La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.
In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.
Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.
Parte prima: Il mare
Primo amore
Prima di conoscere Nino non m’ero mai accorto che i ragazzi con cui gridavo e correvo sulla strada fossero sporchi e malrattoppati. Li invidiavo anzi perché andavano scalzi e qualcuno sapeva premere il tallone sulle stoppie senza farsi male. I miei pallidi piedi cittadini invece si rattrappivano persino alla prova di posarli sull’acciottolato.
Di ciò che avevo imparato da loro soltanto certe bestemmie interessavano Nino. Nino stava in una villetta all’uscita del paese e aveva molte sorelle maggiori che m’intimidivano. Io mi fermavo sotto il muricciolo e guardavo tra le sbarre, sperando che Nino stesse già scendendo gli scalini del giardino; se ritardava, fischiavo piano fingendo d’essere una serpe e continuavo rinforzando a poco a poco, finché il cane non abbaiava. Nino giungeva correndo, perché aveva anche lui paura del cane.
Era impossibile proporre a Nino di scalzarsi o di giocare con gli altri. Senza avergliene mai parlato, dopo pochi incontri m’accorsi che con lui mi vergognavo di quei compagni. Ma il bello è che, da quanto diceva casualmente, appariva come li conoscesse tutti, sapesse i loro giochi, capisse i loro discorsi: pareva insomma uno di noi, tranne che portava una camicia e dei calzoncini piú puliti ancora dei miei e amava girare con le mani in tasca in viuzze fuorimano, sbirciando fra l’erba o per le finestre, guardando dietro ai passanti e facendo di tanto in tanto una smorfia.
Avevamo tredici anni, forse quattordici, e veramente anch’io mi sentii d’improvviso, quell’estate, insoddisfatto di quegli straccioncelli: se avevano la nostra età erano molli e sciocchi, se parevano magri e vivaci come noi erano già diciottenni e non s’andava più d’accordo.
Di che parlassimo con Nino nei primi giorni non ricordo bene. So che una volta gli chiesi quante sorelle avesse. — Nessuna, — mi rispose. — Come: e tutte quelle donne? non sono tue sorelle? — Sono tutte come la mamma, – mi disse, piegando il viso da una parte, come faceva spesso. – Che siano veramente sorelle non ce n’è.
Io gli raccontavo che una volta ero stato a caccia con un soldato in licenza; glielo raccontai tante volte, per dritto e per traverso, che un bel giorno Nino mi disse: — Bum. — Che c’è? – gli feci. – Vado a caccia anch’io; non si può?
Provai a portarlo alla bialera, dove certi miei compagni del mattino stavano a pescare con ceste, tutti inzaccherati d’acqua e di fango. Nino si teneva in disparte, sorridendo assente quando dall’acqua cercavo il suo sguardo e la sua approvazione; e una volta che il figlio del fabbro gli tirò addosso la cesta grondante, gridandogli di acchiapparla, lui si scostò, e non la raccolse. Gli diedero allora del «morto in piedi» e io tentai di giustificarlo spiegando che aveva il vestito nuovo. Ma Nino li insolentì e, siccome presero a tirarci del fango, gridò esasperato che aveva lui chi li avrebbe messi a posto.
Nino passava le mattinate in casa sua, a girare per le stanze; la prima volta che venni a cercarlo, allungando il collo in direzione della sua finestra, comparve una donna alta e bella che guardò attraverso il giardino e mi fece cenno di avvicinarmi. Io finsi disattenzione e sgusciai via. Temetti che Nino poi me ne parlasse, ma non fu nulla.
Da quel giorno divisi il mio tempo. Andavo al pascolo delle capre, di nascosto, quasi ogni mattino, coi ragazzetti di prima, e li sbalordivo con storie della città che a poco a poco divenne come una mia fattoria, dove accadevano straordinarie avventure sui tram e dentro gli ascensori. M’interrompevo ogni tanto e rincorrevo anch’io una capra, o scortecciavo un ramo, o cacciavo cavallette. Al pomeriggio nelle ore calde, che un tempo passavo sul fienile o nella stalla, andavo invece a prender Nino, e mi pareva di perdere il tempo, di annoiarmi, eppure ogni giorno ero là e, quando tornavamo dopo una tortuosa passeggiata su per la salita della chiesa o lungo i campi, avrei voluto entrar con lui nel giardino, sedermi sulle poltroncine di vimini e farmi mortificare dalle sorelle. Ma la prima volta che Nino m’invitò non osai.
Di ritorno dalla nostra avventura della bialera, lo sconsigliai dall’immischiare i parenti nei fatti nostri. Nino rise tra i denti e mi disse che, se avevo paura che le donne di casa sua sapessero di quei miei straccioni, potevo starmene tranquillo. Ben altro era il suo amico.
Me lo fece sentire che rideva, un pomeriggio, passando davanti al retrobottega dei Concimi. C’era ferma nella stradetta un’automobile bassa che avevo già vista. Veniva dalla soglia socchiusa un vocío basso di molti e una solida risata dominò a un tratto le voci, seguita da qualche altra piú rauca. Nel tanfo di zolfo e concimi, Nino si spiegò innanzi e disse: — Ora esce —. Uscì un vecchio bracciante che ci riconobbe ammiccando; poi, spalancata la porta, gridò: — Butta.
