
Dalla poesia calligrafica dei corpi velati ai racconti cinematografici sull’esilio e la libertà, Shirin Neshat ha costruito un linguaggio artistico che attraversa il dolore, la fede e la memoria collettiva. Iraniana di nascita, cosmopolita per destino, la sua voce visiva continua a interrogarci su cosa significhi appartenere a un luogo, a un genere, a un tempo.
Nata a Qazvin nel 1957, Shirin Neshat lascia l’Iran nel 1975 per studiare arte negli Stati Uniti, dove assisterà da lontano alla rivoluzione islamica del 1979. Quando finalmente rientra nel suo Paese, a fine anni Ottanta, trova un mondo radicalmente cambiato: un sistema teocratico in cui la libertà individuale è ridotta al silenzio e il corpo femminile diventa simbolo di controllo sociale. Da questo trauma nasce il suo primo ciclo fotografico, “Women of Allah” (1993-1997), in cui donne velate imbracciano armi mentre sulla pelle scorrono versi di poetesse persiane. Le immagini, potenti e contraddittorie, non sono un’adesione ideologica, ma un atto di riflessione sulla fusione di fede e violenza, di sottomissione e orgoglio.
L’artista si muove da subito su un terreno di confine: tra Oriente e Occidente, tra sacro e profano, tra intimità e politica. Il suo è un linguaggio visivo che parla per opposizioni, ma cerca sempre un punto di contatto, un fragile equilibrio. Con Women of Allah Neshat si afferma sulla scena internazionale, aprendo un percorso che la porterà a diventare una delle voci più autorevoli dell’arte contemporanea.
L’immagine come scrittura dell’esilio
Dalla fotografia, Neshat passa presto al video e alla performance visiva. In opere come Turbulent (1998), Rapture (1999) e Fervor (2000) — presentate anche alla Biennale di Venezia, dove nel 1999 vince il Leone d’Oro come miglior artista internazionale — la contrapposizione uomo-donna si traduce in una coreografia simbolica. Gli spazi si dividono, le voci si alternano, i gesti diventano rituali: tutto sembra sospeso tra il reale e l’archetipo.
Dietro queste immagini, c’è sempre l’eco dell’esilio. Per Neshat la lontananza non è solo geografica, ma esistenziale. “L’artista in esilio,” ha detto più volte, “vive tra nostalgia e reinvenzione.” La perdita delle radici diventa così una condizione di creazione: un modo per guardare il mondo da due prospettive, quella dell’interno e quella dell’esterno.
Dal simbolo al racconto
Negli anni Duemila l’artista approda al cinema. Con Women Without Men (2009), ispirato al romanzo di Shahrnush Parsipur, Neshat intreccia le vite di quattro donne durante il colpo di Stato del 1953 in Iran. Il film, premiato con il Leone d’Argento per la miglior regia alla Mostra di Venezia, conferma la sua capacità di fondere storia e allegoria, realismo e visione poetica.
Seguirà Looking for Oum Kulthum (2017), ritratto della leggendaria cantante egiziana, costruito come un film nel film: una regista iraniana tenta di raccontare la vita della “divina voce d’Egitto”, ma finisce per specchiarsi nella sua stessa ricerca di libertà e riconoscimento. In entrambi i casi, l’artista parla di donne intrappolate tra il desiderio di emancipazione e le strutture patriarcali del potere — una condizione universale, che travalica il Medio Oriente.
Il corpo come prova
Negli ultimi anni, Neshat ha ampliato ulteriormente il proprio campo d’indagine. I cicli fotografici The Book of Kings (2012) e The Home of My Eyes (2015) spostano lo sguardo verso la collettività: volti anonimi, corpi segnati da calligrafie, ritratti di uomini e donne che diventano rappresentazioni di popoli interi. La scrittura, elemento costante nella sua opera, diventa qui un linguaggio universale, non più legato solo alla cultura persiana ma alla dimensione globale dell’identità.
Nel 2022 realizza The Fury, una video-installazione dedicata alla testimonianza di una donna iraniana sopravvissuta agli abusi in prigione. L’opera, presentata in varie sedi internazionali, anticipa e accompagna il movimento “Woman, Life, Freedom”, esploso in Iran nel 2022 dopo la morte di Mahsa Amini.
E proprio intorno a questa riflessione ruota anche “Body of Evidence”, la grande mostra personale ospitata nel 2025 al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, che ha raccolto oltre trent’anni di lavoro dell’artista: quasi duecento fotografie, numerose video-installazioni e documenti di un percorso che intreccia arte, politica e spiritualità.
Poesia e disobbedienza
Neshat non si definisce mai un’attivista, ma il suo lavoro è profondamente politico. È la politica della poesia come disobbedienza, del gesto come linguaggio, dell’immagine come forma di libertà. Nel suo universo estetico, la donna non è mai solo vittima, ma voce che resiste, che trasforma la sofferenza in parola visiva.
Premiata nel 2017 con il Praemium Imperiale di Tokyo per la scultura, Neshat oggi espone in tutto il mondo e le sue opere fanno parte delle collezioni del MoMA, del Guggenheim, del Whitney Museum e della Tate Modern.
Il suo lavoro parla una lingua che attraversa culture e religioni, e in ogni contesto interroga lo spettatore sul senso della libertà e sulla capacità dell’arte di dare forma all’invisibile.
L’arte come soglia
“L’artista è una figura di confine”, ha detto Neshat, “qualcuno che abita l’ombra tra mondi diversi.” È forse in questa sospensione che risiede la forza della sua opera: nell’impossibilità di appartenere pienamente, nella tensione tra memoria e futuro.
Nel tempo delle polarizzazioni e dei muri culturali, Shirin Neshat continua a ricordarci che ogni immagine è un ponte — fragile ma necessario — tra chi guarda e chi viene guardato, tra chi ricorda e chi dimentica.
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