. Mi guardò brutto, ma io stetti con Ceresa.

Erano belle le mattine di settembre, quando il Po faceva nebbia e aspettavamo che il sole poco alla volta la rompesse. Adesso c’era sempre qualcosa da fare alla forgia o nel catrame, e Nora non si vedeva tanto presto perché andava al mercato. Ceresa parlava meno di una volta ma gli stavo volentieri insieme perché capivo che era svogliato e mi lasciava pasticciare sotto la tettoia come volevo. Ogni tanto diceva qualcosa, e gli tenevo compagnia così.

Venne finalmente la stagione dell’uva, e un pomeriggio ne staccammo dalle viti che coprivano l’osteria e facemmo merenda col secchio. C’era anche Nora e mangiavamo ridendo, tutti e tre. Nora diceva che bisognava stare attenti perché di notte ce la rubavano. Poi per farci vedere dove i ladri potevano nasconderla, si aprì la cerniera-lampo della giacchetta. Intravidi che sotto c’era nudo, qualcosa di bianco e chiazzato; non aveva il costume. Chiuse subito.

Mentre noi facevamo merenda, c’erano due soldati che bevevano la birra a un tavolino, e uno mi pareva proprio quell’amico di Damiano che aveva scherzato con Nora. Ma come si fa a dire? si somigliano tutti. Nora portandogli la birra non s’era fermata.

Ma dopo un’ora li rividi tali e quali, che ridevano e discorrevano con Nora. Ceresa era entrato in casa. Vidi Nora chinarsi sul tavolino, e il soldato allungare la mano come quel giorno, ma stavolta tirar giú la cerniera, e Nora chinata rideva anche lei. Mi voltai soltanto quando sentii che Ceresa era sulla porta. Mi chiamò e non disse niente.

Un momento dopo io ero solo sul battuto delle bocce, i tavolini erano vuoti, e Nora e Ceresa erano in casa. Stetti a sentire se gridavano ma niente si muoveva. Avevo soltanto paura che arrivasse un cliente o tornasse una barca e dover chiamare Ceresa. Tra le piante era sereno e veniva sera; avevo freddo. Di là dalle piante sentivo gli uccelli che volavano basso. Sulla scarpata non passava neanche un’automobile. Parevano tutti morti.

Mi prese vergogna, paura, non so. Pensavo ancora a quel bianco di Nora. Mi pareva che tutto gridasse e di sentirmi chiamare. Poi s’aprí la finestra e Ceresa si sporse e disse: — Pino, fila a casa —. Chiuse subito.

L’indomani ci tornai col cuore in gola. Passai sulla scarpata senza scendere; l’imbarco era tranquillo in mezzo alle piante. Non c’era nessuno. Tanto dovevo fare una commissione al Dazio. Ma dopo pranzo mi decisi: Ceresa doveva saperlo che non ci avevo colpa. Vedo un mucchio di barche che andavano e venivano davanti all’imbarco; vedo due in borghese fermi vicino a un’automobile all’imbocco del sentiero. Capisco che non si può passare, e allora faccio il giro del prato. Sotto la tettoia tutti vanno e vengono, ma Ceresa non c’è. Allora trovo il figlio dello Zucca che mi dice che Ceresa ha strozzato Nora e l’ha buttata nel Po.

Io volevo vederlo per dirgli di quel giorno del Sangone, ma ci fecero sgombrare quanti eravamo e quando lui uscì si sentì soltanto il rumore dell’automobile. Poi mio padre mi disse che meno ne parlavo meglio era, per me e per tutti.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

07- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – L’eremita

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: il mare

L’eremita

Nino era un ragazzo dispettoso – così avevo sempre creduto – ma ora mi accorgevo che i suoi dispetti non erano capricci, o almeno non piú dei miei. Cominciavo a capire che quella casa non era per lui quello che era per me. Il corridoio che la traversava tutta, dalla porta d’ingresso all’uscio sull’orto – riempiendola di verde e di luce per chi vi entrava – era per lui una promessa di libertà, un richiamo all’aperto; per me il semplice sfondo di un’amarezza indurita. C’erano stanze – una stanza – sempre chiuse e se quando mia cognata per riordinare le apriva Nino vi ficcava il naso, provavo una fitta ribellione perché capivo che a lui le tendine, il comò, la toeletta, sarebbero rimasti in mente soltanto come un bello e strano scenario da fantasticarci.

Dopo la morte di mia moglie non credevo che sarei più riuscito a vivere in quella casa. Invece c’ero tornato, con Nino, nel forte del luglio, e i primi giorni Nino non smise di rimpiangere il mare da cui provenivamo. C’era stato quell’anno per la prima volta nella sua vita, e non gli aveva fatto troppo bene: come sua madre negli ultimi tempi già con gli occhi cerchiati s’incaponiva a mangiare certa frutta che le era piaciuta da ragazza, anche Nino aveva disperatamente tentato di nascondermi le nausee, gli sfinimenti che l’aria marina gli causava. Aveva dodici anni e non gli era parso vero di giocare tutto il giorno con l’acqua e coi coetanei. Quando gli dichiarai che saremmo inesorabilmente partiti, mi disse: — Vedrai che a casa starò ancora peggio.

Adesso s’andava rassegnando e rimettendo, anche grazie al permesso che gli davo di bagnarsi nel fiume. Ma gli vietavo d’andarci solo; lo accompagnavo io stesso, e Nino era abbastanza ragionevole da non cercare d’ingannarmi e farci scappate, anche perché sapeva che in questo caso ci avrebbe rimesso sui bagni futuri. Del resto lui che al mare si era fatto tanti compagni, in paese aveva l’aria di non intendersi né coi contadinotti, né coi pochi ragazzi della sua condizione che stavano sulla nostra strada. Faceva crocchio con loro, magari giocava, ma in casa non ne portava mai. Credo che fin dai primi giorni se li fosse messi contro ostentando con troppo calore i suoi ricordi marini. La mattina la passava scatenato per i prati dietro la casa, o aggirandosi sul mercato rumoroso fra le donne e i villani, avido specialmente d’incontri con venditori e ciarlatani che venissero da lontano, dai paesi dietro la collina, oltre le terrazze del fiume: gente che parlava in modi vivaci e vestita con larghe fasce rosse sui fianchi e qualche volta si vantava di essere stata in terre esotiche. Ricordo ancora la gioia con cui fece la conoscenza di Colino il pescivendolo, che teneva anche un barile di acciughe e gli raccontò che tutti gli anni andava in Spagna per rinnovarlo. Ne parlava a tavola con agitazione. Mia cognata – una buona donna che non era mai uscita da quella piazzetta – lo canzonò e Nino la guardò con odio. A metà pomeriggio prendevamo i prati, io e Nino – lui mi correva avanti – per andarci a bagnare. Il fiume in quel punto era larghissimo, sproporzionato al paese che vi digradava coi suoi orti, ma non molto profondo. Lo attraversavamo a guado e poi, spogliatici fra i salici, si prendeva il sole sul grande greto, ci si tuffava in un laghetto presso l’altra riva, e a volte per curiosità ci s’inoltrava nella macchia che correva indisturbata fino al piede della collina. Nino era molto orgoglioso della sua pelle abbronzata.

Sentii parlare dell’eremita la prima volta a tavola. A una parola di Nino mia cognata aveva rimbeccato: — È uno sporcaccione e non basterebbero tutte quelle donne a lavarlo —. Nino diceva che quella mattina l’eremita era comparso sul mercato a vendere pelli di conigli.