Volò un sacchetto sodo, che il vecchio pigliò a volo e depose nell’auto. Ne volò un altro, poi un altro.
— Aiutaci, signorino, — disse il bracciante scoprendo le gengive. Nino saltò la soglia e scomparve. Io rimasi vicino all’auto, cercando d’indovinare le ombre che si agitavano là dentro.
Quando l’auto fu quasi piena e io aiutavo il vecchio a raggiustare i sacchetti, apparvero sulla soglia Nino e un uomo riccio, fazzoletto al collo, cintura rossa e stivali. Era a maniche rimboccate e teneva tutta la porta. Nino gli arrivava al gomito.
Parlò, con una voce sorridente a Nino, e anche a me: — Vi siete fatti amici, eh? — Mi strizzò l’occhio e mi prese una mano; io mi divincolavo. Mi fletté a forza due o tre volte l’avambraccio, poi disse: — Nino, non farti picchiare perché è piú forte di te —. Poi rialzandosi, girò tutt’intorno il capo e disse: — Finito?
Trasse una sigaretta e se l’accese. Saltò nell’auto, ci disse: — Saluto, — e partì.
Quella sera Nino s’infervorò parlandomi: non poteva star fermo sul muricciolo dove andammo a sederci, ma non aveva i soliti occhi inquieti. Alle mie domande sfavillava.
Bruno faceva il conducente, ma era un suo vero amico. Era venuto a prenderli alla stazione il giorno dell’arrivo e per tutta la strada intorno alla collina verso la villa aveva parlato con lui, dando appena risposta alla mamma e alle sorelle quando parlavano, spiegando a lui ogni cosa. E ancor adesso gli chiedeva qualche volta come se la passavano quelle manzette di sue sorelle, e manzette voleva dire «stupide come le manze». Una cosa sola piaceva a Bruno delle sue sorelle: le sigarette americane che si faceva portare da Nino ogni volta che poteva, con la scatola, perché il pregio stava nella scatola.
Nino parlò di tutto quella sera; parlò del bagno di casa sua dove c’era un profumo migliore che nei prati, e avrebbe voluto condurci Bruno che si lavasse il suo puzzo d’uomo fatto ma pulito; ma soprattutto avrebbe voluto accompagnarsi con lui e con me sull’auto, in giro per i paesi delle colline, divertendosi e imparando a guidare.
Bruno gliel’aveva promesso, ma non veniva mai l’occasione. Bruno tormentava tutti, e si divertiva a dirgli sempre che tutti erano piú forti di lui. Qui mi piantò un pizzicotto da strapparmi la pelle e saltò indietro. — Vediamo se sei piú forte, — gridò invelenito, e raccolse un sasso.
«Perché fai questo?» avrei chiesto a Nino, se fosse stato uno dei momenti che ci fermavamo zitti al cancello della villa, prima di lasciarci. Ma se fosse stato quei momenti, non avremmo nemmeno parlato. Non capivo proprio che bisogno avesse Nino d’interrompere la contentezza del discorso per dirmi una cattiveria. Io non facevo il bagno in una bella vasca come lui, ma mi rincresceva di essere piú forte.
— Dice a tutti che sono piú forti, — disse Nino, lasciando cadere il sasso e avvicinandosi con una faccia maligna.
Non mi fidai di rispondere con lo stesso sorriso.
— Anche a te piace Bruno, eh? – continuò Nino. – Sta’ attento che a lui piacciono le manze. Le mie sorelle.
— Tutte quante? — esclamai.
— Tutte, — disse Nino.
— Ma gli uomini ne scelgono una, — dissi.
— Quanto sei stupido, – disse Nino. – Non le può mica sposare.
— Ma se hai detto che parlava solo con te.
— È perché loro non gli dànno risposta. Sono stupide.
Tornai a casa disgustato, vergognandomi dei baffi di mio padre e della tela cerata sporca di vino sulla quale mangiavamo la cena. La mia sorellina strillava. Non avevo mai viaggiato in automobile e pensavo quanto sarebbe stato bello salirci con Nino e Bruno; ma che le sorelle di Nino fossero stupide, e lui tanto maligno, mi umiliava. Per fortuna non gli avevo detto che una notte me le ero sognate.
Il mattino dopo provai onta di uscire ancora al pascolo coi soliti ragazzi, e mi disposi a passare il tempo come Nino, facendo colazione, lavandomi, girando per la casa: arrivare insomma come lui a mezzogiorno. Ma alle dieci ero in cortile e non sapevo piú che fare.
I bassi meli in fondo, di fianco al rustico, li sapevo a memoria. Gironzai sotto il porticato di fronte, dove c’era la catasta di fascine dell’anno prima, e passò la moglie del mezzadro con un secchio. Aveva sul capo grigio un fazzoletto giallo e le maniche rimboccate. Allora capii perché Nino poteva stare tutta la mattina senza giocare: nel suo giardino le sorelle andavano e venivano, e doveva esser davvero molto bello vivere con loro, se piacevano perfino al conducente. Io non avevo che mia madre e la serva che s’affaccendavano come i contadini, e mio padre tornava soltanto la sera.
