Il cielo è nuvoloso e a tratti piove. Sarà per il tempo o per qualche drink di troppo, ieri sera, il fatto è che mi sento fuori fase, come se avessi il Jack leg. I programmi sono cambiati. Non andremo a Creil stamattina. Lilli e Anaïs saranno in giro per negozi, al riparo da improvvisi acquazzoni. Io mi incontro con Eulalie e Alizée al loro studio. Abbiamo deciso di fare il punto. Al tassista chiedo di portarmi in Rue du Faubourg Saint-Antoine, poco distante da Place de la Nation, «dove troneggia la Marianne di Aimé-Jules Dalou». Ma le parole mi rimangono in mente, perché l’autista, impegnato nel traffico, risponde scanzonato: «Dove tagliavano le teste durante la rivoluzione». Mi ha lasciato esattamente davanti al portone. Non un passo di più.

Quello che mi ha colpito, salendo al piano, è stato il contrasto tra il rosso foncé del lungo tappeto d’ingresso, la brillantezza del passamano in ottone e il bianco marezzato delle pareti ornate da modanature a stucco. Mi accolgono sorridenti, Eulalie e Alizée. Tutto è in perfetto ordine. Uno studio di architettura ha sempre un’aria un po’ particolare, occorre vedere in cosa consista quel particolare. Non certo l’enorme pianta verde in un cachepot di porcellana sul pianerottolo all’entrata.

«Perché non ti siedi? Cosa vuoi bere?». Accetto un bicchiere d’acqua, ci tengo a tenere sotto controllo zuccheri e colesterolo. «Evian? Perrier?». Perrier, grazie. «Siediti in questa poltrona». Dalla sua morbidezza tutto l’ambiente, oltremodo sofisticato, mi è sembrato soffice, come se ogni cosa fosse imbottita. Quella che, però, al primo sguardo mi ha fatto più impressione – e che non potevo evitare di notare – è stata una grande vetrata colorata che mi ha richiamato il “Red, Blue and Yellow” di Mondrian. «No, per la vetrata ci siamo ispirate al Pavillon Le Corbusier sul lago di Zurigo, l’ultima grande opera realizzata». Non c’è che dire come inizio di conversazione.

Adesso le ragazze attendono che cominci a parlare e io non mi sottraggo affatto. Ogni volta che entro nella casa di Creil sono colpito dal silenzio. Esordisco così. Il silenzio – proseguo – occorre avere il coraggio di ascoltarlo. È come il buio: stai fermo un attimo e solo allora cominci a intravedere il profilo delle cose. All’inizio sono linee accennate, oggetti dai contorni rarefatti. Proprio Corbù parlava del suo dialogo con le pietre mute. Guardava le forme e percepiva parole. L’architettura di Creil, a ben guardare, ci racconta un sogno. Senz’altro quello d’amore tra Émile e Vivienne; ma noi, che ci occupiamo di architettura, siamo chiamati a vedere in che modo Emile ha raccontato quel sogno, perché, dopotutto, il primo atto dell’architettura è mettere una pietra sul terreno. I libri di Storia dell’architettura ci riferiscono di come ogni progettista abbia tentato d’interpretare l’originalità del proprio tempo. La fonte di ispirazione di Émile, questi libri la chiamano neogotico, frutto di un eclettismo storicista che stamattina vi invito a esaminare con me.

In Francia, il risveglio del gotico fu un lento riemergere dopo un lungo oblio. Mentre in Inghilterra il revival neogotico aveva iniziato a prendere forma già dal secolo precedente, attraversando l’Ottocento come uno dei movimenti culturali e artistici più significativi, in terra francese fu necessario attendere la fine delle guerre napoleoniche affinché un simile impulso potesse germogliare. Sul piano culturale, Napoleone Io aveva imposto una visione estetica improntata al rigore e alla monumentalità del neoclassicismo, idealmente incarnata nello Stile Impero concepito dai due architetti Charles Percier e Pierre-François-Léonard Fontaine. Lo sapete bene e meglio di me. In questo contesto, ogni nostalgia medievale risultava fuori luogo, se non anacronistica.