— E chi è? — chiesi.

Pare fosse un giovanotto che, stufo di lavorare, s’era stabilito a mezza costa della collina sul fiume, vi aveva scavato una grotta, teneva la capra, e si lasciava visitare da gente devota. — Ma il parroco in pulpito ha già avvertito le donne, — interloquì mia cognata. Nino, senza badarle, disse che aveva la barba bionda, una giacca di pelle e i sandali. — È un eretico, — disse mia cognata. Dichiarai ridendo che probabilmente era soltanto un fannullone. E allora Nino con foga si mise a spiegare che prima di fare l’eremita quello era stato marinaio e aveva girato il mondo, era stato ricco e aveva dato via i soldi. Queste cose le sapevano tutti in paese. Per esempio, Colino.

— Tu smettila, – gridò a mia cognata che rideva. – Sei una bigotta qualunque.

Così quel pomeriggio non andammo a bagnarci, e Nino che in castigo non piangeva mai scomparve per l’usciolo dell’orto. Verso sera uscii sulla strada a cercarlo, e ne chiesi ai muratori che lavoravano in fondo al paese alla chiesa nuova, ritrovo di tutti i ragazzi. Non l’avevano visto. Quando rientrai per la cena, andò mia cognata a prenderlo nell’orto, dov’era stato tutte quelle ore a passeggiare tra i fagioli e la griglia. Dovemmo metterci a ridere per rasserenarlo, e non toccargli più il suo eremita. Diverse volte nell’anno si era già comportato così, che era il modo di fare di sua madre – a uno screzio, a un rabbuffo anche innocente si chiudeva in sé stesso e impallidiva, stringeva i pugni, fuggiva a nascondersi. Si sarebbe detto che, morta lei, volesse prenderne il posto.

Le somigliava anche in un certo ardore rattenuto, che a volte lo faceva tremare e pareva consumarlo in fondo agli occhi. Io non sapevo che dirmi riconoscendo ora nei suoi gesti e nelle sue parole lei rediviva. Col dolore sempre presente, sempre incolmabile, della sua perdita, rifermentava in me l’antico rancore, l’astio inconfessabile che è il rovescio di ogni attaccamento troppo forte. Né mi sorprese affatto quando quella sera, portandolo noi a letto, Nino volle che la zia uscisse, la cacciò quasi, e poi mi disse supplichevole: — Papà, mandala via da questa casa. Mandala via perché la uccido —. Sua madre avrebbe detto lo stesso.

Per calmarlo dovetti promettergli di portarlo a visitare l’eremita. Ci andammo dopo un bagno più rapido uno di quei giorni, e ricordo che prendendo quegli erti sentieri mi lasciavo guidare da Nino che mi scappava innanzi come chi conosce la strada. — Sei già venuto quassù? — gli dissi. — Me l’ha spiegato il massaro —. La macchia di rovi e di felci continuava per un tratto di costa e ci fece sudare, esposta al sole e impervia com’era. Arrivammo sullo spiazzo trafelati. Nino vi giunse prima di me e si voltò a chiamarmi.

— Questo diavolo vive in mezzo alle vipere, — gli dissi raggiungendolo.

Un sentierino di lastre di tufo accostate portava alla bocca nera della caverna, che una siepe di spini rugginosi ostruiva. Sull’orlo della balza che dava nel vuoto facevano da ringhiera certe rampicanti attorcigliate a un traliccio di canne.

Parlavamo forte, ma nessuno si fece vivo. Mi avvicinai alla caverna per togliere Nino dalla brezza. — Te l’ho detto che a quest’ora va nei boschi con la capra, — disse lui, correndomi innanzi a far capolino sopra la siepe.

— Non entrare. È casa d’altri.

— C’è dell’acqua, – disse Nino. – Ho sete.

Ero stupito della sua audacia che non conoscevo, e mi sporgevo nella grotta con qualche esitazione, ma Nino scappò dentro scavalcando gli spini. Quando entrai, già beveva al ramaiolo.

Dal fondo della caverna veniva un tanfo di stalla. Il suolo era asciutto e sabbioso. Rivolgendosi all’entrata, non si vedevano che le rampicanti azzurrine nel vuoto.

— Usciamo, – dissi. – Siamo sudati.

Nino volle che accendessi un cerino per mostrarmi la volta. — Non bere più. Non sai mica che acqua sia.

— Oh è buona, — mi disse ansante.

Ottenni che si muovesse soltanto lasciando un mezzo sigaro nella tasca di un panciotto appeso al muro. Dirò la verità. Provavo una certa invidia sentimentale per quel poco di buono che aveva escogitato un modo cosí comodo e grandioso di spassarsela e vivere a simile altezza sopra tutte le seccature del paese e del mondo. Durante la discesa tra le felci guardavo Nino che, imbronciato, mi camminava innanzi senz’esitare mai sul sentiero da prendere. Era evidente che per quella costa c’era già salito altre volte. Gli tenni un discorso saltuario, interrotto dai fossati piovani, sul suo modo d’impiegare le giornate. Non era il caso di rimproverarlo. Ma gli chiesi di che cosa intendeva occuparsi, ora che s’avvicinava ai tredici anni e non era più un bambino. Questo discorso lo facevamo spesso, di ritorno dal fiume, e si finiva sempre in confidenze reciproche sul mondo e sulla nostra vita. Io gli parlavo di quand’ero ragazzo, lui m’interrompeva coi suoi progetti. Quella sera fu taciturno più del solito, tanto che m’impensierì.

Seguirono giorni immensi e bruciati – era mezz’agosto – tanto afosi anche tra quelle ventilate colline, che la campagna ne soffriva e dovetti fare scappate più assidue su certe terre che possedevo a mezz’ora dal paese. Nino veniva con me volentieri e conosceva tutti i miei contadini. Erano terre dov’era nata e cresciuta mia moglie, e dicevamo ancora «andare dalla Mamma», andar lassù. Con noi certi pomeriggi veniva la zia, contenta che così non andassimo al fiume. Sapevo bene che per contentarla avrei dovuto troncare del tutto i nostri bagni. Per non stare in ansia su Nino, quella buona donna era giunta a persuadersi che anche per me c’era pericolo a pigliare tanto sole.

Una mattina di mercato Nino uscì sperando d’incontrare l’eremita. All’una non era ancora tornato, e già tremavo pensando a quella chiesa in costruzione da cui non riuscivo a staccarlo. La zia brontolava in cucina. Quando apparve, trafelato e sudato, fu lei che lo interrogò. La zia sapeva dov’era andato. L’avevano veduto scendere al fiume con l’eremita. La zia gli tolse le scarpe. La zia gli trovò la sabbia tra le dita dei piedi.

Quello che Nino non voleva ammettere era di aver fatto senza mutandine il bagno in compagnia. Ma, se da solo, era peggio: aveva corso il rischio di annegare. Finalmente ammise che l’eremita l’aveva tenuto d’occhio dalla riva.

Lo castigai senza convinzione, parendomi la nostra una mera vendetta per l’ansia sofferta. Nino aveva un bel ripetere: — Sono forse annegato? —: la zia ce l’aveva con l’eremita vagabondo e peccatore.

