PER INIZIARE, permettete un ricordo
A Roma ogni mattina l’autobus mi sbarcava a Piazza di Spagna, dalla quale imboccavo via dei Condotti per raggiungere la sede distaccata della facoltà di architettura in Piazza Fontanella Borghese. Qualche volta sostavo a fare colazione all’Antico Caffè Greco. Fondato nel 1760, è noto per avere ospitato tanti fra gli artisti più prestigiosi che la letteratura ricordi: Lord Byron, Henrik Ibsen, Percy Shelley, Hans Christian Andersen, John Keats, Goethe, Schopenhauer.
I caffè erano, per il tempo, i nuovi spazi pubblici della socialità, espressa fino ad allora nei riservati ed elitari salotti privati dell’aristocrazia. Qui si davano appuntamento letterati e artisti. Tra specchi, stucchi e arredi neoclassici, tra un caffè e un pasticcino, si elaboravano idee innovative o se ne trasformavano di antiche.
Sergio Bertolami
Seduto al tavolino di questo particolare caffè letterario, quale sarà Entasis Caffè, propongo un testo portato avanti da me con grande concentrazione, ma ancora suscettibile di cambiamenti e integrazioni. È il profilo in divenire di Édouard Manet, da condividere con chi è spinto dal desiderio di comprendere più da vicino il declino dell’Accademia, la crisi dei Salon, la nascita dell’Impressionismo. A ben considerare, la documentazione da me raccolta varrebbe setacciarla ulteriormente, mentre il libro va evolvendosi ad ogni respiro di pagina. Vi si può leggere come Antonin Proust, Edmond Bazire, Théodore Duret, Émile Zola, e tanti altri, ricordavano lo straordinario Édouard Manet, pittore della vita moderna, anticipatore della nuova pittura, che pur sempre restò riconoscente ai grandi maestri del passato.
Notizie tratte in particolare da un centinaio di volumi in lingua francese, pubblicati nel corso della sua esistenza o negli anni immediati alla scomparsa. I titoli sono segnati nelle note bibliografiche e di testo, che compaiono nel file originale, ma senz’altro non inserirò in queste pagine di Entasis Caffè, pensate come agili e sciolte. Una selezione di testi che crescerà, perché scaturiranno nuove domande, le quali avranno bisogno di trovare gli interlocutori giusti. Preferibilmente, non i critici attuali che si esprimono in sontuosi cataloghi di mostre o in riletture ad effetto. Bensì, ancora una volta, gli amici, i compagni di spizzichi e bevute, per esempio alla brasserie des Martyrs o al café Guerbois. Nel parlare di Manet, questi autori hanno dato vita, senza alcuna soluzione di continuità, a quella che oggi chiamiamo “arte moderna”: l’abbiamo letta da loro e oggi possiamo continuare a disquisirne. (S.B.)
Il giovane Manet raccontato dagli amici
Brani tratti da Sergio Bertolami, Manet et manebit, 2017, Experiences
Una famiglia benestante
«Strana logica delle cose! Édouard Manet, che ha dovuto lottare contro il gusto immobilizzato dei suoi contemporanei, ha iniziato con una lotta contro le ambizioni piccolo borghesi dei suoi genitori». Comincia con questa asserzione la biografia che Edmond Bazire traccia del pittore. Ed è in perfetta sintonia con i fatti, perché Manet, tutt’altro che un rivoluzionario – un irriducibile combattente per la causa, come immagineremmo oggi un rivoluzionario -, nel corso della sua vita si è trovato a lottare, con il pubblico quanto con la critica, per affermare il proprio modo di essere al passo con i tempi, vedere e restituire con la sua pittura la modernità dei suoi anni. Sicché possiamo convintamente dire, con George Moore, che seppure fosse giunto a ottant’anni – anziché solo ai cinquantuno che gli fu dato vivere – non avrebbe mai riscosso del tutto il riconoscimento sperato. «La morte sola poteva compiere il miracolo di aprire gli occhi del pubblico per i suoi meriti. Durante la sua vita la scusa data per la costante persecuzione condotta contro di lui, da parte delle “autorità”, è stata la sua eccessiva originalità». Ma questo non era che mero sotterfugio, continua lo scrittore irlandese, perché ciò che di lui è stato realmente odiato, ciò che lo ha reso così impopolare, è stata la padronanza con la quale sapeva rendere straordinaria qualunque cosa dipingesse, possedendo il dono della qualità. «Essere un precursore – osserva Gilles Néret – non è mai una cosa buona e Manet ne ha provato l’amara esperienza nel corso della sua vita».