La mezzadra corse alla stalla. Sentii la vacca muggire con uno scoppio rabbioso, che pareva piangesse. Mi feci sulla porta. La donna accorse irritata. — Va’, va’, – mi disse, mettendomisi davanti per riempire il vano, – non si deve guardare. Va’ e chiama Pietro; digli che è ora. Capito? — Pietro zappava in fondo a un campo, dietro la casa. Ritornai con lui, che passò prima nella cucina a bere un sorso alla bottiglia; e ci facemmo alla stalla. Di nuovo la vecchia mi respinse. Pietro si volse e brontolò: — Vai a dire a tua madre che le facciamo il vitello.
Rimasi a gironzare, sussultando di paura a certi muggiti bestiali che scoppiavano nell’aria fresca, seguiti da gorgoglii moribondi. Poi uscirono voci concitate; la mezzadra esclamava, e infine scrosci d’acqua e un tintinnio di catena. Io pensavo al pancione sformato della vacca, che avevo veduto giorni prima.
D’un tratto mi venne in mente Nino, e mi buttai a correre per giungere in tempo. Capitai davanti alla villa mentre usciva una sua sorella, quella bionda, che aveva una pelle bianca bianca, e mi piaceva quando passava in bicicletta. Mi posò una mano sulla testa, ridendo, e mi chiese cos’avevo. Cercavo Nino. — Perché? — insistette lei. — C’è nato un vitello, — balbettai tutto rosso. La donna mi guardava e levò la mano, e rise forte.
— È carino? — mi chiese. Io non seppi che dire. Quella rise ancora e si volse e chiamò: — Nino! — Qualcuno rispose. Allora mi accennò con la mano, sogguardandomi appena, e se ne andò, aprendo il parasole.
Quando giunse Nino – il cane abbaiava e scorrazzava facendo tintinnare la catena – non avevo più voglia di portarlo alla stalla. M’aveva ripreso la vergogna di quel cortile sporco davanti a casa. Dissi soltanto: — Vuoi venire?
Finimmo quel mattino alla bialera, dove c’erano le lavandaie. Tacevamo tutti e due.
— Hai già veduto nascere un vitello? – dissi a un tratto. – Io ne ho veduto nascere uno stamattina. Faceva paura.
Nino mi chiese: — Gridava?
— No, gridava la mamma, – dissi: – la vacca.
— Perché non mi hai chiamato?
Io feci un viso offeso, come il giorno prima.
— Stupido, – disse Nino tutto in orgasmo, – avremmo veduto come nascono i bambini. Hai proprio visto come ha fatto?
— Non hai mai veduto nascere un bambino? — risposi con importanza.
Nino tacque e guardò a terra. Le lavandaie sbattevano i panni sulle pietre. Ce n’era una grassa, rimboccata fino alle spalle, che menava certi colpi robusti, mostrando l’ascella e ridendo a una compagna. Le sussultava tutto il corpo, accovacciato nel fagotto delle sottane.
— È come vedere un cavallo cacare, – ripresi con la voce malferma. – Solamente ch’è più grosso.
— Hai proprio visto?
— Sicuro, — risposi.
— Anche tu sei nato così, — disse Nino con rabbia.
— Sì, anch’io, — risposi tranquillo.
Allora Nino si tirò un pugno in faccia e si lasciò cadere a terra. In piedi accanto a lui, lo guardavo imbarazzato. Mi sedetti per confessargli la verità ma in quel momento si mise a ridere.
Però rideva verde. — Se vuoi venire in automobile con noi, dimmi com’è.
Fissai Nino: aveva occhi e labbra accesi. Balbettò adagio: — Hai veduto tua mamma?
Lo guardai stupefatto e dissi: — Stupido che sei.
— Dimmelo, chi hai veduto?
— Ho veduto il vitello.
— Non le donne?
— No, — e fissai terra.
La voce di Nino mi scoppiò vicino all’orecchio: — Allora non sai come fanno?
Confessai che non avevo veduto nemmeno il vitello.
Allora Nino si rotolò nell’erba e saltò in piedi. — Io so come fanno, – disse. – Esce del sangue e devono strappargli il bambino.
— Non sempre esce il sangue.
— Sì, esce sempre perché le donne gridano.
— No, – dissi, – senti, — e gli spiegai che avevo veduto una vacca dopo ch’era nato il vitellino, e non c’era sangue e il vitellino era soltanto un po’ umido.
— Le donne fanno sangue, – insisté Nino. – Tu non sai niente.
Mi spiegò a voce rauca come facevano le donne. Non lo interruppi, ma fissavo l’erba.
— Anche le tue sorelle? — dissi alla fine.
— Anche.
Quel pomeriggio Bruno arrivò inaspettato in paese e ci prese con sé sulla macchina, perché portava una damigiana alla stazione e c’era posto. Ci mise sul sedile posteriore a tenere la damigiana e si partì. Per tutta la strada ebbi il cuore in gola e mi pareva di volare come volavano gli alberi e i paracarri e i passanti. Socchiudevo gli occhi nel sole, vedevo la nuca ferma di Bruno sul fazzoletto rosso e gli scatti del suo braccio posato sul volante. Temevo che fermandoci la damigiana sarebbe caduta.
Invece tutto andò bene e fui io che traballai tutto sudato, una volta a terra. Bruno trasportò vociando la damigiana nel deposito; poi ci condusse all’osteria della stazione. Mi sedetti, intimidito, nella penombra fresca, facendo come Nino che fissava tutti in faccia e rideva con Bruno, levando la faccia a guardarlo.