Quel pomeriggio presi Nino in disparte e gli parlai seriamente. Gli dissi che capivo il suo dolore, che ero stato anch’io ragazzo, che non era questione delle mutandine, ma che bisogno aveva di scappare di nascosto e mettersi nei pericoli col primo venuto, quando sapeva che la sera stessa ce l’avrei portato io?

— La mattina è più bello, — disse Nino.

Allora lo misi in guardia contro l’eremita, gli dissi che non sapevamo chi fosse, ma che un gran che di buono non poteva essere se, così giovane e robusto, invece di lavorare fuggiva la gente e viveva come le bestie, si faceva mantenere d’elemosina e nemmeno la caverna dove stava era sua. Gli chiesi se era andato altre volte da lui.

Nino non mi rispondeva e fissava indignato la parete. La cena ci andò a tutti per traverso, perché Nino mi disse freddamente che non aveva fame. Si ritirò senza farselo ordinare e quando passai dalla sua stanza lo trovai muto, con gli occhi spalancati, come avesse la febbre. Gli toccai la fronte, che mi parve scottante. Gli dissi di non ammalarsi se voleva venire l’indomani a fare il bagno con me.

L’indomani Nino era sparito. Il letto ancor tiepido diceva ch’era uscito non prima dell’alba. Come per accompagnare il colpo, il tempo, torrido fino alla sera avanti, s’era guastato nella notte, e la luce fredda rompeva fra lampi e umide ventate. Sapevo che Nino aveva un affascinato terrore della folgore.

Lo cercammo per tutta la casa. Ne chiedemmo ai vicini; corsi nei campi a cercarlo dai nostri contadini dove qualche volta si rifugiava per nascondere le sue umiliazioni; mossi acerbi e ingiusti rimproveri alla zia, che mi guardava costernata. Ogni colpo di tuono mi rimescolava. A mezza mattina riprese a diluviare. Anche il fiume si sarebbe gonfiato, e forse Nino non aveva un tetto. Alla prima schiarita corsi dai carabinieri.

Era mezzogiorno e rientravo spossato sotto l’acqua, quando sbucò sulla piazza un gigante irsuto e biondo, avvolto in una stinta mantella militare. Quando fu sulla soglia, aprì la mantella ed ecco Nino, testa e gambe penzoloni come un capretto, che si rimise in piedi vergognoso.

— Questo ragazzo va sfangato, — disse con una voce allegra e rauca. Gli colavano stille dalla barba bionda, e il mantello esalava il tanfo dei cani bagnati. Nino lo fissava incantato, benché gli vedessi sulle gote tracce di lacrime recenti.

— Se col bel tempo volete venire a respirare l’aria buona, – disse il gigante serio serio, – non dico di no, ma ognuno ha la sua casa, anche le bestie.

Mi salutò con un cenno del capo, e se ne andò coi piedi enormi di fango.

Nino lo mettemmo a letto temendo la febbre, ma verso sera senz’averci parlato prese un sonno tranquillo. L’indomani si alzò cupo e assorto, e non volle bere il suo latte. Mi guardò di sfuggita quando la zia cominciò le domande, e non le rispose. Io colsi il momento e dissi a mia cognata che volevo salire dall’eremita per ringraziarlo.

Nino mi seguì nella mia stanza e balbettò che non ci andassi. L’eremita non voleva nessuno nella caverna. — Allora tu ci sei andato? — C’era entrato per ripararsi dalla pioggia. — Alle quattro del mattino? — Non andarci, non vuole nessuno, — ripeté Nino.

Gli dissi allora: — Sei tu che volevi restarci, sciocco. Sei tu che volevi scappare di casa. Chi vuoi che ti prenda. Non sei mica suo figlio. Lui ha dimostrato di avere la testa sul collo.

— È un vagabondo, papà.

— È un brav’uomo. Che cosa ti abbiamo fatto noi di male?

Tremavo nel mio cuore piú di lui. Non mi rispose. Ma se in quei giorni non tentò altre fughe, non fu certo per farmi piacere.

Agosto volgeva alla fine, e l’imminenza dei primi raccolti cominciò a scuotere la calma delle mattinate. Cigolavano carri; si sentiva parlare di feste e di balli nei paesi vicini. Un giorno che passavo sotto i ponti della chiesa (Nino era nei campi di meliga) sentii chiamarmi come per scherzo da una voce chiara. Da un davanzale apparve la faccia bionda dell’eremita. Risposi stupefatto.

— Ho trovato una casa ma non il tetto, — mi disse ridendo e tergendosi la fronte. Facce di muratori facevano capolino.

— Non state più lassù?

— Nei boschi? No. La guardia campestre non vuole. Solamente le bestie hanno il libero transito.

— Ma voi sapete un mestiere.

L’eremita fece un gesto come a dire che ne sapeva cento. Era curiosa la sua barbetta spruzzata di calce.

— Se vi occorre qualcosa, venite a trovarmi.

Mi ascoltò con gli occhi socchiusi e fece un cenno d’intesa. Scomparve nella finestra.

A Nino dissi ogni cosa. Glielo dissi per un senso di lealtà, di esultanza, e anche perché l’avrebbe saputo egualmente. Gli dissi la sera stessa: — L’eremita non fa più l’eremita, è diventato muratore —. Nino ascoltò impassibile e l’indomani traversò la piazza in quella direzione.

L’eremita ricoverava sé e la capra nello scantinato di un ciabattino, sito tanto umido che vi cresceva il capelvenere. La notte – mi disse Nino ridendo – era più sano non dormirci e passare il tempo all’osteria e sui pagliai. Capii che Nino voleva chiedermi, e non osava, ospitalità per l’eremita.

Colsi l’occasione e gliela proposi io stesso. Ma non potevo prendermelo in casa; gli feci far posto dai contadini sotto un portico. L’eremita lasciò il lavoro per venire a ringraziarmi e io gli dissi di tenermi d’occhio Nino su quei ponti. L’altra speranza era che Nino, non più impedito di vederlo, s’accorgesse ch’era un villano come gli altri e se ne staccasse.

Ma Pietro non era un villano come gli altri. Era stato perfino in qualche porto di mare e masticava nel suo dialetto parole esotiche che rapivano Nino. Ormai che all’odore del troglodita aveva sostituito quello della calce, capivo che il suo odore vero era di salute, d’aria aperta e di sagacia animale. Mi sentivo più vecchio con lui che con mio figlio.

In quei giorni anche il fiume perse ogni interesse per Nino. O meglio, il fiume in mia compagnia. Mentre se Pietro che non ne aveva voglia lo avesse accompagnato, sarebbe stata per Nino la felicità.

Tuttavia in settembre i muratori non lavorano troppo. I raccolti, e le feste che seguono, vuotano tutti i cantieri: e chi va a tagliare il fieno, chi a staccare la meliga, chi a spalmare le botti. Se non un giorno l’altro, Pietro e Nino partivano insieme: c’era sempre qualche cascina, qualche campo, da cui giungeva sul vento eco di fisarmoniche e di canti; e una volta o due Nino tornò solo, correndo; un’altra volta tornò tardi e scontroso, e finalmente un mattino passarono lui e Pietro per chiedermi il permesso di restare fuori fino a notte. Stavolta non fu contraria nemmeno la zia, che capiva una festa sull’aia.

A una sfogliatura che poteva durare fin sotto l’alba, Nino per poterci restare insistette che l’accompagnassi. Anche Pietro mi disse d’andarci perché non c’è di peggio che aspettare chi tarda.

