
Alla Galleria Borghese di Roma, fino al 14 settembre 2025, è in corso “Poemi della terra nera”, prima mostra italiana di Wangechi Mutu, artista keniota e statunitense. Le sue sculture, installazioni e video dialogano con la classicità della collezione Borghese attraverso sospensioni, metamorfosi e nuove mitologie. Un percorso che trasforma il museo in spazio vivo, dove memoria e immaginazione si intrecciano.
Fino al 14 settembre 2025, la Galleria Borghese apre le sue sale, la facciata e i Giardini Segreti a un progetto inedito: “Poemi della terra nera”, personale dell’artista keniota e statunitense Wangechi Mutu, a cura di Cloé Perrone. È la prima volta che l’opera di Mutu approda nella storica residenza del cardinale Scipione, e lo fa con un intervento site-specific che sfida la tradizione classica, attraversando sospensioni, forme frammentate e nuove mitologie immaginate.
L’esposizione si inserisce nella linea di ricerca che la Galleria dedica al rapporto tra arte e poesia, già esplorato nella mostra su Giovan Battista Marino. In questo caso, però, il dialogo si estende oltre la parola scritta: Mutu intreccia linguaggi visivi e sonori, immagini e materiali, restituendo al visitatore un’esperienza stratificata che abbraccia tanto la classicità quanto l’urgenza del presente.
La “terra nera”: metafora generativa
Il titolo allude alla duplice pratica dell’artista, sospesa tra poesia e mito, ma sempre radicata nei contesti sociali contemporanei. La “terra nera”, fertile e malleabile come argilla dopo la pioggia, attraversa le geografie reali e immaginate di Mutu, trovando eco nei Giardini Segreti della Galleria Borghese. Da questo suolo simbolico emergono sculture che sembrano plasmate da forze primordiali, capaci di dar vita a storie, memorie e visioni future. È una metafora potente della capacità trasformativa dell’arte, al tempo stesso materiale e immaginifica.
Sculture sospese e nuove prospettive
All’interno del museo, Mutu ricompone lo spazio con leggerezza. Le sue opere non oscurano la collezione Borghese, ma vi si affiancano come presenze eteree: Ndege, Suspended Playtime, First Weeping Head e Second Weeping Head pendono dai soffitti, fluttuano nell’aria o si adagiano su superfici orizzontali, sfidando la logica gravitazionale.
Questa sospensione è anche concettuale: le narrazioni storiche e le gerarchie materiali si spostano, offrendo al visitatore nuove possibilità di percezione. Il museo smette di apparire come contenitore statico e diventa organismo vivo, capace di trasformarsi attraverso perdita, adattamento e metamorfosi.
Materiali ancestrali e metamorfosi
La scelta dei materiali è parte integrante della poetica di Mutu. Bronzo, legno, piume, terra, carta, acqua e cera convivono in un lessico che accosta la durezza dei metalli alla fragilità delle sostanze organiche. Il bronzo, liberato dal suo significato classico, si fa veicolo di memoria collettiva; le componenti organiche introducono fluidità e precarietà in un contesto dominato da marmi e stucchi. Questo ribaltamento anticipa un tema che guiderà anche il programma espositivo della Galleria nel 2026: le metamorfosi.
Tra mito, suono e memoria
All’esterno, la mostra si espande con opere già icone del percorso di Mutu. The Seated I e The Seated IV, create nel 2019 per la facciata del Metropolitan Museum di New York, assumono qui il ruolo di moderne cariatidi, in dialogo con la severità classica della residenza romana. Nei giardini, lavori come Nyoka, Heads in a Basket, Musa e Water Woman evocano vasi archetipici trasformati in corpi ibridi, a metà tra l’umano e il mitologico, radicati nelle tradizioni dell’Africa orientale ma aperti a cosmologie globali.
Il linguaggio si fa anche sonoro: dai ritmi sospesi di Poems for my great Grandmother I al testo inciso di Grains of Words, che rimanda al celebre discorso di Haile Selassie alle Nazioni Unite nel 1963, poi trasposto in musica da Bob Marley in War. Il suono diventa memoria, la parola assume forma scultorea, e la mostra vibra di echi politici e spirituali.
Il dialogo con l’American Academy
Il percorso prosegue all’American Academy in Rome, dove è esposta Shavasana I: una figura in bronzo distesa, coperta da una stuoia di paglia intrecciata. L’opera, ispirata alla posizione yoga della “posa del cadavere” e a un fatto di cronaca, trova eco nelle epigrafi funerarie romane dell’atrio che la ospita. È una riflessione intensa sul rapporto tra morte, dignità e memoria, che amplia ulteriormente il raggio d’azione della mostra.
Un impegno per l’arte contemporanea
Con “Poemi della terra nera”, la Galleria Borghese consolida la sua apertura al contemporaneo, dopo i progetti dedicati a Giuseppe Penone (2023) e Louise Bourgeois (2024). Il museo non rinuncia al suo ruolo di custode del passato, ma lo mette alla prova, lo sfida, lo rinnova con prospettive nuove.
La mostra è resa possibile grazie al sostegno di FENDI, sponsor ufficiale dell’iniziativa, e si presenta come una delle tappe più significative del programma espositivo romano del 2025: un incontro fra l’autorità della classicità e la forza dirompente di una voce internazionale che sa parlare di metamorfosi, identità e memoria collettiva.
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