
Se i tempi non cambiassero mai
di Gio Bonaventura
In ascensore Lilli mi guarda con uno strano sorriso, anzi mi guarda con aria di sfottò, per dirla meglio. Afferro solo fuori dell’albergo, quando muovo in direzione del centro di Courbevoie, mentre lei mi prende sottobraccio dicendo: «Davvero vuoi andare in quel ristorante normanno, dopo il pranzo di oggi?». Non ha tutti i torti: la trippa alla moda di Caen è ottima, ma forse è un po’ pesante stasera. Rimango nel dubbio, perché in camera ho appena finito di leggere un passo di Prosper Montagné dal suo Larousse gastronomique: «Nell’antica Cadomun (Caen) nacque un genio culinario, emulo di Taillevent e precursore di Carême: Benoît, il grande Benoît, che, all’insipidità di un piatto medievale, sostituì intelligentemente quello che è l’anima della cucina, un ingrediente, un condimento calcolato e ragionato». Quale era l’ingrediente? Il sidro, ottenuto dalla fermentazione alcolica delle mele. E la sua trovata? Bollire la trippa direttamente nel sidro. Buon Sidoine Benoît.
Lilli scoppia in una sonora risata e contagia anche me. Come alternativa plausibile al monaco Benoît mi propone di salire a piedi all’Esplanade de Gaulle e magari spingerci fino alla Grande Arche. C’è troppo freddo per fare due passi, così finiamo in un locale a stuzzicare finger food, quiche e pâté vari, accompagnati da un gin dal “saveur incomparable de concombre”, di cetriolo. Diversamente da Lilli, per me preferisco l’intramontabile Martini secco, con una sola oliva. «Oggi hai parlato di arti e mestieri» dice lei. Ho accennato, in verità, al movimento Arts and Crafts, rispondo.
Arts and Crafts è diventato quasi un logo col quale identificare una tendenza artistica di fine Ottocento, che ai miei occhi è sempre apparsa come il desiderio nascosto che i tempi non cambiassero mai. Non è un’idea peregrina, purtroppo è realisticamente improponibile, perché i tempi cambiano anche se non ce ne accorgiamo.
Il movimento Arts and Crafts credeva che il bello potesse essere accessibile e ogni oggetto racchiudere un valore. In un’epoca come la nostra, la riflessione proposta da Ruskin e Morris si impone con una forza sorprendentemente attuale. Eppure, si manifesta nella seconda metà del XIX secolo, in un’Inghilterra trasformata a fondo dalla rivoluzione industriale. Qui un gruppo ristretto di pensatori, artisti e artigiani ha dato vita a un movimento in aperta opposizione alla produzione di serie e all’estetica del mercato industriale. Pensavano che occorresse restituire dignità, bellezza e significato all’artigianato. Una visione del lavoro che attraversò la Manica e si diffuse in tutta Europa. Esattamente negli anni che interessano la nostra storia, intendo quella della casa di Creil e delle vicende successive alla sua costruzione.
In verità l’idea nasce qualche anno prima del 1869, quando Émile comincia a lavorare sulla casa. L’occasione che rese evidente l’urgenza di una reazione fu l’Esposizione Universale di Londra del 1851. I manufatti presentati, prodotti in larga parte grazie ai nuovi processi industriali, rivelavano una qualità mediocre e un’estetica sciatta, frutto di un sistema che privilegiava la quantità. A denunciare il declino fu, tra i primi, John Ruskin: teorico dell’arte e pensatore molto ascoltato. Il problema è che – a differenza di altri più concilianti e sicuramente più realisti, ad esempio Henry Cole – John Ruskin si impose come il profeta di un ritorno a un’organizzazione del lavoro ispirata all’età medievale, che egli considerava epoca di equilibrio tra etica e creatività, tra qualità e comunità.