Fu quella notte che vidi Pietro ballare e Nino prendersi gli scapaccioni perché lo rincorreva. Era buio sull’aia e i discorsi e la musica eccitavano, ma provavo una gran pena a osservare con quanta disinvoltura Nino obbediva al suo amico e nemmeno brontolava come avrebbe fatto con me.

Verso la fine della festa Nino cascava di sonno e Pietro lo prese in spalla e ce ne venimmo via. Eravamo taciturni, come sempre succede dopo ogni festa e disordine; il fresco di settembre ci teneva svegli.

— Non ce l’avete una moglie da qualche parte, Pietro?

— No, – disse Pietro. – Mai farle ballare due volte. Fuggire la tentazione —. Rideva.

— Dico per i figlioli. Sareste un buon padre. Lo vedete come vi cercano.

— Se fossi padre non mi cercherebbero. Li farei lavorare. Quanto piú presto imparano che l’unica cosa è l’allegria e saper fare da sé, tanto meglio. Anche il vostro.

Ai piedi della collina Pietro se lo tolse di spalla, lo posò a terra e lo costrinse a camminare. Nino aperse appena gli occhi, abbandonò una mano a ciascuno di noi e venne avanti a testa bassa.

— Era per stare allegro che facevate l’eremita?

— Sono le donne che mi han detto l’Eremita. Venivano su, mica le spose, e cominciavano a segnarsi. Allora l’ho capita e mi segnavo anch’io… Si sta bene da soli.

— Mi preoccupa questo ragazzo. Sempre nei pericoli.

— Ah! verrà grande anche lui.

Quella notte del ritorno l’ho nel cuore come l’ultima dell’infanzia di Nino. I canti, la stanchezza, l’eccitazione sotto la luna me ne hanno fatto qualcosa d’irreale e di triste. Voglio quasi bene a quel Pietro; si direbbe che il bambino fui io.

E l’indomani Nino, come se lo sapesse, restò nell’orto a leggicchiare e venne a pranzo contento e ancora assonnato. Parlò dell’uva che cominciava ad annerire. Quando gli chiesi se non veniva a bagnarsi, fece una smorfia e allegò la stanchezza. La zia fu contenta e Nino scomparve fino all’ora di cena. Stanco ero anch’io, e vagamente rassegnato.

Quando il dottore mi disse che potevo averne per un mese e fece chiudere le imposte, volli che venisse Nino, e gli dissi di non maltrattare la zia e rincasare regolarmente. Non era questo che intendevo, tante cose mi turbinavano nel cervello, ma non seppi dirgli altro e avevo la febbre. Nino mi ascoltò ai piedi del letto, con l’aria sospesa di chi ha interrotto per un momento un’altra vita.

Stetti malato più di un mese. Non ricordo le giornate perché per me non esistettero giornate. Passai un periodo di delirio e d’incoscienza. Mi curava sollecita la zia, veniva il dottore, venne Pietro a informarsi. Vedevo Nino qualche volta.

Quando fui convalescente e ripresi il piacere di guardarmi attorno, nella mia debolezza m’inteneriva il pensiero d’esser come rinato. Nino venne a trovarmi. Ritornavo alle vecchie abitudini come a cose nuove. Era la fine di ottobre e anche Nino viveva una vita insolita, perché avremmo dovuto essere già tutti in città e lui a scuola. Bisognava far presto, per non danneggiare i suoi studi.

Nino era servizievole e affettuoso piú che in passato, e mi parve anche cresciuto e più sicuro di sé. Ma quando rientrava togliendosi l’impermeabile – la vendemmia era finita da tempo – girava per la casa e rispondeva e si presentava come chi non ha conti da rendere a nessuno.

Che la zia dicesse guardandolo tollerante: — Non è stato cattivo in questo mese, — mi parve assurdo e quasi comico. Anche Nino sorrideva. Alla cascina, dove feci le prime passeggiate, seppi che Pietro li aveva aiutati nella vendemmia e nei lavori, e ora viveva senza far nulla, sugli avanzi delle giornate da muratore. Siccome saremmo partiti per la città fra poco, lo andai a cercare e gli proposi di tenerlo in cascina come bracciante, non più sotto il portico ma nella stalla. Pietro mi trovò buona cera, e mi rispose che aveva intenzione di vendere la capra e muoversi un po’. Il mondo è grande. Allora gli regalai cento lire, con un senso di sollievo.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

06- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Insonnia

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: il mare

Insonnia

Quando rientravo avanti l’alba sull’aia (rincasavo da feste, da discorsi, da avventure) sapevo che mio padre era là, sotto la macchia nera del noce, e stava immobile, da chi sa quanto tempo, guardando in mezzo agli alberi, dardeggiando gli occhi, sempre sul punto di uscire sotto le stelle. Io sbucavo dal prato e attraversavo l’aia (avrei potuto passare dal portico e non esser veduto), ma era meglio se capiva subito che non volevo nascondermi e quando il buio sarebbe diradato sapesse già ch’ero tornato da un pezzo. Il noce riempiva mezzo il cielo, ma un gran tratto dell’aia restava scoperto e biancheggiava: io passavo su quel bianco, e la notte era tanto serena che mi vedevo sotto i piedi la mia ombra.

Attraversavo quel bianco senza guardare dalla parte del noce, perché se avessi guardato avrei dovuto fermarmi e mio padre mi avrebbe chiamato dicendo qualcosa e uscendo fuori. Mio padre non dormiva di notte perché era vecchio e gli pareva di perdere il tempo. Diceva che il tempo non passato sui beni è tutto sprecato. Nel cuore della notte scendeva dal letto (ci saliva che non era ancor buio), e cominciava a girare, entrava nella stalla vuota, raddrizzava un tridente, raccoglieva una paglia. Da quando le mie sorelle si erano sposate non ci restava che una vigna: due giornate di costa che lui di giorno zappava e di notte sorvegliava dall’aia. Un tempo (quand’eravamo bambini), già mezzo addormentati nel letto lo sentivamo toccare la corda nella stalla e spalancare la porticina che strideva raschiando. Allora quel rugghio ci pareva una minaccia, la voce vera di nostro padre, che insonne vegliava e nella notte esponeva la casa ai tremendi pericoli che un rumore improvviso può suscitare nel buio. Avremmo voluto che la porticina gli si richiudesse alle spalle, per sentirci piú sicuri in fondo ai letti, dove il nostro cuore batteva. Eravamo sempre vissuti in quella casa dove un rumore voleva dire un estraneo.

Adesso sbucavo sull’aia ridendo, e sapevo che mio padre mi aspettava sotto il noce. A volte mi accompagnava qualcuno fin sulla strada sotto la vigna: discorrevamo dell’ultima bottiglia, di quel che s’era fatto e si doveva fare. — A domani, – dicevo. – A domani, — e quell’altro si allontanava a passi lunghi, sotto le piante, anche lui verso casa. In tre passi salivo il sentiero e vedevo il gran noce e mi ritrovavo sull’aia di tutte le notti. Passavo senza fermarmi, davanti all’ombra di mio padre. Sentivo che mi guardava e voleva parlarmi. Non mi voltavo, arrivavo alla porta, e l’incontro era rimandato a un’altra volta.

