Da non credere. Questa è la serata del vernissage. Quando siamo saliti a casa di Alizée, pensavo che Marcel e Anaïs si fossero accordati per darle uno strappo alla Galleria di Stéphane, il suo fidanzato. Mancava un’ora all’inaugurazione della mostra. Situato in un condominio di tutto rispetto, ma normale, mi aspettavo di vedere un appartamento altrettanto normale. Invece, siamo entrati in una Galleria d’arte. Riguardo alla casa di Creil, fino a oggi abbiamo a lungo parlato di come il limite tra interni di rappresentanza e privati, già a metà Ottocento, fosse stato del tutto definito. In questo appartamento di Alizée, al contrario, un tale limite è stato completamente sovvertito. In un mondo in cui l’arte cerca costantemente nuovi margini di contorno e forme di relazione con il pubblico, il confine tra luogo privato e spazio espositivo si è fatto sempre più sottile, fino ad annullarsi.

Il fidanzato di Alizée – che fa gli onori di casa, in quanto titolare della Galleria e curatore della mostra – mi spiega che negli ultimi anni, un fenomeno in crescita ha iniziato a ribaltare le logiche del sistema tradizionale dell’arte. Le case sono trasformate in Gallerie, i salotti tornano ad essere luoghi di dialogo culturale, le stanze di un’abitazione si aprono – su invito o attraverso canali alternativi – all’esperienza estetica. Non è solo una tendenza, ma una vera e propria riscrittura delle regole, che pone al centro l’intimità, la partecipazione e una nuova forma di accesso alla creatività.

La pratica di trasformare un appartamento in Galleria ha radici antiche, ma oggi conosce una nuova fioritura e si attualizza. Da Newcastle a Parigi, il soggiorno diventa un manifesto, la cucina un luogo d’incontro, il bagno – sì, persino il bagno – una sede espositiva. A fare vagamente da modello – e questo l’ho subito messo in evidenza – sono le serate parigine di Gertrude Stein nella sua abitazione al 27 di Rue de Fleurus o Natalie Barney al 20 Rue Jacob. Nei loro salotti convivevano discussione culturale, sperimentazione artistica e un’idea radicale di socialità. Gli ospiti erano amici, artisti, scrittori, filosofi. I confini tra pubblico e privato erano sfumati, come lo erano quelli tra forma e contenuto, arte e vita.

Oggi, questa tradizione viene rivisitata in chiave contemporanea da una iniziativa com’è l’esposizione di questa sera, ispirata esplicitamente – forse indebitamente – alla storia dei salotti dell’Illuminismo. Ascolto, sorrido, e mi accomodo sul divano con uno Chandon Garden Spritz in mano. Un ospite, appena presentato, mi fa notare che il cocktail, pronto in bottiglia, è stato lanciato di recente come risposta francese allo Spritz italiano. La competizione è pur sempre una nuova opportunità, rispondo disinvoltamente e a tono. In questo Spritz non c’è il Prosecco, ma neppure Champagne, ma unisce un vinello frizzante argentino e un bitter ottenuto da bucce macerate di arance anche queste coltivate in Argentina. Insomma – ma questo ho tralasciato di dirlo – è un’impresa esclusivamente commerciale di chi detiene brand di altissimo livello come Veuve Clicquot o Moët & Chandon con il suo Dom Pérignon quale punta di diamante.

Per rappresentare l’ultima moda parigina, alla casa-galleria d’arte si aggiunge, perciò, anche questo cocktail premix. L’ho già detto, mi fa piacere essere sorpreso, per questo do il via a un diluvio di domande. Alizée ed Eulalie sembrano felici di rispondermi. In un giorno qualsiasi, l’appartamento si presenta come un soggiorno di medie dimensioni, con tutto ciò che ci si aspetta da un ambiente vissuto: divano, poltrone, librerie a parete, una scrivania, piante, oggetti personali e un televisore. Nonostante la presenza di numerose opere d’arte e soprammobili, è evidente che si tratti prima di tutto di una casa. Eppure, in occasione delle mostre, questo stesso spazio cambia pelle.

Ma come si gestisce, nella pratica, una tale metamorfosi? «Lo spazio ora abbraccia la domesticità – mi spiegano – All’inizio cercavamo di mascherare l’ambiente, di spostare i mobili, coprire la libreria, lasciare solo pochi elementi in vista. Tuttavia, il soggiorno restava un soggiorno: il divano e la TV erano lì, a testimoniare che qualcuno ci viveva davvero. Col tempo, però, la prospettiva si è rovesciata. Alcuni artisti hanno iniziato a chiedere esplicitamente che l’ambiente domestico rimanesse visibile, che i segni della vita quotidiana non fossero cancellati, ma piuttosto integrati nel percorso espositivo. La casa, con le sue tracce, doveva diventare parte attiva del dialogo con l’opera».

