

Roma celebra il centenario della nascita di Vivian Maier con una grande retrospettiva al Museo del Genio. Oltre duecento immagini, filmati, oggetti personali e materiali inediti raccontano l’universo intimo e visionario di una donna che trasformò la vita quotidiana in arte.

C’è un mistero che continua ad affascinare il mondo della fotografia contemporanea: quello di Vivian Maier (1926–2009), la bambinaia che, per decenni, documentò silenziosamente l’America del dopoguerra, accumulando centinaia di migliaia di negativi senza mai mostrarli a nessuno.
Solo dopo la sua morte, e quasi per caso, quel tesoro nascosto riemerse da un magazzino di Chicago, rivelando una delle voci più intense e originali della street photography del Novecento.
Un’esistenza invisibile dietro l’obiettivo
Nata a New York da madre francese e padre austriaco, Vivian Maier trascorse l’infanzia tra gli Stati Uniti e la Francia, dove affinò la sua sensibilità visiva osservando le strade dei piccoli villaggi alpini e i volti della gente comune. Tornata in America, trovò impiego come tata, un mestiere che le garantiva libertà e anonimato.
Ma dietro quella vita apparentemente modesta si nascondeva una passione ardente: la fotografia. Sempre armata della sua Rolleiflex, Maier scattava compulsivamente tutto ciò che la circondava — bambini, passanti, senzatetto, uomini d’affari, coppie che si abbracciano, anziani dimenticati. La sua arte era discreta, priva di artifici. Scattava dal basso, senza attirare l’attenzione, restando al margine, invisibile ma onnipresente.
Fra gli anni Cinquanta e Novanta, accumulò oltre 150.000 negativi e 3.000 stampe, un archivio sterminato rimasto sconosciuto fino al 2007, quando John Maloof, giovane agente immobiliare, acquistò per pochi dollari alcune scatole di rullini a un’asta fallimentare. Fu l’inizio di una scoperta che avrebbe cambiato per sempre la storia della fotografia. Maloof ne divenne il curatore e divulgatore, fino a realizzare con Charlie Siskel il documentario “Finding Vivian Maier” (2014), candidato all’Oscar e accolto con entusiasmo in tutto il mondo.