Di giorno mio padre aveva le sue idee e si sfogava con la mamma e gridava con me. C’erano sempre dei lavori inutili e bisognava farli per amore della pace: si legavano fascine e si vangava. Mio padre chiedeva non tanto che noi ci chinassimo a faticare, quanto che gli fossimo intorno e girassimo sull’aia a fargli credere che c’era lavoro per tutti. Da quando le mie sorelle si erano sposate e gli affittavano la vigna, a casa nostra era una morte, non si vedeva piú nessuno, anche la stalla era vuota. Certi giorni mi annoiavo come quando ero ragazzo e nessuno veniva a giocare. Pigliavo nei campi bruscamente e dicevo che andavo in paese; andavo invece da mia sorella e le chiedevo di darmi un lavoro purchessia: non mi dava lavoro, ma di là passava sempre qualcuno e si discorreva a sazietà.

— Cos’avete fatto? — mi chiedeva a cena mio padre, e non bisognava rispondergli che avevamo chiacchierato, perché cominciava a gridare e a prendersela con la mamma che ci aveva messi al mondo così. Non con me. Venendo notte, non se la prendeva più con me, non osava affrontarmi. Era sempre sul punto di uscire dall’ombra, ma ogni volta io passavo, con la giacchetta sotto braccio, divagato e deciso, tendendo l’orecchio alle voci dei grilli, e nulla succedeva. Succedeva soltanto che, una volta entrato in casa, la mamma mi chiamava, con la sua voce soffocata, dal letto (neanche lei non dormiva piú molto, alla sua età) e voleva sapere se mio padre era sempre sull’aia, sapere che cosa faceva, se aveva detto che rientrava. La tranquillavo borbottando, le dicevo che ero io e che faceva sereno. Rispondevo cosí spazientito, che sembravo mio padre. Era il mese di agosto e non c’era da pigliarsela se un vecchio non voleva dormire. La mamma a poco a poco taceva, ma neanch’io riuscivo a prender sonno (mi agitavano il vino e i discorsi della notte). Fuori c’era la campagna, c’eran le strade deserte, l’indomani col sole sarebbe stata un’altra cosa; ma intanto la smania di finirla, di prendere un treno, di andare in città e fare una vita piú da uomo, non mi lasciava dormire. Anche mio padre era scappato giovanotto, e lui se n’era andato a piedi perché ai suoi tempi non c’era ancora la ferrovia. Ma dopo un anno era tornato. Io non volevo tornare mai più.

La notte della Madonna rincasai ch’era mattino, e una volta tanto il sentiero del prato mi parve diverso dal solito. Mio padre uscì dalla stalla mentre facevo colazione sulla porta.

— Com’è andata la festa?

— Ho trovato il Nanni, – dissi masticando. – Abbiamo parlato.

— Che cosa può dire quel vagabondo…

— Niente. Mi prende insieme a lavorare quando voglio.

Mio padre si fermò irresoluto; aveva in mano una cavezza e la posò sulla finestra. Ancora un anno prima me l’avrebbe appioppata sulla schiena. Ma adesso era inutile, e si voltò verso la stalla di dove usciva la mamma passandosi una mano sugli occhi. Io lasciai che gridassero e intanto guardavo l’ombra lunga del noce.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

05- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Vecchio mestiere

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: il mare

Vecchio mestiere

A quei tempi ero occupatissimo e vivevo con dei carrettieri. La testa mi risuona ancora degli urli grossi di comando e del cigolìo delle martinicche. Tenevamo il nostro raduno nel cortile e sotto l’androne di un certo stallaggio che, le sere di partenza, era una bolgia di lanterne e di voci irose come staffilate. Fantesche e garzoni che ci davano l’avvio, anelavano a vederci in strada, perché soltanto allora potevano fermarsi sulla soglia a respirare: lo schiocco delle nostre fruste era la loro liberazione.

Anche per noi la staffilata larga, sparata fuori dell’androne sul fianco dei cavalli, era il segnale che cominciavano la condotta e la notte. Di primo buio ci si accompagnava, se faceva stellato, a due a tre sulla banchina della strada, avendo l’occhio al cavallo di testa e alle biforcazioni, perché la carovana va come un treno e tutto sta che sia incamminata bene. Poi cominciavano i più vecchi a restare indietro e montare sui vari carri; noi giovanotti s’aveva sempre qualche discorso da finire e un’ultima sigaretta da chiedere. Ma si saltava sui sacchi anche noi alla fine e il dormiveglia cominciava.

Quante notti passai così accovacciato sui sacchi, dondolandomi negli occhi la lanterna che nel dormiveglia non distinguevo piú se era appesa sotto il carro precedente o se fosse per caso la mia. Ci si sentiva trasportare, si sentiva tutto il carro e il cavallo muoversi e stirarsi sotto; certi tratti dello stradale li riconoscevo ai sobbalzi. Secondo che il carro passava sotto una costa, o in mezzo a un campo, davanti a un portico, a un muro, o sopra un ponte, l’eco dello strepito delle ruote variava: era una voce che teneva compagnia piú della sonagliera che i cavalli agitavano dimenando il capo. Era una voce che, appena il freddo dell’alba ci svegliava, tornava a farsi sentire incessante, mutata secondo la strada percorsa; e prima ancora che un’occhiata alla campagna o alle case ci dicesse dov’eravamo, ci tranquillava con la sua monotonia. Disteso sui sacchi, ciascuno di noi non ascoltava che il suo carro, ma indovinava nei vari cigolii che l’accompagnavano la presenza degli altri; e in certi momenti che nella campagna tutto taceva, si levava la testa dal sacco e si stava sospesi finché non si vedeva una lanterna dondolare a fior di terra, o un tintinnìo e lo strepito delle altre ruote sulla polvere non giungeva a rassicurare.

Con tanta strada che feci in quegli anni, dormii quasi sempre. Dormii di notte e dormii di giorno, sotto il sole, sotto la pioggia, raggomitolato o seduto. I vecchi conducenti dicono che da giovani si dorme volentieri sul carro perché si è più forti e più sani e si cede al sonno: a me piaceva viaggiare in carovana perché c’era sempre qualche vecchio che vegliava e pensava lui alla strada. Che cosa c’era di più bello che svegliarsi avanti giorno in vista dell’abitato e non avere il tempo di stirarsi che i carri si fermavano e tutti si scendeva a bere una volta e mangiare un boccone? Intanto veniva chiaro, e all’osteria pareva che lo sapessero: spalancavano le imposte di legno e si sporgevano le donne, a braccia larghe, chiamando i garzoni. Secondo con chi eravamo in condotta, si faceva la tavolata o si caricava di aglio o di acciuga la pagnotta e via subito. L’uno e l’altro aveva il suo bello. Ma si capisce che fermarsi era meglio; tanto più quando davanti all’osteria ci aspettavano altri carri che avevano già fatto accendere il fuoco. Allora si mangiava forte, seduti intorno alla tavola, dicendo ognuno la nostra; si facevano tappe di mezz’ora, si andava e veniva nel cortile a dare il fieno e abbeverare; le ragazze dell’osteria venivano sullo scalino a contarci. Allora sí che aver dormito faceva piacere: veniva voglia di cantare (gli altri cantano la sera, noialtri si cantava al mattino).