Bruno chiese da bere e Nino volle per sé la ghiacciata.
C’eravamo bagnata la bocca, quando Nino deglutí e disse sornione: — Berto, racconta a Bruno che hai visto fare un bambino.
Bruno mi guardò di traverso, con un occhio solo. Posò il bicchiere, aggrottando le labbra.
— Se sei tu… — scattai inferocito.
Bruno s’asciugò il sudore. Si volse a Nino: — Digli che impari a far l’uomo, piuttosto. Ne avete bisogno, alla vostra età. Al resto ci pensano le donne.
— È nato un vitello… — disse Nino.
— Sono nati due asini, – interruppe Bruno. – Non avete altro da parlare?
S’asciugò un’altra volta il sudore. Pareva seccato e noi tacevamo, abbassando gli occhi. Nino masticava il suo ghiaccio, a capo basso.
— Nino, ti ha dato le sigarette, Clara?
Clara era la sorella bionda. – Le ha nascoste, — disse Nino.
Bruno arrotolò la sua, dicendo indifferente: — Volete venire domani ai Robini? Ritorniamo per mezzogiorno. Vieni anche tu, Berto?
Nino disse: — Dammi da fumare.
Guardai la manona di Bruno arrotolare la sigaretta e non osai chiederne anch’io. — Nino, ci vai domani? — dissi invece. Nino guardò di sottecchi Bruno e chiese piano: — Staremo al muretto? — Bruno annuí e gli tese la sigaretta. Non capivo la faccia pallida di Nino. Lo vidi accendere con Bruno e la mano tremargli.
— Bevi del vino, – disse Bruno. – Il ghiaccio è per i malati —. Sapevo che a Nino il vino rosso ripugnava eppure lo vidi tendere il bicchiere e accostarselo adagio alle labbra. Lo trangugiò tutto.
— Allegro, – disse Bruno. – Quest’inverno quando sarete in città, non avrete piú del vino buono. Crescete magri, in città. Tu, Berto, hai già la ragazza?
Dissi imbarazzato: — Non c’è tempo: d’inverno andiamo a scuola.
— Perché, d’estate ce l’hai?
— Io… no.
Bruno si mise a ridere, franco. — Bravo, vi vedete d’inverno con Nino?
— Quest’anno ci vedremo, — dissi di scatto a Nino.
— Sta’ attento che Nino studia la scherma e t’infilza, — mi disse Bruno, ammiccando.
Nino non parlava. Bevve un altro bicchiere e mi ascoltava appena. Seguiva con gli occhi il bracciale di cuoio che cingeva il polso quadrato di Bruno. D’un tratto chiese a che cosa serviva.
— A rompere la faccia ai prepotenti, – spiegò Bruno. – Si dà un colpo per storto, a soprammano, così non si feriscono le dita, e fa l’effetto di un guantone. Una notte a Spigno c’era uno che mi passa vicino alla macchina – ero fermo alla stazione – e sputa dentro. Sputa e tira avanti. Non bisogna mai tollerare uno sputo, perché chi sputa ha paura. Gli volo addosso e gli sfianco la faccia. Così. Vedete a cosa serve?
Nino tossì sulla sigaretta, senza distogliere gli occhi dal volto fiero di Bruno. Come già le altre volte che avevamo fumato dietro la chiesa, lui sopportava benissimo il fumo. Doveva essere il vino che lo confondeva. O forse qualche pasticcio con Bruno. Perché Bruno chiamava la sua sorella per nome?
— Quando tua mamma e le tue sorelle faranno quella gita in Acqui che hanno detto ti farò vedere la piazza dove una volta ho fermato un cane arrabbiato mettendogli in bocca il cuoio. Vedete i segni dei denti?
— Io non verrò in Acqui con voi, — disse Nino.
Bruno si mise a ridere. — Berto, finisci di bere. Domani allora.
Andammo ai Robini, e per tutta la strada, che fece in velocità, Bruno fischiettava volgendosi a me dopo ogni curva. Nino, seduto accanto a lui, teneva il mento sul petto, come se qualcuno l’avesse picchiato; e due o tre volte girò gli occhi alle colline, nel cielo, con uno scatto quasi si svegliasse allora.
— La campagna è asciutta quest’anno, — dissi con tono rassegnato come faceva mio padre.
Bruno non si volse, e infilò invece una stradetta laterale, che saliva fra le gaggie. Dopo un cinque minuti di frasche in faccia, ci fermò a mezzacosta presso un ponticello murettato su di una balza. Saltò a terra e ci disse: — Allora aspettate. Guardate la macchina –. Chiuse il motore e tolse la chiavetta. – Non toccate, perché tanto non si muove. Allegro, Nino –. Ci diede una sigaretta per uno e ce l’accese. – Se qualcuno sale la strada, chiunque sia, suonate il clacson. Capito? Se tutto va bene poi ti lascio guidare, Nino. Anche tu, Berto, e state attenti, chiunque sia —. Prese il sentiero della costa e scomparve fra le gaggie.
Ora, faceva un gran sole e noi, riparati all’ombra delle gaggie, dominavamo dall’alto un lungo tratto della stradetta ripida. Nessuno poteva entrarci dallo stradone, senza che ce ne accorgessimo. Non ero mai stato lassù.
