La Cafetière: Conte fantastique, In: Le Cabinet de lecture del 4 maggio 1831
(Testo originale in lingua francese su Biblioteca Nazionale di Francia

Caffettiera servizio Dresda
Caffettiera in porcellana, fondo blu scuro chiamato bleu lapis con rifiniture e decorazioni dorate. Al centro riproduzione di una scena galante sul fronte e un mazzo di fiori sul retro ispirati alla pittura francese del Settecento. Beccuccio e manico dorati.

Ho visto sotto cupi veli
undici stelle
la luna e anche il sole
che mi facevano la riverenza in silenzio
finché è durato il sonno

(La visione di Giuseppe)

L’anno scorso, insieme a due compagni con i quali condividevo lo studio, Arrigo Cohic e Pedrino Borgnioli, fui invitato a passare qualche giorno in una proprietà nel cuore della Normandia. Il tempo, che al momento della partenza prometteva di essere splendido, all’improvviso pensò bene di cambiare, e piovve talmente che i sentieri infossati dove camminavamo erano come il letto di un torrente. Sprofondavamo nella melma fino al ginocchio, uno spesso strato di terra grassa si era attaccato alla suola dei nostri stivali, e il suo peso rallentava a tal punto i nostri passi che arrivammo a destinazione un’ora dopo il tramonto.
 
Eravamo esausti, tanto che il nostro ospite nel vedere gli sforzi che facevamo per soffocare gli sbadigli e tenere gli occhi aperti, appena cenato ci fece accomodare nelle nostre camere.
Quando entrai nella mia, che era molto grande, sentii come un brivido di febbre, perché mi parve di penetrare in un mondo nuovo. Effettivamente pareva quasi di essere tornati ai tempi della Reggenza, a giudicare dalle sovrapporte di Boucher raffiguranti le quattro stagioni, i mobili sovraccarichi di decorazioni rococò di pessimo gusto e le specchiere pesantemente scolpite.
Nulla era stato toccato. La toeletta, su cui erano posati porta pettini e piumini per la cipria, sembrava che fosse servita il giorno prima. Due o tre abiti di colori cangianti e un ventaglio punteggiato di lustrini d’argento erano disseminati sul lucido parquet, e con mio grande stupore sul caminetto c’era una tabacchiera di tartaruga, aperta, piena di tabacco ancora fresco.
Notai queste cose solo dopo che il domestico ebbe posato il candeliere sul comodino e augurato la buona notte. Confesso che cominciai a tremare come una foglia. Mi spogliai rapidamente, m’infilai a letto e per farla finita con quegli sciocchi terrori, chiusi subito gli occhi voltandomi verso il muro.
Ma non mi fu possibile restare in quella posizione: il letto si agitava sotto di me come un’onda, le palpebre mi si riaprivano irresistibilmente. Fui costretto a girarmi e a guardare.
Il fuoco del caminetto proiettava nella stanza riflessi rossastri, tanto che si potevano distinguere facilmente i personaggi degli arazzi e i volti dei ritratti appesi alle pareti e anneriti dal fumo.
Erano gli antenati del nostro ospite, cavalieri bardati di ferro, consiglieri imparruccati e belle dame dal viso imbellettato e i capelli incipriati, che tenevano una rosa in mano.
 
All’improvviso le fiamme si misero a divampare con strana violenza; un livido bagliore illuminò la camera e io vidi distintamente che quelli che avevo scambiato per meri dipinti erano personaggi reali: le loro pupille si muovevano scintillando in modo singolare, le loro labbra si aprivano e si chiudevano come se stessero parlando, anche se io sentivo solo il tic-tac della pendola e il sibilare del vento autunnale.
Un invincibile terrore s’impadronì di me: i capelli mi si drizzarono in testa, i denti mi sbatterono violentemente, un sudore freddo m’inondò da capo a piedi.
La pendola batté le undici. La vibrazione dell’ultimo rintocco echeggiò a lungo, e quando si fu spenta del tutto…
 
Oh, no! Non oso dire quello che accadde. Oltre a non essere creduto, verrei preso per un pazzo.
Le candele si accesero da sole; il mantice, senza essere azionato da nessun essere visibile, si mise a soffiare sul fuoco ansimando come un vecchio asmatico, mentre le molle attizzavano le braci e la paletta raccoglieva la cenere.
Dopo di che una caffettiera si buttò giù dal tavolo su cui era posata e si diresse zoppicando verso il fuoco dove andò a piazzarsi tra i tizzoni.
Qualche attimo dopo cominciarono a muoversi le poltrone che agitando in maniera stupefacente le gambe a torciglioni andarono a sistemarsi intorno al caminetto.
 