Fu solo con la Restaurazione che la Francia poté volgere nuovamente lo sguardo al proprio passato. Un’intera generazione di giovani architetti, formatisi in quegli anni, riscoprì con crescente interesse l’architettura del medioevo francese, in particolare l’architettura fiorita nel XII secolo, tra abbazie cistercensi e cattedrali che innalzavano lodi e preghiere verso Dio. Tra i primi a muoversi in questa direzione vi fu Jean-Baptiste Antoine Lassus, figura chiave di questo rinascimento medievaleggiante. Architetto e teorico, Lassus dedicò a tale arte studi, rilievi e restauri, sempre improntati a un atteggiamento di rispetto e valorizzazione. Accanto a lui, e ben presto destinato a oscurarne la fama, si impose Eugène Viollet-le-Duc, genio controverso e figura centrale della stagione neogotica francese.

Viollet-le-Duc non fu soltanto un restauratore, ma un autentico interprete dell’architettura medievale. Osservatore infaticabile, dotato di un acume analitico straordinario, si dedicò con passione allo studio delle strutture gotiche, cercando di decifrarne i segreti e di comprenderne le logiche costruttive. Era convinto che ogni monumento potesse essere riportato alla sua “verità” architettonica grazie a uno studio rigoroso e a una progettazione coerente. Non starò qui a parlare di come il suo metodo suscitò non poche polemiche. I detrattori – non occorre dilungarmi – lo accusarono di travisare la storia, di reinventarla anziché preservarla, trasformando i suoi restauri in opere di fantasia.

Tuttavia, l’impronta lasciata da Viollet-le-Duc sulla Francia dell’Ottocento fu profonda e duratura. A lui si devono interventi fondamentali su alcuni dei principali monumenti del patrimonio nazionale: la cattedrale di Notre-Dame de Paris, la Sainte-Chapelle, la città fortificata di Carcassonne. Fu soprattutto nel castello di Pierrefonds, restaurato a partire dal 1857, che il suo metodo trovò l’espressione più compiuta e, in un certo senso, più didattica. Qui, più che altrove, l’edificio divenne un manifesto della sua visione: un esempio “pedagogico” di architettura gotica, che mescolava rigore filologico ed estro creativo.

Per lungo tempo si è creduto che la tendenza a idealizzare un’epoca fatta di archi a sesto acuto, contrafforti, torri merlate, bifore e trifore, fosse da attribuire principalmente all’influenza di Eugène Viollet-le-Duc. La realtà, come spesso accade, è più sfumata e complessa. Viollet-le-Duc ha indubbiamente lasciato un’impronta indelebile, ciò nonostante, se si osserva il panorama dei castelli neogotici costruiti ex novo nel corso dell’Ottocento, si scopre che il suo contributo diretto è sorprendentemente limitato. In tutta la sua carriera, Viollet-le-Duc ha infatti progettato soltanto cinque castelli, disseminati in diverse regioni della Francia. Un numero esiguo, se rapportato all’enorme diffusione del gusto gotico nell’architettura aristocratica e borghese dell’epoca.

L’esempio più compiuto e rappresentativo della sua visione architettonica è il castello di Roquetaillade, situato nel dipartimento della Gironda. Qui, tra i vigneti e le increspature del paesaggio, Viollet-le-Duc mise in opera una delle sue più raffinate e fantasiose interpretazioni del medioevo. L’edificio preesisteva, ma fu oggetto di un intervento di restauro e ridefinizione che travalicava i confini della semplice conservazione. I proprietari del castello, animati da un’autentica passione per l’epoca gotica e desiderosi di fare della loro dimora un emblema vivente del medioevo ideale, si affidarono a Viollet-le-Duc senza badare a spese. L’obiettivo fu trasformare la fortezza antica in un’architettura da sogno, capace di incarnare un’immaginazione storica raffinata e sontuosa.

In questa fusione tra eredità storica e proiezione ideale, tra pietre antiche e invenzioni moderne, si trova forse la chiave per comprendere il fascino duraturo del neogotico francese. Un fascino fatto di memoria storica e di fantasticherie. Ora, io vi chiedo: avete visto qualcosa del genere nella casa progettata da Émile a Creil?

>>> Segue >>>