Nino evidentemente c’era già stato. Senza voltarsi, fumava seduto al volante e non s’interessava dei comandi che aveva sott’occhio. Fumava come un uomo, senza guardare la sigaretta, a scatti.
— Starà via molto Bruno? — dissi.
Nino non rispose. Saltai a terra e feci il giro della macchina e diedi un’occhiata ai fari e alle gomme impolverate. Guardai giù dal muretto la balza disseccata: soltanto nelle piogge d’autunno doveva riempirsi e schiumare. Vi affioravano radici nodose che mettevano voglia di calarsi giù, non fosse stata la paura delle serpi. Vi buttai il mozzicone della sigaretta, e poi cercai di spegnerlo a sputi. Nino non si muoveva.
— Lascia sedere un po’ anche me, — dissi voltandomi.
Nino mi guardò con gli occhi strizzati di quando era maligno.
— Lo sai dov’è andato? — disse.
Alzai le spalle. In quel momento un cane, non lontano, si mise a latrare.
— Ecco, – disse Nino, – è arrivato adesso dalla donna. Va a trovare la moglie o la figlia del Martino, che l’aspettano e legano il cane, e vanno a letto insieme.
— Ma se è giorno, — dissi.
Nino alzò, le spalle. — Si mettono sul letto, – continuò. – Così fanno più presto. Però sta anche un’ora, – e rise, – se non viene nessuno.
— E dov’è Martino?
— Il Martino è andato alla stazione. Ho sentito ieri.
— E se arriva?
— Se arriva, ci siamo noi per suonare.
Non ero convinto. — Te lo ha detto Bruno?
Nino mi diede un’occhiataccia e buttò via la sigaretta.
— Non ci credo, – ripresi. – Ci vorrebbe troppo tempo. Bruno ha altro da pensare. E poi deve guidare l’automobile…
— Ebbene?
— … Sarebbe troppo stanco… — dissi esitando.
— Bruno è forte, – disse Nino con rabbia. – Ma vedrai.
— Che cosa?
— Vedrai.
La stradetta chiazzata di sole era sempre deserta, e nel calore mi tremavano le foglie sotto gli occhi. O piuttosto era il mio cuore che pulsava sbigottito, e il paese, la casa, parevano tanto lontani da quella solitudine e con quei pensieri. Se soltanto Nino non avesse avuto quel tono ostile. Mi tornò a mente Clara ch’era alla villa e non sapeva niente di noialtri. Anche lei era una donna. Malfermo, mi sedetti allora sul montatoio della macchina.
— Non ci credo, – dissi a un tratto. – La Martina va sempre in chiesa.
— Tutte le donne vanno in chiesa. Non sai che si sposano in chiesa? E due si sposano per andare a letto, no?
— Non ci credo, – dissi. – Bruno è un uomo come noi.
— Sai che cosa gli faccio?
— Che cosa?
— Vedrai.
Salii nell’auto e mi sedetti accanto a Nino, che mi guardava di sottecchi. Fischiettava tra sé.
— Adesso si baciano, — disse a denti stretti.
— Nino, – esclamai, – se torna il Martino, che cosa facciamo? lo racconterà a casa…
— Non tornerà, – disse Nino. – C’è qualcuno? — Si volse e scrutò la stradetta, lo stradone e tutta la pianura. Tendemmo l’orecchio. Nessuno.
— A quest’ora si sono svestiti, — continuò Nino pallido.
— Macché… — balbettai.
— E allora, pronti, — gridò Nino e premette il bottone del clacson.
Risposero i latrati del cane. Mi parve che tutta la boscaglia stormisse, nell’attimo che seguì. Feci per fermare la mano di Nino, ma già l’urlo rauco del clacson, che parve d’un uomo strozzato, tornava a scoppiare.
Quando Bruno sbucò, saltando dal sentiero, noi stavamo accovacciati nell’erba dietro i tronchi, dove m’aveva trascinato Nino. Bruno si guardò intorno e guardò la stradetta, mentre gli pendeva dalla mano la cintura rossa.
Cingendosi i calzoni, guardò ancora tutt’attorno e chiamò: — Nino! — a bassa voce. Nino mi strinse il braccio.
Bruno era salito sull’auto e scrutava lo stradone là in basso, muovendo le labbra. Aveva i capelli in disordine e la faccia come uscita allora da sotto la pompa. Scese dall’auto e andò contro le piante. Volgendoci la schiena si piantò a gambe larghe e dopo un poco lo sentii che zampillava. Nino soffocò una risatella.
Allora Bruno venne alla nostra volta, guardando in aria e abbottonandosi. Si piegò a un tratto e saltò in mezzo ai rami. Afferrò per una gamba Nino che fuggiva e lo rovesciò a terra. Io ero saltato in piedi e vedevo. Senza parlare. Bruno strinse nel pugno i due polsi di Nino e lo sollevò come un coniglio. Tenendolo discosto, perché scalciava mugolando, cominciò col taglio della mano a menargli dei colpi sui fianchi e a ogni botta cacciava un ruggito e serrava le labbra. Un istante mi guardò, senza vedermi, e allora scappai sulla strada. Sentii ancora qualche tonfo, e poi Bruno comparve tenendo Nino sotto l’ascella, e lo buttò nell’automobile. Mi disse con una brutta voce: — Sali su che torniamo.