II
Non sapevo che cosa pensare di quello che stavo vedendo, ma quello che vidi dopo fu ancor più straordinario.
Uno dei ritratti, il più antico di tutti, quello di un grosso personaggio paffuto dalla barba grigia, che assomigliava come una goccia d’acqua a quello che per me è sempre stato il vecchio John Falstaff, con grandi smorfie tirò fuori la testa dalla cornice e dopo molti sforzi per far passare anche le spalle e il ventre tondeggiante, cadde pesantemente a terra.
Appena ripreso fiato, tirò fuori dalla tasca del farsetto una chiave incredibilmente piccola, vi soffiò dentro per assicurarsi che il foro fosse ben pulito e l’applicò successivamente a tutte le cornici.
 
E tutte le cornici si allargarono in modo da lasciar passare facilmente le figure che racchiudevano.
Piccoli abati paffuti, vecchie dame pallide e segaligne, magistrati dall’aria severa avvolti in grandi toghe nere, damerini con lucide calze, brache di lana e seta, la punta della spada verso l’alto: lo spettacolo di tutti quei personaggi era così bizzarro che nonostante lo spavento non potei fare a meno di ridere.
I rispettabili signori si sedettero e la caffettiera saltò con leggerezza sul tavolo. Presero il caffè in tazzine giapponesi bianche e blu che accorsero spontaneamente da un secrétaire, munite di una zolletta di zucchero e di un cucchiaino d’argento.
Finito il caffè, tazzine, caffettiera e cucchiaini scomparvero contemporaneamente ed ebbe inizio la conversazione, certamente la più curiosa che abbia mai udito, giacché nel parlare nessuno di questi strani conversatori guardava l’altro: tutti gli occhi erano fissi sulla pendola.
 
Nemmeno io riuscivo a distoglierne lo sguardo e a non seguire la lancetta che impercettibilmente avanzava verso mezzanotte.
Finalmente scoccò la mezzanotte e si sentì una voce dal timbro identico a quello della pendola, che disse:
«È ora, bisogna ballare».
Tutti i presenti si alzarono. Le poltrone arretrarono spontaneamente e a quel punto ogni cavaliere prese la mano di una dama, mentre la stessa voce diceva:
«Orsù, signori dell’orchestra, iniziate!».
 
Ho dimenticato di dire che l’arazzo rappresentava da un lato un concerto italiano e dall’altro una caccia al cervo con diversi valletti che suonavano il corno. Bracchieri e musicisti che fino a quel momento non avevano fatto alcun gesto chinarono il capo in segno di assenso.
Il maestro alzò la bacchetta e ai due lati della sala si levò una melodia vivace e ballabile. Dapprima si danzò il minuetto, ma le rapide note della partitura eseguita dai musicisti mal si accordavano con le profonde riverenze, tanto che, dopo pochi minuti, ogni coppia di ballerini si mise a piroettare come una trottola tedesca. Gli abiti di seta delle donne, fruscianti nel vortice della danza, facevano un rumore particolare che evocava uno stormo di piccioni in volo.
 