I vecchi dicono che tutto piace di quegli anni perché allora si è giovani, ma io, che di mestieri ne ho fatto qualcuno, sono sicuro che niente è più bello di una condotta ben pagata. Le strade, le osterie, i cavalli e le campagne sembravano messi lì soltanto per noi. Quel mangiare appena giorno, prima che gli altri fossero in piedi, dopo una nottata di strada, era una gran cosa, e adesso che non faccio più questa vita ci vuol altro che il canto del gallo per farmi saltar su con tanta smania di mangiare, di andare e discorrere, quanta ne avevo allora. È vero che adesso sono grigio, ma se il mondo fosse quello di una volta e potessi disporre, saprei io su che carro montare e arrivare appena giorno all’osteria, svegliare tutti quanti e far la tappa. Se ci sono ancora le osterie e le tappe.

Ma ormai devono essere morti anche i cavalli. È da un pezzo che non vedo più per le strade i tiri rinterzati di una volta. Di notte, adesso, quando non prendo sonno neanch’io, posso sì tendere l’orecchio quanto voglio, eppure mai che mi succeda di sentire rotolare una condotta e avvicinarsi i cavalli e un carrettiere gridare. Adesso di notte si sentono passare le macchine, e la roba la spediscono col treno: faranno più presto ma non è più un mestiere. Finirà che sulle strade crescerà l’erba, e le osterie chiuderanno.


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04- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – La Langa

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: il mare

La Langa

Io sono un uomo molto ambizioso e lasciai da giovane il mio paese, con l’idea fissa di diventare qualcuno. Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino. Siccome – ripeto – sono ambizioso, volevo girar tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti: «Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là!» Certi giorni, studiavo con più attenzione del solito il profilo della collina, poi chiudevo gli occhi e mi fingevo di essere già per il mondo a ripensare per filo e per segno al noto paesaggio.

Così, andai per il mondo e vi ebbi una certa fortuna. Non posso dire di essere, più di un altro, diventato qualcuno, perché conobbi tanti che – chi per un motivo chi per un altro – sono diventati qualcuno, che, se fossi ancora in tempo, smetterei volentieri di arrovellarmi dietro a queste chimere. Attualmente la mia ambizione sempre insonne mi suggerirebbe di distinguermi, se mai, con la rinuncia, ma non sempre si può fare ciò che si vorrebbe. Basti dire che vissi in una grande città e feci perfino molti viaggi per mare e, un giorno che mi trovavo all’estero, fui lì lì per sposare una ragazza bella e ricca, che aveva le mie stesse ambizioni e mi voleva un gran bene. Non lo feci, perché avrei dovuto stabilirmi laggiù e rinunciare per sempre alla mia terra.

Un bel giorno tornai invece a casa e rivisitai le mie colline. Dei miei non c’era più nessuno, ma le piante e le case restavano, e anche qualche faccia nota. Lo stradone provinciale e la piazzetta erano molto piú angusti di come me li ricordavo, più terra terra, e soltanto il profilo lontano della collina non aveva scapitato. Le sere di quell’estate, dal balcone dell’albergo, guardai sovente la collina e pensai che in tutti quegli anni non mi ero ricordato di inorgoglirmene come avevo progettato. Mi accadeva se mai, adesso, di vantarmi con vecchi compaesani della molta strada che avevo fatta e dei porti e delle stazioni dov’ero passato. Tutto questo mi dava una malinconia che da un pezzo non provavo più ma che non mi dispiaceva.

In questi casi ci si sposa, e la voce della vallata era infatti ch’io fossi tornato per scegliermi una moglie. Diverse famiglie, anche contadine, si fecero visitare perché vedessi le figliole. Mi piacque che in nessun caso cercarono di apparirmi diversi da come li ricordavo: i campagnoli mi condussero alla stalla e portarono da bere nell’aia, i borghesi mi accolsero nel salottino disusato e stemmo seduti in cerchio fra le tendine pesanti mentre fuori era estate. Neanche questi tuttavia mi delusero: accadeva che in certe figliole che scherzavano imbarazzate riconoscessi le inflessioni e gli sguardi che mi erano balenati dalle finestre o sulle soglie quand’ero ragazzo. Ma tutti dicevano ch’era una bella cosa ricordarsi del paese e ritornarci come facevo io, ne vantavano i terreni, ne vantavano i raccolti e la bontà della gente e del vino. Anche l’indole dei paesani, un’indole singolarmente fegatosa e taciturna, veniva citata e illustrata interminabilmente, tanto da farmi sorridere.

Io non mi sposai. Capii subito che se mi fossi portata dietro in città una di quelle ragazze, anche la più sveglia, avrei avuto il mio paese in casa e non avrei mai più potuto ricordarmelo come adesso me n’era tornato il gusto. Ciascuna di loro, ciascuno di quei contadini e possidenti, era soltanto una parte del mio paese, rappresentava una villa, un podere, una costa sola. E invece io ce l’avevo nella memoria tutto quanto, ero io stesso il mio paese: bastava che chiudessi gli occhi e mi raccogliessi, non più per dire «Conoscete quei quattro tetti?», ma per sentire che il mio sangue, le mie ossa, il mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre me e quella terra non esisteva nulla.

Non so chi ha detto che bisogna andar cauti, quando si è ragazzi, nel fare progetti, poiché questi si avverano sempre nella maturità. Se questo è vero, una volta di piú vuol dire che tutto il nostro destino è già stampato nelle nostre ossa, prima ancora che abbiamo l’età della ragione.

Io, per me, ne sono convinto, ma penso a volte che è sempre possibile commettere errori che ci costringeranno a tradire questo destino. È per questo che tanta gente sbaglia sposandosi. Nei progetti del ragazzo non c’è evidentemente mai nulla a questo proposito, e la decisione va presa a tutto rischio del proprio destino. Al mio paese, chi s’innamora viene canzonato; chi si sposa, lodato, quando non muti in nulla la sua vita.

Ripresi dunque a viaggiare, promettendo in paese che sarei tornato presto. Nei primi tempi lo credevo, tanto le colline e il dialetto mi stavano nitidi nel cervello. Non avevo bisogno di contrapporli con nostalgia ai miei ambienti consueti. Sapevo ch’erano lì, e soprattutto sapevo ch’io venivo di là, che tutto ciò che di quella terra contava era chiuso nel mio corpo e nella mia coscienza. Ma ormai sono passati degli anni e ho tanto rimandato il mio ritorno che quasi non oso più prendere quel treno. In mia presenza i compaesani capirebbero che li ho giocati, che li ho lasciati discorrere delle virtù della mia terra soltanto per ritrovarla e portarmela via. Capirebbero adesso tutta l’ambizione del ragazzo che avevano dimenticato.


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03- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Il campo di granturco

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: il mare

Il campo di granturco

Il giorno che mi fermai ai piedi di un campo di granturco e ascoltai il fruscìo dei lunghi steli secchi mossi nell’aria, ricordai qualcosa che da tempo avevo dimenticato. Dietro il campo, una terra in salita, c’era il cielo vuoto. «Quest’è un luogo da ritornarci», dissi, e scappai quasi subito, sulla bicicletta, come se dovessi portare la notizia a qualcuno che stesse lontano. Ero io che stavo lontano, lontano da tutti i campi di granturco e da tutti i cieli vuoti. Quel giorno fu un campo; avrebbe potuto essere una roccia impendente sopra una strada, un albero isolato alla svolta di un colle, una vite sul ciglio di un balzo. Certi colloqui remoti si rapprendono e concretano nel tempo in figure naturali. Queste figure io non le scelgo: sanno esse sorgere, trovarsi sulla mia strada al momento giusto, quando meno ci penso. Non c’è persona di mia conoscenza che abbia un tatto come il loro.