Per tutta la corsa Nino rattrappito al fianco di Bruno non disse parola. Io mi sentivo il vento fresco in faccia come avessi la febbre. Davanti alla villa, Bruno fermò. Mi guardò scendere e un istante mi parve che ridesse. Nino levò la faccia, respinse il mio braccio e si calò malcerto. Sputò in terra e s’allontanò nel giardino, zoppicando.
L’indomani non osai chiamare Nino perché, quando mi feci al cancello, vidi sedute in giardino due delle sorelle, quelle brune, che sporgevano al sole le gambe, e una leggeva.
Fu di nuovo Clara che, verso sera, mentre gironzavo preoccupato là d’attorno, mi giunse alle spalle in bicicletta e saltò a terra.
— Dove siete andati ieri? — mi chiese.
— Che cos’ha fatto Bruno a Nino? dov’eravate? — continuò.
— Parla. Tanto lo so. Nino per oggi è a letto. Che cos’avete fatto a Bruno?
— Dov’è Bruno? — dissi.
Allora Clara mi guardò attenta e prese a camminare verso il cancello, spingendo la bicicletta.
— Non so dov’è Bruno. Io non lo conosco. Però gli avete fatto qualcosa, perché Nino non me lo vuol dire. Siete andati ai Robini?
— Si è rovesciata la macchina, — dissi.
— Che cosa facevate ai Robini?
— Niente. Imparavamo a guidare.
Eravamo in mezzo al giardino. E le sedie di vimini sotto l’ombrellone erano vuote. La ghiaia ci scricchiolava sotto i piedi.
— Siete andati a trovare qualcuno?
— Oh, no.
Clara disse seria: — Nino è a letto. Vuoi venire a trovarlo?
— Oh no, passerò domani a prenderlo. È tardi, — dissi fermandomi.
Clara sorrise. — Come sta il vitello?
— Che vitello?…
— Quello che è nato l’altro giorno. È tuo?
Risposi con un cenno del capo. Clara poggiò la bicicletta al muro e salí i gradini. — Ciao, vitellino, — gridò volgendosi. Osservai ch’era ben alta.
Per vari giorni Nino non uscì e io passavo davanti alla villa, sperando di vedere qualcuno. Era una stagione – i primi d’agosto – che in campagna non c’è niente: le mele e le prime susine finiscono con luglio, e fino a settembre non incomincia l’uva. Non valeva la pena, in attesa di Nino, di rifare amicizia con gli altri, e gironzolai per i viottoli. Però, star solo è bello un momento, quando viene in mente qualcosa, o si è veduto fra le sbarre del giardino Clara; tutto il giorno annoiava.
Ricordo che ci fu in quei pomeriggi un tremendo temporale, senza grandine, ma freddo e nero, che spaventò molto mia madre e le bestie della stalla, e a me non dispiacque perché la sera fu fresca e l’indomani mattina c’erano le pozze d’acqua e strati di foglie riversi a terra. Anche allora pensai a Clara e alle sue sorelle: se i fulmini le avevano spaventate.
Quando finalmente si fece rivedere, Nino fu di poche parole, e una volta o due mi scappò da ridere guardandolo sedersi sui muriccioli con qualche cautela. Lui mi guardava di sottecchi e parevano tornati i primi tempi, quando passeggiavamo taciturni. Venne con un pacchetto intiero di belle sigarette scritte in arabo, che mi lasciarono intontito e profumato. Un mattino ch’ero tornato alla bialera, lo vidi giungere chiotto con la giacchetta sulle spalle, e si mise a fumare seduto sull’argine. Gli fummo subito tutti d’attorno e lui diede sigarette a due o tre e sputò nell’acqua. Poi disse svogliato:
— Avete visto il conducente delle Ca’ Nere?
Ne parlò col biondo dei Mulini che aveva un fratello facchino alla stazione e si decise che, se non prima, Bruno doveva passare in paese per la Madonna d’agosto a caricare della farina.
Nino disse con calma: — C’è il Martino che lo cerca per fargli la pelle.
Il figlio del fabbro osservò che quella sigaretta sapeva di miele, però era forte. Ritornammo verso casa noi quattro ragazzi (il fabbro aveva già certi calzonacci lunghi fino alle caviglie scalze e si grattava sovente sotto la camicia sul petto). In due o tre giorni Nino ebbe fatto amicizia con loro e si parlavano a risatine e gomitate.
Venne il giorno che Nino mi chiese: — A te non ha fatto niente quella volta Bruno?
— Chi ha suonato il clacson? — risposi.
Nino – aveva gli occhi sfuggenti in quei giorni – mi sogguardò camminando.
— Tu, Berto, sei ingenuo.
Già da diversi pomeriggi scompariva. Era in giro con qualcuno degli altri; andarono perfino a pescare e seppi che una volta Nino aveva portato, oltre alle sigarette, una scatola di pesche sciroppate. Gli dissi allora: — Sta’ attento che ti vogliono male e vengono con te solo perché porti la roba —. Ma Nino mi rispose che sapeva anche questo.