La mostra di Roma: un viaggio nella vita segreta di Vivian Maier
Curata da Anne Morin, massima studiosa dell’artista, la mostra romana — prodotta da Arthemisia in collaborazione con diChroma photography e Vertigo Syndrome — ricostruisce per la prima volta in Italia il percorso umano e creativo di Maier, articolandolo in sette sezioni tematiche.
Nella prima, L’America del dopoguerra e la facciata del sogno americano, le sue immagini raccontano chi vive ai margini della prosperità: disoccupati, lavoratori precari, donne affaticate, senzatetto. Scatti rubati, mai compassionevoli ma lucidi e profondi, che smascherano la retorica della felicità americana.
La seconda sezione, Il Super 8 e la trama umana degli spazi metropolitani, esplora il suo uso pionieristico del linguaggio cinematografico. Negli anni Sessanta, Maier alternava la fotocamera alla cinepresa Super 8, realizzando filmati che anticipano un certo realismo urbano poi caro a cineasti come Cassavetes o Wiseman.
Segue Tutti i colori della straordinaria vita ordinaria, in cui la fotografa sperimenta con il colore attraverso una Leica 35 mm. I toni saturi, spesso ambientati nei quartieri popolari di Chicago, restituiscono un’America vibrante e malinconica: il “Blues” visivo di un Paese che vive la modernità tra contrasti sociali e sogni infranti.
Con L’astratto visto da vicino emerge una Maier inedita, capace di trasformare oggetti comuni in visioni poetiche, avvicinando la sua ricerca alle sperimentazioni formali di artisti come Minor White o Aaron Siskind.
La sezione Vivian sono io raccoglie invece i celebri autoritratti: riflessi in vetrine, ombre, frammenti di sé catturati nello scorrere del mondo. In anticipo di decenni sulla cultura del selfie, Maier costruisce un autoritratto frammentato, enigmatico e profondamente moderno.
Lo sguardo che non giudica
Le ultime sezioni riportano il visitatore nelle strade che furono il suo teatro naturale. In Uno sguardo ravvicinato e sincero su un’epoca passata, Maier osserva con empatia il quotidiano di New York e Chicago, soffermandosi sulle donne, sugli anziani, sulle famiglie dei quartieri popolari. Le sue fotografie non cercano la posa ma l’autenticità dell’attimo, il momento in cui la realtà si rivela senza difese.
Infine, Bambini nel tempo chiude il percorso con una delle tematiche più intime della sua vita. I bambini che accudiva diventano soggetti privilegiati dei suoi scatti: giochi, sguardi, smorfie e lacrime raccontano l’infanzia nella sua purezza e fragilità. Forse, in quei volti, Maier ritrovava una parte di sé, la libertà e la curiosità che aveva custodito dietro l’apparente riserbo.
Eredità di un enigma
Vivian Maier resta una figura irriducibile: un’artista che non cercò mai la fama e che proprio per questo divenne un’icona della fotografia contemporanea. Il suo sguardo, al tempo stesso distaccato e compassionevole, restituisce dignità agli invisibili, rivelando la grandezza della vita quotidiana.
Come ha scritto Anne Morin, “non c’è distanza tra lei e il mondo: Vivian Maier fotografa per comprendere, non per giudicare”.
Il catalogo ufficiale, edito da Moebius in collaborazione con la Réunion des musées nationaux – Grand Palais e il Musée du Luxembourg, accompagna una mostra che è anche un tributo all’arte di guardare.
Un’arte che Vivian Maier esercitò per tutta la vita, in silenzio, con una lucidità che solo oggi il mondo ha imparato a riconoscere.
Il mistero dei rullini ritrovati
L’incredibile scoperta dell’opera di Vivian Maier avvenne quasi per caso, nel 2007, quando un giovane agente immobiliare di Chicago, John Maloof, acquistò a un’asta fallimentare alcune scatole di negativi appartenenti a una misteriosa “Miss Maier”.
All’interno trovò migliaia di rullini mai sviluppati, stampe, lettere, ricevute, biglietti, oggetti personali. Incuriosito, Maloof iniziò a indagare sull’identità della donna e rimase colpito dalla qualità sorprendente delle fotografie: composizione impeccabile, luce sapientemente dosata, sguardo empatico ma mai invadente.
Scoprì così una vita rimasta ai margini, quella di una tata che aveva trascorso gli anni lavorando presso famiglie benestanti di Chicago, scattando instancabilmente nei ritagli di tempo.
Dopo aver digitalizzato e catalogato il materiale, Maloof diede vita a un vasto progetto di valorizzazione dell’archivio, aprendo il sito vivianmaier.com e promuovendo una serie di mostre internazionali che resero il nome di Maier celebre in tutto il mondo.
Il culmine di questo lavoro fu il documentario “Finding Vivian Maier” (2014), diretto dallo stesso Maloof insieme a Charlie Siskel, nominato all’Oscar come miglior documentario. Il film ricostruisce la doppia vita della fotografa, intrecciando testimonianze dei bambini ormai adulti che aveva accudito, amici, collezionisti e critici d’arte.
Da allora, la fama di Vivian Maier è cresciuta vertiginosamente: le sue opere sono entrate nelle collezioni dei maggiori musei, tra cui il MoMA di New York, la National Gallery of Art di Washington e il Musée du Luxembourg di Parigi.
Il suo sguardo — ironico, tenero e impietoso al tempo stesso — continua a interrogarci, ricordandoci che anche l’anonimato può essere una forma di libertà, e che la verità della vita quotidiana è, spesso, la più profonda forma d’arte.
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