L’aria che vi s’ingolfava li gonfiava in maniera tale da farli sembrare campane oscillanti.
L’archetto dei virtuosi passava così rapidamente sulle corde da farne sprizzare scintille elettriche. Le dita dei flautisti si alzavano e si abbassavano quasi fossero state d’argento vivo; le guance dei bracchieri erano gonfie come palloni, con conseguente diluvio di note e di trilli così accelerati e di gamme ascendenti e discendenti così ingarbugliate, così inconcepibili, che neanche i diavoli avrebbero potuto seguire per due minuti un simile ritmo.
Era quindi penoso vedere tutti gli sforzi di quei ballerini per tener dietro alla cadenza: saltavano, facevano capriole, ronds, jetés e entrechats alti tre piedi, sicché il sudore, calando dalla fronte sugli occhi portava via finti nei e belletto. Ma per quanto facessero, l’orchestra era sempre in anticipo di tre o quattro note.
Quando la pendola suonò l’una, si fermarono, e a quel punto notai un particolare che mi era sfuggito: c’era una donna che non ballava.
 
Era seduta in una poltrona accanto al caminetto e sembrava del tutto estranea a ciò che le stava accadendo intorno.
Mai, neanche in sogno, i miei occhi avevano visto qualcosa di così perfetto: una pelle di un candore abbagliante, capelli biondo cenere, lunghe ciglia e pupille azzurre così chiare e trasparenti che attraverso di esse vedevo distintamente la sua anima come un sasso sul fondo di un ruscello.
 
E sentii che se mai mi fosse capitato di amare, non avrei potuto amare che lei. Mi precipitai giù dal letto, dal quale fino a quel momento non ero riuscito a muovermi, e mi diressi verso di lei, spinto da qualcosa che agiva in me senza che fossi in grado di rendermene conto. Mi ritrovai ai suoi ginocchi, una sua mano tra le mie, a conversare con lei come se l’avessi conosciuta da vent’anni.
Ma per un prodigio davvero strano, mentre le parlavo la mia testa oscillava accompagnando la musica che aveva seguitato a suonare, e benché fossi felicissimo di potermi intrattenere con una persona così bella, i miei piedi ardevano dalla voglia di ballare con lei, senza che trovassi il coraggio di proporglielo. Probabilmente lei capì quel che volevo, poiché sollevando verso il quadrante dell’orologio la mano che non tenevo tra le mie, mi disse:
 
«Quando la lancetta sarà su quel punto, vedremo mio caro Théodore».
Non so come fu, ma non restai affatto sorpreso nel sentirmi chiamare per nome e seguitammo a chiacchierare. Finalmente suonò l’ora indicata e nella camera vibrò ancora la voce dal timbro d’argento:
«Angela, può danzare con il signore se le fa piacere, ma lei sa che cosa accadrà».
«Non importa», rispose Angela con tono imbronciato, circondandomi con il suo braccio eburneo.
 
«Prestissimo!», gridò la voce.
Cominciammo allora a ballare il valzer. Il seno della fanciulla toccava il mio petto, la sua guancia vellutata sfiorava la mia e la mia bocca respirava il suo alito soave.
 
In vita mia non avevo mai provato una simile emozione: i nervi mi vibravano come molle d’acciaio, il sangue mi scorreva nelle arterie come un torrente di lava e mi sentivo battere il cuore come un orologio quando lo si accosta all’orecchio. Tuttavia, il mio non era affatto uno stato doloroso. M’inondava una gioia indicibile e sarei voluto rimanere sempre così. La cosa straordinaria era che non dovevamo fare nessuno sforzo per seguire l’orchestra, sebbene avesse triplicato il ritmo. I presenti, stupiti dalla nostra agilità, gridavano «bravi» e applaudivano con tutte le forze, ma le loro mani non emettevano alcun suono.
 
Angela, che fino a quel momento aveva ballato con un’energia e una precisione sorprendenti, di colpo parve stanca; mi pesava sulla spalla come se le gambe le avessero ceduto; i suoi piedini, che un minuto prima sfioravano il pavimento, ora se ne staccavano a fatica quasi fossero trattenuti da una palla di piombo. «Angela, lei è stanca», le dissi, «riposiamoci». «Volentieri», rispose detergendosi la fronte con un fazzoletto. «Ma mentre noi ballavamo, tutti gli altri si sono seduti: non c’è più che una poltrona e noi siamo in due». «Che importa, mio bell’angelo? La prenderò sulle ginocchia».
 