Quel che mi dice il campo di granturco nei brevi istanti che oso contemplarlo, è ciò che dice chi si è fatto aspettare e senza di lui non si poteva far nulla. «Eccomi», dice semplicemente chi si è fatto aspettare, ma nessuno gli toglie lo sguardo astioso che gli viene gettato come a un padrone. Invece, al cielo tra gli steli bassi do un’occhiata furtiva, come chi guarda di là dall’oggetto quasi in attesa che questo si sveli da sé, ben sapendo che nulla ci si può ripromettere che esso già non contenga, e che un gesto troppo brusco potrebbe farne traboccare malamente ogni cosa. Nulla mi deve quel campo, perché io possa far altro che tacere e lasciarlo entrare in me stesso. E il campo, e gli steli secchi, a poco a poco mi frusciano e mi si fermano in cuore. Tra noi non occorrono parole. Le parole sono state fatte molti anni fa.

Quando veramente? non so. E nemmeno so che cosa potevano essersi detto, un campo di granoturco e un ragazzo. Ma un giorno mi ero certo fermato – come se con me si fermasse il tempo – e poi il giorno dopo, e un altro ancora, per tutta una stagione e una vita, davanti a un simile campo; e quello era stato un limite, un orizzonte familiare attraverso cui le colline, basse tant’erano remote, trasparivano come visi a una finestra. Ogni volta che avevo osato un passo dentro la selva gialla, il campo doveva avermi accolto con la sua voce crepitante e assolata; e le mie risposte erano state i gesti cauti, a volte bruschi, con cui scostavo le foglie taglienti, mi chinavo ai convolvoli, e di là dagli steli alti ficcavo lo sguardo al vuoto del cielo. C’era in quel crepitìo un silenzio mortale, di luogo chiuso e deserto, che schiudeva nel cielo lontano una promessa di vita ignota, impervia e seducente come le colline.

Che il tempo allora si sia fermato lo so perché oggi ancora davanti al campo lo ritrovo intatto. È un fruscío immobile. Capisco d’avere innanzi una certezza, di avere come toccato il fondo di un lago che mi attendeva, eternamente uguale. L’unica differenza è che allora osavo gesti bruschi, penetravo nel campo gettando un grido alle colline familiari che mi pareva mi attendessero. Allora ero un bambino, e tutto è morto di quel bambino tranne questo grido.

La stagione di quel campo è l’autunno, quando tutto si ridesta nelle campagne dietro ai filari di granturco. Si odono voci, si fanno raccolti, di notte si accendono fuochi. L’immobilità del campo contiene anche queste cose, ma come a una certa distanza, come promesse intravedute fra i rami. Il disseccarsi delle foglie apre sempre maggiori tratti di cielo, rivela più nudamente le colline lontane. Si pensa anche a quel che c’è dietro, e alle presenze notturne sul ciglione della Selva. Sale a volte nel ricordo il crepitìo delle foglie gialle, e sgomenta come il trapestare di un passo ignoto e temuto, come il dibattersi di corpi in lotta. Ormai, nella distanza, sono una cosa sola i falò notturni sui colli e l’imbrunire fra gli steli vaghi del campo. Rassicura soltanto il pensiero che chi si è buttato a terra nascondendosi è il ragazzo, e che dagli steli pendono grosse pannocchie che i contadini verranno a raccogliere domani. E domani il ragazzo non ci sarà più.

Queste cose accadono ogni volta che mi fermo davanti al campo che mi aspetta. È come se parlassi con lui, benché il colloquio si sia svolto molti anni fa e se ne siano perdute anche le parole. A me basta quell’occhiata furtiva che ho detto, e il cielo vuoto si popola di colline e di parvenze.


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02- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Fine d’agosto

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: Il mare

Fine d’agosto

Una notte di agosto, di quelle agitate da un vento tiepido e tempestoso, camminavamo sul marciapiede indugiando e scambiando rade parole. Il vento che ci faceva carezze improvvise, m’impresse su guance e labbra un’ondata odorosa, poi continuò i suoi mulinelli tra le foglie già secche del viale. Ora, non so se quel tepore sapesse di donna o di foglie estive, ma il cuore mi traboccò improvvisamente, tanto che mi fermai.

Clara attese, semivoltata, che riprendessi a camminare. Quando alla svolta c’investí un’altra folata, Clara fece per soffermarsi, senza levare gli occhi, un’altra volta in attesa. Davanti al portone, mi chiese se volevo far luce o passeggiare ancora. Restai un poco fermo sul marciapiede – ascoltai il fruscío d’una foglia secca trascinata sull’asfalto – e dissi a Clara che salisse, l’avrei subito seguita.

Quando, dopo un quarto dora, giunsi di sopra, mi sedetti a fumare alla finestra fiutando il vento, e Clara mi chiese attraverso la porta della stanza se mi ero calmato. Le dissi che l’aspettavo e, un istante dopo, mi fu accanto nella stanza buia, si appoggiò contro la mia sedia e si godeva il tepore del vento senza parlare. In quell’estate eravamo quasi felici, non ricordo che avessimo mai litigato e passavamo lunghe ore accanto prima di addormentarci. Clara capisce tutto, e a quei tempi mi voleva bene; io ne volevo a lei e non c’era bisogno di dircelo. Eppure so adesso che le nostre disgrazie cominciarono quella notte.

Se Clara si fosse almeno irritata per la mia agitazione, e non mi avesse atteso con tanta docilità. Poteva chiedermi che cosa mi fosse preso, poteva tentare lei stessa d’indovinarlo, tanto piú che l’aveva intuito – ma non tacere, come fece, piena di comprensione. Io detesto la gente sicura di sé, e per la prima volta detestai Clara.

Quel turbine di vento notturno mi aveva, come succede, inaspettatamente riportato sotto la pelle e le narici una gioia remota, uno di quei nudi ricordi segreti come il nostro corpo, che gli sono si direbbe connaturati fin dall’infanzia. La spiaggia dove sono nato si popolava nell’estate di bagnanti e cuoceva sotto il sole. Erano tre, quattro mesi di una vita sempre inaspettata e diversa, agitata, scabrosa, come un viaggio o un trasloco. Le casette e le viuzze formicolavano di ragazzi, di famiglie, di donne seminude al punto che non mi parevano donne e si chiamavano le bagnanti. I ragazzi invece avevano dei nomi come il mio. Facevo amicizia e li portavo in barca, o scappavo con loro nelle vigne. I ragazzi delle bagnanti volevano stare alla marina dal mattino alla sera: faticavo per condurli a giocare dietro i muriccioli, sui poggi, su per la montagna. Tra la montagna e il paese c’erano molte ville e giardini, e nei temporali di fine stagione le burrasche s’impregnavano di sentori vegetali e torridi che sapevano di fiori spiaccicati sui sassi.

Ora, Clara lo sa che le folate notturne mi ricordano quei giorni. E mi ammira – o mi ammirava – tanto, che sorride e tace quando vede questo ricordo sorprendermi. Se gliene parlo e faccio parte, quasi mi salta al collo. È per questo che non sa che quella notte mi accorsi di detestarla.