A concretizzare le suggestioni di Ruskin fu William Morris, figura chiave del movimento Arts and Crafts. Scrittore, creativo, più di tutto imprenditore e attivista politico – vicino alle idee elaborate da Marx – Morris si pose l’obiettivo ambizioso di riportare l’arte al centro della vita quotidiana. Immaginò una società in cui ogni oggetto prodotto fosse espressione della vivacità del fare e non del profitto. La sua battaglia contro l’eclettismo dell’industria e contro le attività economiche, che privilegiavano l’interesse commerciale al di sopra di ogni altro valore o circostanza, lo portò a proporre un’alternativa del tutto radicale. L’artigianato collettivo doveva tralasciare la meccanizzazione in atto e ispirarsi in tutto e per tutto alle antiche corporazioni medievali.
Non si trattava soltanto di riprodurre gli stili del passato, di rivalutare l’attività manuale, ma di recuperare un’etica del lavoro in cui il bello e l’utile coincidessero, e dove ogni opera fosse frutto di consapevolezza e sapere condiviso. Il concetto di joy in labour ovvero di gioia nel lavoro – elaborato da Ruskin e fatto proprio da Morris – divenne centrale in questa visione del mondo. Il lavoro, secondo questa prospettiva, non doveva essere solo un mezzo di sussistenza, ma una fonte di soddisfazione personale e collettiva. Una società sana, sostenevano Ruskin e Morris, si riconosce anche nella qualità dei suoi oggetti quotidiani. Di qui l’urgenza di restituire all’artigianato un ruolo centrale e nobile: non come arte minore, ma come attività culturale e sociale, capace di coinvolgere tanto i creatori quanto i consumatori.
Non a caso, attorno a Morris si formarono collettivi, botteghe, manifatture, spesso organizzate secondo il modello delle antiche Gilde, che oggi chiamiamo Corporazioni. La conseguenza positiva fu che il movimento, pur restando entro certi limiti elitario, pose le basi per una riflessione moderna sull’arte applicata. Anche se l’originaria diffidenza verso la macchina venne col tempo mitigata, soprattutto oltreoceano, il movimento non superò mai del tutto i confini di una produzione di nicchia. Tali prodotti furono spesso destinati a un pubblico colto e benestante. Un po’ come quelli che oggigiorno fanno parte del cosiddetto “lusso accessibile”.
Da progettista devo dirti, però, che uno degli effetti più tangibili dell’influenza di Morris fu il fatto che molti giovani artisti e architetti, un tempo attratti solo dalle cosiddette arti maggiori come dettavano le istituzioni pubbliche – a Parigi l’École nationale supérieure des beaux-arts – iniziarono a dedicarsi alle arti decorative e al disegno di prodotti industriali. Quello che per decenni era stato considerato un ambito minore, divenne così terreno di sperimentazione nobile e necessario.
«Per questo motivo, stamattina, mi hai risposto che l’Accademia aveva il fiato corto?». Vedo che Lilli mi segue, anche quando io penso di averla terribilmente annoiata. Esattamente, ho risposto. E in tutto ciò Morris fu non solo un innovatore estetico, ma anche un anticipatore delle moderne teorie. Come abbia fatto non credo che lui stesso se ne sia accorto, ma ci sta.
I movimenti artistici sono come un treno fermo alla stazione. I vagoni, pronti a partire, si muoveranno in una direzione o in quella opposta. Noi sappiamo come sono andate le cose, a posteriori, ma quando vivi ed operi non è così. Con certezza, nessuno all’epoca conosceva la direzione giusta verso cui si sarebbe mosso quel treno. Non sapeva Ruskin e non lo sapeva Morris. Meno che mai Émile – per rimanere ancorati alla nostra casa di Creil – tanto interessato allo stile gotico medievale, quello che sui libri trovi definito come neo-gotico, in opposizione allo stile neo-classico, che il fascino dei nuovi scavi di Pompei stavano trasformando in stile nazionale per eccellenza.
Maison de campagne – 9
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