Il “milieu”, in cui il giovane Manet sviluppa i suoi convincimenti, era proprio di quella classe conservatrice fiorita e giunta alla supremazia sotto il regno di Luigi Filippo. «Apparteneva a una vecchia famiglia borghese le cui abitudini di spirito s’erano affinate in contatto con la vita di Parigi». La borghesia formava una classe sociale distinta, bene in vista. Solo un anno dopo la scomparsa di Manet, Joris-Karl Huysmans, utilizzando parole anziché colori, ritrae causticamente quella classe borghese che governava le attitudini mentali dell’epoca: «Il borghese, rassicurato, troneggiava gioviale in virtù del suo denaro e della sua contagiosa stupidità. La conseguenza del suo avvento era stato l’annichilimento di ogni intelligenza, la negazione di ogni onestà, la morte di ogni arte […] In pittura, era un diluvio di fiacche scemenze; in letteratura, un abuso di stile piatto e di idee inconsistenti, poiché occorreva onestà all’intrallazzatore d’affari, virtù al filibustiere che dava la caccia a una dote per suo figlio e si rifiutava di donare quella della figlia, amori casti al voltairiano che accusava il clero di stupri e se ne andava a fiutare ipocritamente, stupidamente, senza una vera e propria depravazione, in camere equivoche, l’acqua viscosa dei catini e il tiepido pepe delle sottane sporche». Manet, con un velato senso d’ironia, rivelerà, nel corso della sua intera opera, l’ipocrisia della sua classe d’appartenenza, originando scandali per poi, quasi ingenuamente, meravigliarsene.
Immaginiamo al contrario di tutto ciò – solo per un attimo – se in quell’iniziale scontro fra le pareti domestiche, sulla scelta più opportuna per intraprendere un percorso di vita, si fossero imposti i condizionamenti della famiglia, tanto determinata a contrastare la nascente vocazione per l’arte del giovane Édouard. L’avversione di suo padre, soprattutto, che lo vedeva impegnato in qualche funzione pubblica, meglio se in magistratura, come lo era lui stesso o suo nonno prima di lui, la sua famiglia da circa duecento anni. Ma questa disparità di vedute, fra genitori e figlio, fa parte della storia di tutti i tempi. Rende noto Théodore Duret, amico del pittore, che all’epoca i rampolli delle famiglie eminenti si dedicavano alla professione di avvocato o di magistrato, mirando ad una sempre maggiore elevazione sociale, aspirando a raggiungere il massimo, consistente in un ruolo politico di primo piano nel parlamento nazionale. Le attività di rilievo all’interno dei palazzi di giustizia godevano di un rispetto diffuso. Auguste Manet, giudice nel tribunale della Senna, «personificava tutte le peculiarità della sua classe, la borghesia, e nella sua classe, il suo mondo speciale, la magistratura».
In questo clima di personale affermazione di una tipica famiglia benestante dell’alta borghesia, viene alla luce Édouard Manet, a Parigi, lunedì 23 gennaio del 1832, in un palazzo signorile al civico 5 di rue Petits Augustins, l’odierna rue Bonaparte. Il 2 febbraio sarà battezzato nella medievale chiesa di Saint Germain-des-Prés. Suo padre Auguste, all’epoca capo del personale del Ministero della Giustizia, che si fregiava dell’onorificenza di cavaliere dell’ordine della Legion d’Onore, ha sposato quasi esattamente un anno prima della nascita, il 18 gennaio del 1831, la ventenne Eugénie Désirée Fournier, più giovane di quattordici anni, figlia di un diplomatico di corte e, nientemeno, figlioccia del re di Svezia, salito al trono come Carlo XIV.