C’è qualcosa nei miei ricordi d’infanzia che non tollera la tenerezza carnale di una donna – sia pure Clara. In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza, l’incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito. Un ragazzo – ero io? – si fermava di notte sulla riva del mare – sotto la musica e le luci irreali dei caffè – e fiutava il vento – non quello marino consueto, ma un’improvvisa buffata di fiori arsi dal sole, esotici e palpabili. Quel ragazzo potrebbe esistere senza di me; di fatto, esistette senza di me, e non sapeva che la sua gioia sarebbe dopo tanti anni riaffiorata, incredibile, in un altro, in un uomo. Ma un uomo suppone una donna, la donna; un uomo conosce il corpo di una donna, un uomo deve stringere, carezzare, schiacciare una donna, una di quelle donne che hanno ballato, nere di sole, sotto i lampioni dei caffè davanti al mare. L’uomo e il ragazzo s’ignorano e si cercano, vivono insieme e non lo sanno, e ritrovandosi han bisogno di star soli.

Clara, poveretta, mi volle bene quella notte come sempre. Forse me ne volle di più, perché anche lei ha le sue malizie. Noi giochiamo qualche volta a rialzare fra noi il mistero, a intuire che ciascuno è per l’altro un estraneo, e così sfuggire alla monotonia. Ma ormai io non potevo più perdonarle di essere una donna, una che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne.


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01- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Il nome

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte prima: Il mare

Il nome

Chi fossero i miei compagni di quelle giornate, non ricordo. Vivevano in una casa del paese, mi pare, di fronte a noi, dei ragazzi scamiciati – due – forse fratelli. Uno si chiamava Pale, da Pasquale, e può darsi che attribuisca il suo nome all’altro. Ma erano tanti i ragazzi che conoscevo di qua e di là.

Questo Pale – lungo lungo, con una bocca da cavallo – quando suo padre gliene dava un fracco scappava da casa e mancava per due o tre giorni; sicché, quando ricompariva, il padre era già all’agguato con la cinghia e tornava a spellarlo, e lui scappava un’altra volta e sua madre lo chiamava a gran voce, maledicendolo, da quel- la finestra scrostata che guardava sui prati, sui boschi del fiume, verso lo sbocco della valle. Certe mattine mi svegliavo all’urlo lamentoso, cadenzato, di quella donna da quella finestra. Molte vecchie chiamavano cosí i figli, ma il nome che faceva ammutolire tutti e che in certe ore echeggiava esasperante come le fucilate dei cacciatori, era quello di Pale. A volte anche noialtri si gridava quel nome per baldanza o per beffa. Credo che persino Pale si divertisse a urlarlo.

Cosí, il giorno che salimmo insieme sulle coste aride della collina di fronte – prima, nelle ore bruciate, avevamo battuto il fiume e i canneti – non so bene se fossimo soli, io e Pale. È certo che il mio socio aveva i denti scoperti e la testa rossa, e me ne ricordo perché gli raccontavo che il leone, che vive nei luoghi aridi, aveva i denti come i suoi e il pelo fulvo. Quel giorno eravamo agitati perché l’avevamo impiegato a fare una ricerca metodica della serpe. C’eravamo infradiciati fino al ventre e arrostita la nuca al sole; qualche rana era schizzata via da sotto le pietre rimosse, le mie caviglie erano tutte un livido. A Pale poi colava dai denti il sugo verde di un’erba che aveva voluto masticare. Poi, nel silenzio delle piante e dell’acqua, s’era sentito fioco, ma nitido, sul vento un urlo di richiamo.

Ricordo che tesi l’orecchio, caso mai chiamassero me. Ma l’urlo non si ripeté. Lasciammo, poco dopo, la bassa del fiume e salimmo la costa, dicendoci che andavamo per prugnoli, ma ben sapendo – io, almeno, e il cuore mi batteva – che lo scopo questa volta era la vipera. Fu mentre salivamo il sentiero tra i ginepri che presi a parlare, imbaldanzito, dei leoni. Mi ero rimesso le scarpe, quasi a scongiurare con un gesto da bravo ragazzo i pericoli impliciti nella resa di conti serale. Fischiettavo.

— Piantala. Non è cosí che si chiama la vipera, — brontolò il mio socio, fermandosi.

C’eravamo muniti di due verghe a forcella, e con queste dovevamo inchiodare la bestia e ammazzarla. Se anche nell’acqua eravamo andati in parecchi, sono certo che quel sentiero lo salimmo noi due soli. Pale – ben diverso da me – camminava scalzo sui sassi e sugli spini, senza badarci. Volevo dirglielo, quando d’improvviso si fermò davanti a un roveto e cominciò a sibilare piano piano, sporto in avanti, dondolando il capo. Il roveto usciva da uno scoscendimento roccioso, e di là si vede- va il cielo.

— Era meglio se acchiappavamo la serpe, — dissi, nel silenzio.

L’amico non rispose, e continuò a sussurrare, come un filo d’acqua a un rubinetto. La vipera non usciva.

Ci riscosse un clamore improvviso sul vento, qualcosa come un urlo o uno scossone. Di nuovo, dal paese, avevano chiamato: era la solita voce, lamentosa e rabbiosa: «Pale! Pale!»

Pensai subito ai miei di casa. Pale s’era fermato, a testa innanzi; dritto su una gamba sola, e mi parve che facesse una delle sue smorfie diaboliche. Ma ecco che il silenzio s’era appena rifatto, e di nuovo la voce – inumana in quel salto d’aria – strillò «Pale! Pale!» E fu allora che il socio gettò, con rabbia il vincastro e disse in fretta: — Quei bastardi. Se la vipera sente il nome mentre la cerchiamo, poi mi conosce.

— Vieni via, — dissi con un filo di voce.

La vecchia maledetta continuava a chiamare. Me la vedevo alla finestra, sbucare ogni tanto con un lattante in braccio e cacciare quello strillo come se cantasse. Pale mi prese un bel momento per il polso e gridò «Scappa!» Fu una corsa sola fino alla piana; ci gridavamo «La vipera!» per eccitarci, ma la nostra paura – la mia, almeno – era qualcosa di più complesso, un senso di avere offeso le potenze, che so io, dell’aria e dei sassi.

Venne la sera e ci trovò seduti sui traversini del ponte. Pale taceva e sputava nell’acqua.

— Prendiamo il fresco al balcone, — dissi a Pale. Era quella l’ora che tutte le donne del paese cominciavano a chiamare questo e quello, ma per il momento c’era una pace meravigliosa, e si sentiva soltanto qualche grillo.

«Non mi hanno ancora chiamato», pensavo; e dissi: — Perché non rispondi quando ti chiamano? Questa sera te le dànno.

Pale alzò le spalle e fece una smorfia. — Cosa vuoi che capiscano le donne.

— Davvero, se la vipera sente un nome, poi lo viene a cercare?

Pale non rispose. A forza di scappare di casa era diventato taciturno come un uomo.

— Ma allora il tuo nome dovrebbero saperlo tutte le serpi di queste colline.

— Anche il tuo, — disse Pale con un sogghigno.
— Ma io rispondo subito.
— Non è questo, – disse Pale. – Credi che alla vipera

importi se fai il bravo ragazzo? La vipera vuole ammazzare quelli che la cercano…

Ma in quel momento ricominciò l’urlo di prima. La vecchia s’era rifatta alla finestra. Cigolarono le ruote di un carro e s’udì il tonfo di un secchio nel pozzo. Allora m’incamminai verso casa, e Pale rimase sul ponte.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.