 
III
Senza fare la minima obiezione, Angela si sedette circondandomi con le braccia come fossero una bianca sciarpa, annidando la testa nel mio petto per riscaldarsi un poco, giacché era diventata fredda come il marmo. Non so per quanto tempo restammo in quella posizione, poiché la contemplazione di quella misteriosa e fantastica creatura assorbiva tutti i miei sensi.
Avevo perso la nozione dell’ora e del luogo: il mondo reale per me non esisteva più ed ogni mio legame con esso si era spezzato. La mia anima, liberata dalla sua prigione di fango, si librava nel vago e nell’infinito; capivo ciò che nessun uomo può capire, giacché i pensieri di Angela mi si rivelavano senza che lei avesse bisogno di parlare. L’anima le risplendeva infatti nel corpo come una lampada di alabastro, e i raggi emanati dal suo petto trafiggevano il mio da parte a parte.
 
L’allodola cantò e un pallido chiarore folleggiò sulle tende.
Appena Angela lo scorse si alzò precipitosamente, mi fece un cenno d’addio e dopo qualche passo cadde lunga distesa emettendo un grido. In preda allo spavento mi precipitai per rialzarla… Solo a pensarci mi si agghiaccia il sangue: tutto quel che trovai fu la caffettiera ridotta in mille pezzi.
A quella vista, convinto di essere stato vittima di una qualche diabolica illusione, fui colto da un tale terrore che svenni.
 
 
IV
Quando ripresi conoscenza ero nel mio letto e accanto a me c’erano Arrigo Cohic e Pedrino Borgnioli.
Appena ebbi aperto gli occhi, Arrigo esclamò: «Era tempo! È quasi un’ora che ti sto sfregando le tempie con l’acqua di Colonia. Che diavolo hai fatto stanotte? Stamani, vedendo che non scendevi, sono entrato in camera tua e ti ho trovato lungo disteso per terra in abito di gala, che stringevi tra le braccia un pezzo di porcellana rotta come se fosse stata una bella fanciulla».
«Perdio! È l’abito di nozze di mio nonno», disse l’altro sollevando una delle falde di seta rosa arabescata di verde.
 
«Ecco i bottoni di strass e di filigrana che ci vantava tanto. Théodore l’avrà scovato da qualche parte e se lo sarà messo per divertirsi. Ma perché poi ti sei sentito male?», soggiunse Borgnioli. «È una cosa prevedibile in un’amichetta dalle spalle bianche: le si slaccia il corsetto, le si tolgono le collane, la sciarpa, ed ecco una bella occasione per fare un po’ di scena».
«È stato solo un mancamento, a volte mi capita», risposi asciutto.
Mi alzai e mi tolsi il ridicolo abbigliamento. Poi andammo a pranzo.
I miei compagni mangiarono molto e bevvero anche di più. Io invece non toccai quasi cibo, distratto dal ricordo delle strane cose che erano accadute.
 
Finito il pranzo, visto che pioveva a dirotto non potemmo uscire e ciascuno si occupò come poté. Borgnioli tamburellò marce guerriere sui vetri; Arrigo e l’ospite fecero una partita a dama, mentre io tirai fuori dal mio album un foglio di carta velina e mi misi a disegnare.
Le linee quasi impercettibili tracciate senza intenzione dalla mia matita finirono col rappresentare in modo mirabilmente preciso la caffettiera che aveva avuto una parte così importante nelle scene della notte.
«È incredibile come questa testa assomigli a mia sorella Angela», disse l’ospite che dopo aver terminato la partita si era messo alle mie spalle e mi guardava disegnare.
In effetti, quella che poco prima mi era sembrata una caffettiera era in realtà il profilo dolce e malinconico di Angela.
 
«Per tutti i santi del Paradiso! È morta o viva?» esclamai con voce tremante, come se la mia vita fosse dipesa dalla sua risposta.
«È morta due anni fa di una congestione polmonare, dopo una festa da ballo».
«Ahimè!», risposi dolorosamente. E trattenendo una lacrima, rimisi il foglio nell’album.
Avevo capito che per me non ci sarebbe più stata felicità sulla terra.