La sera dei falò della Madonna, Nino non si fece vedere e le sue sorelle non uscirono in giardino a guardare i fuochi che punteggiavano le colline. Era il primo anno che passavo solo e inquieto quella festa. Seppi l’indomani da un ragazzo, che Nino era andato con gli altri a fare un falò sul campo dei Mulini e un bel momento aveva buttato con uno spintone il figlio del fabbro nel fuoco. Poi era scappato a casa e adesso quell’altro lo cercava per ammazzarlo.
Nino stavolta mi fece chiamare dal giardiniere e mi supplicò di andargli a chiamare Bruno. Le Ca’ Nere erano lontane; pure ci andai e lasciai detto nell’autorimessa che mandassero Bruno alla villa. Mentre rientravo in giardino, sassi e terra mi fioccarono addosso: erano il figlio del fabbro con gli altri, appostati, caso mai Nino uscisse.
Qualche ora dopo, giunse Bruno tutto svelto, fazzolettaccio e stivali, e lo fermammo sul cancello sperando che gli altri tirassero. Bruno credeva che la chiamata fosse per quella gita in Acqui e menò uno scapaccione a Nino, e Nino avvampando gli tornò accanto e gli chiese se voleva far la pace. Bruno non si commosse e guardava in fondo al giardino. Poi fece una gran risata e disse: — Va bene, di che cosa hai bisogno?
In quel momento un tocco di terra colse Nino nella schiena. Nino saltò da lato, strinse il pugno di Bruno e gli disse: — Dalle a quei vagabondi —. Quando Bruno seppe chi erano e che cosa volevano, si volse un poco a guardarli e ci disse forte: — Siete peggio delle donne, anche voi. E quelli laggiù non secchino perché ce n’è per tutti —. In quel momento sbucò Clara, si riconobbero e presero a parlare della gita in Acqui. Nino mi chiamò nell’aiuola per mostrarmi qualcosa e io entrai nel giardino, rivolgendomi a guardare Clara che ascoltava poggiata al cancello.
Un minuto dopo Bruno si prese una sassata in faccia e Clara cacciò uno strillo; noi accorremmo: Bruno stava già trattando a calci due della banda, tra cui il figlio del fabbro. Mi fermai sul cancello fremendo d’orgasmo e stringendo i pugni, sotto gli occhi di Clara: se quei tali volevano il resto, ero pronto.
Bruno tornò ridendo e, accomiatandosi da Clara, tirò un altro scappellotto a Nino. Eravamo tutti eccitati.
Seguirono bei giorni d’agosto e Nino mi ammetteva sovente in giardino (il cane era legato dietro la villa) rientrando da qualche scorribanda. Una volta ci sedemmo a far merenda con pane e marmellata sotto l’ombrellone, e Nino sdraiato sulla poltrona mi disse che anche in città mangiava sempre marmellata e quell’inverno mi avrebbe fatto venire a lezione di scherma con lui e avrei veduto com’era bello. Poi, un altr’anno sarebbe tornato al mare in luglio e, se venivo anch’io, saremmo usciti in barca insieme. Mi descrisse i sandolini, ma per andarci avrei dovuto prima imparare a nuotare.
— Non si sposano le tue sorelle? — gli chiesi.
— Una è sposata, – mi disse, – non è qui. L’altr’anno doveva sposarsi Clara, ma poi hanno litigato.
— E tua madre?
Sua madre era una delle brune, che avevo preso per sua sorella. Non ci volevo credere.
— Non ci sono che donne in casa mia, – diceva Nino. – Almeno se ne fosse andata Clara.
Così era bello stare con Nino. Non mi diceva più malignità. Si fece con Bruno un’altra gita in automobile al paese vicino, stavolta senza litigare. Clara gli mandò per mezzo nostro delle sigarette, che lui si ficcò in tasca ridendo.
Solo il figlio del fabbro ci dava qualche apprensione: aveva ancora i capelli bruciacchiati e ci guardava fieramente, da lontano, storcendo la bocca.
Ma una volta comparve sornione sul piazzale della chiesa dove passeggiavamo, e ci venne incontro. Chiese a Nino una sigaretta. Nino alzò le spalle. Allora gli disse: — Se me la dai, ti dico una cosa che poi me ne regali un pacchetto.
— Dagliela, – sussurrai a Nino, – così fate la pace.
Ma Nino era senza. Quell’altro rideva. — Non fa niente. Venite fino all’Orto, vi faccio vedere una cosa mondiale.
Nino disse: — Ci prendi per stupidi?
Allora il figlio del fabbro accostò i denti gialli all’orecchio di Nino e bisbigliò qualcosa soffiando. Nino si fece pallido, saltò indietro, guardò me, guardò lui, e disse balbettando: — Parola?
— Cosa c’è? — chiesi.
— Andiamo, — disse Nino.
L’Orto era una cascina dietro la villa sul declivio della collina. Tra la villa e un primo burrone si stendeva una gran vigna, quasi piana, chiusa da un canneto e mezzo in gerbido. Giungemmo al canneto e saltammo, sbucando tra i filari. Io raccolsi in silenzio uno sterpo nodoso, caso mai il figlio del fabbro ci preparasse un’imboscata.
— Hai veduto Bruno oggi? — chiesi a un tratto perché Nino capisse, e capisse l’altro.
Nino, cui tremavano le labbra, non rispose. Si dirigevano al Casotto Rosso, una baracca abbandonata, coperta d’alberi, in fondo ai filari. Ci avevo giocato al fortino l’anno prima.