Gli oggetti quotidiani diventano cornice, danno vita a una soluzione che non cerca più di replicare il rigore astratto del white cube, ma sperimenta una convivenza più fluida, in un certo senso più umana, perché arte e vita si intersecano senza gerarchie. Il white cube – rispondo ad Anaïs, che si è unita a noi – designava alla sua nascita una Galleria d’Arte londinese, ma presto questo termine di “cubo bianco”, attribuito per il colore dell’ambiente, ha finito per contraddistinguere la maggior parte delle Gallerie d’Arte contemporanea, le quali anche oggi espongono all’interno di spazi completamente dipinti di bianco.

«Col tempo, però, ci si è accorti – interviene Alizée, fortemente coinvolta dal tema – che il white cube iniziava a fagocitare l’opera. Lo spazio neutro e astratto iniziava tout court a imporsi sull’oggetto esposto, trasformandolo, fino a “rendere arte” qualsiasi cosa vi entrasse. Per cui tutto era possibile. La Galleria poteva restare vuota o, all’opposto, stipata come un magazzino. Poteva restare volutamente chiusa per tutta la durata della mostra o riprodurre al suo interno un ambiente esterno. Ci siamo accorti, dunque, che quelle stesse azioni, le quali al di fuori del white cube passerebbero inosservate, nella Galleria si trasfiguravano illusoriamente in arte. Anche la quotidianità».

Stéphane ha cominciato a presentare la mostra e gli artisti. Ci fanno segno di tacere. Mi piace ascoltare il suo punto di vista appassionato: «Il desiderio di condividere la propria collezione in modo intimo e personale sta spingendo collezionisti e appassionati ad aprire le porte delle loro abitazioni, trasformandole in veri e propri spazi d’arte. In questo contesto, l’opera d’arte non è più protetta da barriere istituzionali come all’interno di un museo, non è più parte dalle logiche commerciali e dalle pressioni del mercato come all’interno di una Galleria comunemente intesa. L’opera si inserisce nella vita quotidiana, non idealizzata o simulata, ma del tutto reale.

Gli stessi spettatori, come voi stasera, non sono più tali: diventano ospiti, interlocutori, parte attiva di un’esperienza immersiva. È una forma di democratizzazione dell’arte che non si limita ad abbattere le pareti del white cube, ma ridisegna l’intero concetto di fruizione artistica. C’è di più. Non si tratta solo di esporre quadri tra le mura domestiche. Sempre più spesso, l’abitazione privata diventa un incrocio di linguaggi artistici, un laboratorio in cui le arti visive s’intrecciano con performance, letture, proiezioni, musica dal vivo. Per questo motivo la mostra s’intitola “Un crocevia per il sole”.

Se è vero, come io stesso credo sia vero, che le grandi Fiere dell’arte e le grandi Gallerie continuano a dominare la scena internazionale, questi nuovi, piccoli modelli domestici propongono una via alternativa e, in molti casi, più autentica. Si sottraggono alla spettacolarizzazione, evitano l’omologazione dei format espositivi, rifiutano le dinamiche iper-commerciali, recuperano la dimensione umana del gesto artistico. È un ritorno all’essenziale, che coinvolge direttamente il pubblico in un processo di scoperta e di partecipazione». Applausi e, ancora, applausi.

Fra un drink e uno stuzzichino, i presenti si scambiano opinioni. Le mostre in casa non sono una soluzione economica di ripiego – discorrono – e neppure un’alternativa alla scarsità di spazi espositivi concessi dalle Istituzioni. Sono, in realtà, un atto poetico: per riportare l’arte là dove può essere vissuta, pensata, condivisa senza filtri né compromessi. C’è persino chi arriva ad affermare che simili mostre aprono a una “nuova ecologia” dell’arte: «Le case-galleria o i salotti d’artista diventano ecosistemi aperti, in cui le opere respirano la stessa aria degli abitanti, in cui il pubblico non è massa indistinta, ma comunità pensante». Mi pare un po’ esagerato. Comunque, il denominatore comune della serata è il convincimento che l’arte ha finalmente recuperato una funzione antica e al tempo stesso radicalmente contemporanea. L’arte come strumento di dialogo, di trasformazione, di relazione viva.

Stanco dei gruppetti e delle loro disamine, mi siedo a fianco di Marcel che per gran parte del tempo è rimasto in disparte, seduto in poltrona. Gli confesso che qualcosa, ma non so definire cosa, mi ha lasciato dubbioso, a cominciare dal titolo: “Un crocevia per il sole”. Un titolo che sembra dire tutto, ma potrebbe dire niente. Esprime quella che per un parigino è un’aspirazione e che per un meridionale come me è una costante. Il sole è là, a Parigi coperto dalle nubi o meno: spazza via le nubi e scorgi lo splendore di una bella giornata. Marcel mi pare altrettanto perplesso. Gli chiedo come sia andata, a parere suo, questa serata e lui risponde con tono distaccato: «Si je m’appuie sur quelque chose, contre le dossier d’une fauteuil, alors c’est comme ci, comme ça». Se mi appoggio a qualcosa, come allo schienale di una poltrona, allora è andata così-così, nel modo palese che puoi vedere.

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