L’infanzia senza fine di Chagall – Presentazione di Vittorio Sgarbi

Sento che il nostro problema oggi è soltanto uno: unirci. Radunare quello che resta di noi dopo il disastro, riempire i nostri cuori di propositi nobili.

Marc Chagall
Discorso pronunciato al ricevimento del Comitato degli Scrittori e Artisti Ebrei a New York organizzato in suo onore, 27 maggio 1947

Palazzo dei Diamanti di Ferrara ospita dall’11 ottobre 2025 all’8 febbraio 2026 la grande mostra Chagall, testimone del suo tempo, un percorso espositivo di sorprendente intensità emotiva che invita il pubblico a immergersi nell’universo poetico di uno dei più importanti e amati maestri dell’arte del Novecento.
 
Un viaggio straordinario che rivela come Marc Chagall (Vitebsk, 1887 – Saint–Paul de Vence, 1985), universalmente noto per le figure fluttuanti e le colorate atmosfere incantate, abbia saputo mantenere viva la memoria della sua terra natale, della tradizione e degli affetti, proiettandoli sempre verso nuovi orizzonti espressivi.

APRE AL PUBBLICO
LA MOSTRA

“CHAGALL.
Testimone del suo tempo”

11 ottobre 2025 – 8 febbraio 2026

Palazzo dei Diamanti, Ferrara

Al Palazzo dei Diamanti di Ferrara arriva una grande mostra su Marc Chagall,
uno dei più importanti e amati maestri dell’arte del Novecento.

Attraverso 200 opere – tra dipinti, disegni, incisioni, alcuni dei quali presentati per la prima volta in Italia, e sale immersive che consentono di ammirare due sue creazioni monumentali in una dimensione coinvolgente e spettacolare (il soffitto dell’Opéra di Parigi e le 12 vetrate per la sinagoga di Hadassah) – la mostra evidenzia la profonda umanità di un artista plurale, visionario e testimone del suo tempo, cantore della bellezza e custode della memoria. Volti scissi, profili che si moltiplicano, ritratti che si specchiano: attraverso il tema del doppio egli rivela la sua straordinaria capacità di cogliere la dualità dell’esistenza umana. E ancora amanti volanti, animali parlanti, bouquet esplosivi, diventano, trascendendo il visibile, metafore universali. Attraverso il suo sguardo poetico, Chagall trasforma l’esperienza personale in riflessione condivisa, svelando come dietro l’apparente semplicità delle sue creazioni si celino temi che toccano ogni essere umano: l’identità, l’esilio, la spiritualità e la gioia di vivere.
 
In un’epoca di frammentazione, egli ci ricorda che l’arte può essere ponte tra mondi diversi, sintesi di tradizioni apparentemente inconciliabili, specchio fedele delle aspirazioni e delle contraddizioni dell’umanità. La sua opera celebra quella verità emotiva che rende tangibili i sentimenti più profondi dell’animo umano, elevando lo spirito verso una bellezza capace di trovare, anche negli orrori del tempo, barlumi di pace e comprensione.
 
La mostra è prodotta e organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e Arthemisia, in collaborazione con il Servizio Cultura, Turismo e rapporti con l’Unesco del Comune di Ferrara, con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna, da una idea di Paul Schneiter e a cura di Francesca Villanti con Paul Schneiter.
La mostra vede come special partner Ricolamobility partner Frecciarossa Treno Ufficiale e conta sul supporto di Copma.


Ci sono artisti che non possono essere giudicati. Essi non appartengono alla storia, sono essi stessi storia. Sono con noi anche quando non ci sono più. Marc Chagall è uno di questi.

Celebrato in tutto il mondo, è stato ricco di vitalità fino all’ultimo, come dimostrano le opere della grande mostra di Palazzo dei Diamanti realizzate in oltre mezzo secolo di attività, dalla Brocca con fiori del 1925 ai lavori su masonite del 1981 (Davide e Golia; Il carretto sulla città; Nozze sotto il baldacchino), in mezzo ai quali si collocano dipinti emblematici, e poeticissimi, come La nuvola nuda (1945-46), Il mazzo della luna (1946), Exodus (c. 1948), e ancora Villaggio con sole offuscato (1950), Circo (1966) e La sposa sopra Parigi (1977).