— Piano, – mormorò Nino quando fummo a poca distanza. – Fermatevi. Tu, Berto, tienilo —. Avanzò ancora e si fermò sullo spiazzo. La porta di legno era chiusa. Nino girò leggero il cantone e si alzò, in punta di piedi alla finestretta.
Il mio compagno se la rideva a bassa voce. — Cosa c’è? — Vieni a vedere.
Avanzammo anche noi e raggiungemmo Nino, che stava appoggiato all’asse sottostante la finestra e fissava attraverso il vetro screpolato. Gettai lo sguardo dentro anch’io e non vidi nulla perché avevo gli occhi intontiti dal sole. Qualcosa però si muoveva nell’ombra.
Poi distinsi una forma bianca distesa, da cui si staccò un uomo che aveva al collo il fazzoletto rosso. Era Bruno. E la donna era Clara e aveva nel grembo nudo una chiazza dorata. Il vetro polveroso copriva la scena come di una nebbia.
— È bianca, — bisbigliò il figlio del fabbro.
Nino saltò indietro. — Venite via, – disse piano, tra i denti. – Venite via.
Mi sentii strappare la schiena dalle sue unghie. Il figlio del fabbro gli tirò un calcio, all’indietro. — Se non vieni, chiamo Bruno, — disse Nino rabbioso. Quello allora si staccò e con una brutta occhiata sogghignante indietreggiò nello spiazzo. Si fissarono un attimo e poi Nino gli corse addosso. L’altro scappò.
Corsi anch’io disperatamente, stringendo il mio sterpo. Sotto un filare, quasi al canneto, Nino l’aveva raggiunto e l’aveva atterrato. Si mordevano avvoltolandosi. Mi buttai sul viluppo e menai botte anch’io su quei calzoni rattoppati, sulla camicia sporca, sui denti gialli. Picchiando pensavo che mi vedesse Clara.
Quando il figlio del fabbro si mise a piangere e urlare, io mi divincolai, e staccai pure Nino. Lasciammo il nostro nemico nel solco e corremmo via.
Credo che Nino avesse in mente la mia stessa idea, perché, stracco e pesto com’era anche lui, filava come un cavallo cercando di distanziarmi. D’un tratto mi fermai e lo lasciai andare. Così evitammo di parlarci.
Lo vidi da lontano girar l’angolo della villa e restai solo, sopra il mucchio di ghiaia dello stradone. Solamente presso casa mi accorsi che avevo il collo pieno di sangue ma non me ne importava: entrai sotto il portone e mi buttai nel fieno. Era già buio quando mi alzai tutto indolenzito e, stropicciandomi la guancia per scrostare il sangue secco che parevano lacrime, pensavo se come Clara erano tutte le sorelle.
Seppi l’indomani che Nino s’era rotto un braccio e non osai presentarmi alla villa, perché temevo che ci avessero visti.
Per molte notti restai sveglio ore e ore, chiudendo gli occhi e stringendo il guanciale. Una notte, che c’era la luna, se non avessi avuto paura mi sarei levato e avrei fatto una corsa alla baracca per cercare se restava qualche traccia. Ci andai poi la mattina, ma girava nella vigna un contadino e non osai entrare.
Dal mio cortile uscivo di rado, perché temevo agguati e sassate, ma i ragazzi mi chiamarono a pescare perché ebbero bisogno della mia rete. E siccome Nino aveva un braccio rotto, il figlio del fabbro non osò dir parola. Ma un giorno che facevamo certi discorsi, nascosti in fienile col biondo dei Mulini, questo mi chiese se anche la sorella di Nino era bionda. Dopo mi vergognai, ma lí per lí non seppi tacere. Parlai però col cuore in gola e d’un tratto mi sentii disperato, come quando bambino, seduto nudo sulla sedia in cucina, guardavo versare l’acqua per il bagno. Allora tacqui, e anche il biondo taceva.
Finalmente un mattino, Bruno passando in bicicletta mi sorprese che tagliuzzavo un ramo sotto i salici e mi chiamò, fermandosi. Aveva al collo un fazzoletto nero e la blusa coi taschini.
— Hai litigato con Nino?
Nino gli aveva detto ieri di cercarmi e mandarmi da lui. S’era picchiato con me? La storia che aveva raccontato dell’albero secco, non reggeva. Quel graffio d’unghie sulla faccia era d’un ragazzo. — E se non vi conoscessi, direi ch’è di ragazza, — concluse.
Io lo guardavo incredulo.
— Vai anche tu a trovarlo: tra uomini non bisogna mai stare in guerra. Vai, Nino ti vuole. Vi racconterete come nascono i bambini.
— Ma tu sei andato a trovarlo? — chiesi esitante.
— Sicuro. Siamo amici, no? È in gamba quel ragazzo. Un braccio rotto da due settimane e vuol tornare in automobile con me.
Bruno estrasse una sigaretta e l’accese. Soffiò il fumo e drizzò la bicicletta.
— Che cosa dicono le sue sorelle? — chiesi.
— Oh quelle se ne infischiano, – rispose Bruno volgendo il capo. – E la madre più di tutte. L’unica che lo cura un poco è la bionda —. S’allontanò per lo stradone mentre io lo seguivo con gli occhi stupito, e in fondo contento.
Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.