La sua opera induce tanto fascinazione quanto critica

Nata a Genova nel 1969, l’artista italo-americana Vanessa Beecroft ha costruito una pratica performativa radicale incentrata sul corpo, sullo sguardo e sulla rappresentazione. Tra allestimenti estenuanti di modelli, richiami pittorici e contaminazioni con moda e cultura pop, la sua opera induce tanto fascinazione quanto critica.

Origini, formazione e primi passi

Vanessa Beecroft nasce il 25 aprile 1969 a Genova da madre italiana e padre britannico. Ha trascorso parte dell’infanzia a Santa Margherita Ligure e Malcesine sul Lago di Garda. Dopo il liceo artistico a Genova, si trasferisce a Milano dove frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera (1988-93) studiando scenografia.
In quegli anni comincia a confrontarsi con il corpo, la disciplina fisica e la rappresentazione: la sua famiglia viveva in un contesto rigoroso, con alimentazione stretta e rinunce, e la stessa artista dichiara di aver lottato con disturbi alimentari.
Nel 1996 si trasferisce negli Stati Uniti, dando avvio a una carriera internazionale che la porterà a stabilirsi a Los Angeles.

L’architettura della performance: il sistema “VB”

Fin dai primi anni Novanta, Beecroft adotta un preciso schema numerico per le sue performance: ciascuna recava l’iniziale “VB” seguita da un numero (VB01, VB02…), fino a oltre cinquantacinque produzioni documentate.
Il dispositivo è sostanzialmente semplice e rigoroso: modelli—sovente giovani donne slanciate, in posa immobile, a volte nude o in biancheria o uniformi minimaliste—occupano lo spazio nella galleria o museo secondo regole severe: immobilità, distanza dallo spettatore, silenzio, altezza, formato estetico.
Esempi emblematici:

  • VB35 (1998) al Solomon R. Guggenheim Museum di New York: venti donne, alcune nude, poste in cerchio in relazione all’architettura del museo.
  • VB45 (2001), alla Vienna Kunsthalle: 45 ragazze nude eccetto per stivali alti neri.
  • VB65 (2009), al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano: un “Ultima Cena” con venti uomini immigrati africani in abito formale, senza scarpe, mangiando pane e bevendo acqua.

Questa pratica mette in gioco la relazione tra corpo, spazio, sguardo e tempo: la durata della performance, la fissità dei corpi, la distanza dello spettatore. L’artista agisce come regista dell’immagine vivente, più che come protagonista.

Tematiche: corpo, sguardo, disciplina

Le opere di Beecroft raccolgono costanti tematiche: la disciplina fisica (i modelli devono regole ferree), la moda e il corpo come soggetto-immagine, il voyeurismo e la potenza dello sguardo spettatore.
Nelle parole della stessa artista: “There was always this obsession of female representation in me … I was very conscious of the fact that I was only interested in girls and women in terms of representation.”

Questo rende evidente quanto la riflessione sulla figura femminile non sia superficiale ma centrale: nelle sue performance il corpo femminile è allo stesso tempo soggetto e oggetto, messa in scena e messa a vista. L’artista sceglie corpi “simili a sé” o corpi che rispondano a uno standard estetico (altezza, magrezza, uniformità), provocando così anche riflessioni critiche su stereotipi, bellezza e controllo sociale.

Inoltre, Beecroft inserisce richiami alla storia dell’arte, alla pittura classica, al minimalismo: la stabilità della posa e l’apparente atemporalità rimandano al tableau vivant e alle immagini sacre – ribaltate, rielaborate, rese contemporanee.

Evoluzione: verso razza, moda e contaminazioni mediali

Con il passare degli anni, la pratica di Beecroft muta e si amplia. Si sposta da un’ossessione per il corpo femminile nella sua dimensione estetica a interrogazioni più complesse di razza, disuguaglianze, alterità. Ad esempio VB51 (2002) coinvolge trentotto donne sudanesi con la pelle dipinta, distese a faccia in giù a terra, evocando il genocidio in Darfur.
Parallelamente l’artista entra in contatto con il mondo della moda e della cultura pop: fin dagli anni Novanta collabora con brand, case di moda e realizza performance che incorporano elementi di sfilata, di scena, di immagine commerciale.
Particolarmente rilevante è la collaborazione con Kanye West (dal 2008 in poi), per ascolti-performance, tour, video musicali, presentazioni moda (ad esempio la linea Yeezy), dove Beecroft partecipa come regista e designer visiva.
Questa evoluzione rende la sua arte ponte tra galleria e cultura di massa, ma solleva anche tensioni critiche: fino a che punto il corpo immagine è strumento critico o elemento complice dell’estetica commerciale?

Recepzione e controversie

Il lavoro di Beecroft ha raccolto ampi consensi per la sua originalità e incisività: è stata esposta in molte delle più prestigiose sedi internazionali d’arte contemporanea.
Tuttavia, non sono mancate le critiche. Alcuni commentatori sottolineano come l’uso di corpi femminili giovanili, snelli e uniformati possa finire per reiterare gli stessi modelli estetici che l’artista dichiara voler mettere in discussione.
Altri contestano le implicazioni etiche di produzioni che coinvolgono modelli vulnerabili o soggetti in contesti di disparità, come la vicenda documentata nel film The Art Star and the Sudanese Twins (2008), che racconta il tentativo di Beecroft di adottare due gemelli sudanesi nell’ambito della propria opera.
In questi termini, l’opera di Beecroft diventa terreno di discussione non solo estetico ma etico: la compresenza di critica della rappresentazione e cooptazione del corpo-merce è parte integrante della sua ambigua potenza.

Significato e valore nel contesto contemporaneo

La pratica di Vanessa Beecroft pone in luce alcune nodi centrali della cultura visiva contemporanea: la riduzione del corpo a immagine, la responsabilità dello sguardo, la tensione tra controllo e libertà, la fluidità tra arte e spettacolo. In un’epoca in cui il corpo è costantemente mediato, profilato, esposto, le sue performance offrono uno specchio crudo e controllato della società.
Allo stesso tempo, il suo coinvolgimento con la moda e l’entertainment testimonia un attraversamento tra le cosiddette “alte” pratiche artistiche e i circuiti mainstream, mettendo in discussione l’autonomia dell’arte e la purezza del gesto critico.
Nel mercato dell’arte e nella storia della performance, Beecroft è oggi un nome-chiave per comprendere come il corpo, l’immagine e lo spazio performativo si siano trasformati nella seconda metà del Novecento e oltre.

Conclusione

Vanessa Beecroft resta un’artista capace di provocare e interrogare: le sue scene immote di corpi in posa non sono semplici provocazioni estetiche, ma richiami visivi che obbligano lo spettatore a riflettere sul proprio ruolo di guardante, sul rapporto tra bellezza e potere, tra immagine e soggetto. Anche quando la critica la mette in discussione per modalità estetiche, è proprio questa ambiguità che ne fa un soggetto fertile per la riflessione contemporanea. Nell’epoca del corpo-immagine globalizzato e della performance permanente, l’opera di Beecroft si pone come testimone attento e inquietante.


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