È davvero straordinario che un artista del Novecento abbia resistito a ogni tentazione ideologica o politica. Chagall ha vissuto gli stessi sconvolgimenti che Picasso ha osservato con occhi turbati e che Mondrian, nella sua utopia della ragione, ha ignorato. Tutti testimoni di quei tempi contraddittori, nei quali ogni decade ha prodotto una nuova era, in letteratura, nell’arte, nella vita sociale. Futurismo, Cubismo, Surrealismo; Metafisica e Cavaliere Azzurro; Realismo e Astrattismo, Informale e Pop Art: tutto ciò è avvenuto davanti agli occhi di Chagall, gli è passato accanto senza lasciare in lui la minima traccia. Chagall è ancora nostro contemporaneo, come se non fosse trascorso un giorno da quel lontano 1911 quando arrivò da Vitebsk, cittadina russa sulle rive della Dvina, dove era nato nel 1887, in una Parigi ricca dei fermenti poetici, pittorici e teatrali di Léger, Braque, Matisse, Delaunay, Apollinaire e Cendrars.

Per Chagall Parigi non fu un mito irraggiungibile. Egli attribuì dignità estetica al solo vero mito: la vita contadina – con il villaggio, la neve, gli animali, come si vede nella tela del 1929 che apre la mostra – sempre presente, mai abbandonata, mai dimenticata. Ogni aspetto della vita – amore, felicità, avventura – si trova in quel villaggio che Chagall aveva dentro di sé. E la sua fede nella bontà dell’uomo tiene la pittura al di là di ogni contaminazione.

Come si lega alla realtà quella fiera di paese con i caroselli, gli acrobati e le bancarelle piene di canditi? Eppure, un legame c’è. L’opera di Chagall attraversa indenne gli anni e i movimenti, la sua forza non diminuisce perché tocca il cuore degli uomini prima ancora di raggiungere il loro intelletto. Quegli acrobati, le spose e gli sposi, i fiori, i violinisti, rimarranno sempre con noi. Continueranno a stare sopra la terra, ma soggetti alla gravità, come il pittore li ha rappresentati. Mai in pittura un corpo ha avuto meno peso, un piede si è appoggiato in modo più precario.

Tutto è già nel programmatico Autoritratto con sette dita del 1912-13, custodito oggi nello Stedelijk Museum di Amsterdam. L’artista, come un dandy, con i lunghi capelli a riccioli, sta davanti al cavalletto; alle sue spalle vediamo Parigi; mentre tra le nuvole ci sono la chiesa e le case del villaggio. Sul cavalletto è appoggiato il quadro. Parigi è lontana e indistinta, mentre il villaggio vicino, contiene tutto quello che la memoria desidera: la chiesa, la donna con un secchio, la capra.

Marc Chagall andò a Parigi per dipingere gli animali, le persone e le cose del suo villaggio; dovette abbandonare il proprio paese per poterlo trasferire nella dimensione del sogno. “Ho portato dalla Russia i miei oggetti, Parigi vi ha versato sopra la sua luce”, affermò. Come esule egli non vedeva; ricordava, reagendo alla nostalgia dell’infanzia piuttosto che alla seduzione della novità.

Alcune opere tra il 1950 e la metà degli anni Sessanta appartengono a un momento delicato e più riflessivo per l’artista russo-francese morto, quasi centenario, il 28 marzo del 1985, nella sua casa “La Colline” a Saint-Paul-de-Vence, dove si era definitivamente trasferito nel 1966.
Dipinti come questi – penso, tra quelli in mostra, al Doppio volto al chiaro di luna, al Ritratto di Vava, a Gli innamorati con l’asino blu, a Riflessi verdi – sono liriche pure, emozioni, incanti sospesi.

Essi non chiedono un critico; attendono soltanto di incrociare uno sguardo complice, candidamente incantato.

Per noi l’infanzia è terminata, per Chagall fu senza fine.


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