
La casa di Berlino
di Gio Bonaventura
Se mio padre lo avesse detto a me, ne sarei stato felice. Io da nostro figlio sto imparando molte cose. Non mi dilungherò sulla casa di Berlino che ha avuto la fortuna di affittare ammobiliata e che manterrà almeno per completare il dottorato di ricerca. Non mi soffermerò sui toni delle pareti, sulle grandi tele che mi ricordano l’espressionismo astratto di Mark Rothko, sui volumi illustrati disseminati dappertutto, sugli oggetti di design. Non mi attarderò sugli arredi di scuola Bauhaus che mi spingono a fare un viaggio nel tempo, con la differenza che in questa casa tutto è autenticamente d’epoca e nulla è una citazione colta. Neppure è una ricostruzione, come si vede nei musei. Dirò solo che, mentre Lilli o io siamo sempre pronti a segnalargli l’apertura di un nuovo padiglione espositivo, restauri e inaugurazioni, come se fosse un turista da indirizzare, nostro figlio racconta frammenti della vita quotidiana che conduce in casa o nel quartiere, quando è libero dal lavoro.
Arraz, il suo barbiere tunisino, ha rincarato i prezzi. Il tabaccaio turco è aperto anche di domenica, mentre l’esercizio accanto è stato trasformato in supermercato. Nella sua caffetteria preferita ha di nuovo fatto colazione con una Bauernhof Frühstück oppure nella farmacia all’angolo ancora si ricordano di quando li ha aiutati con un cliente che parlava solo francese. Ho imparato da mio figlio che si può stare in un luogo e trovare ciascuno “la propria dimensione”, sentirsi vivere in ogni momento della propria esistenza. Lui passeggiando sotto casa nel verde di Schöneberg o di Wilmersdorf, io a Parigi nel Jardin des Tuileries.
Madre e figlio, lo sanno che il cuore io l’ho lasciato a Parigi. Così, dopopranzo, per tutto il tempo del caffè, mi danno discorso e mi chiedono di Creil. Dal momento che ci troviamo a Berlino, partirò a discorrere proprio dal Castello di Berlino, che non fu soltanto una residenza imperiale, ma il centro nevralgico del potere prussiano e poi tedesco, carico di significati storici e identitari. Si trova nel quartiere Mitte, sull’isola della Sprea. Mi chiedete perché ne parlo? Presto detto: le vicende della casa di Émile sono legate a doppio filo con la guerra franco-prussiana del 1870-1871. Il conflitto scoppiò ufficialmente il 19 luglio 1870, quando la Francia dichiarò guerra alla Prussia e ai suoi alleati della Confederazione Tedesca del Nord.
Permettetemi una premessa storica per segnare il contesto. Il conflitto fu il culmine di tensioni crescenti tra le due potenze. Il malcontento francese era montato già nel 1867, dopo il fallito tentativo di Napoleone III di annettere il Lussemburgo. L’episodio marcò la rottura di un equilibrio fragile e mise in luce il ruolo sempre più incisivo che la Prussia andava assumendo nella politica tedesca. In particolare, Parigi guardava con crescente ostilità all’influenza esercitata da Berlino sugli Stati meridionali, storicamente legati all’ex Confederazione germanica, e alla posizione di leadership assunta dalla Prussia all’interno della Confederazione Tedesca del Nord, istituita tre anni prima in seguito alla vittoria sull’Austria.
La guerra fu quindi l’inevitabile sbocco di una rivalità che si era fatta sempre più aspra, e che avrebbe avuto conseguenze decisive per l’unificazione della Germania e il declino della supremazia francese nel continente. Capirete bene che non fu facile per Émile aprire un cantiere nella tempesta, che lasciava l’intera popolazione nell’incertezza. Nell’estate del 1870, le campagne francesi sembravano attraversate da un’inquietudine silenziosa e crescente. Tra i documenti che Marcel mi ha dato nella villetta di Petit-Montrouge, e che visionerò attentamente quando saremo di nuovo a casa, ho gettato l’occhio su alcuni appunti riferiti al 20 agosto. Non era giorno di combattimenti a Parigi, e neppure nei sobborghi; tuttavia, ovunque si avvertiva con chiarezza che la guerra non era più soltanto un’eco. Si insinuava nel respiro stesso delle giornate.
I quotidiani, ogni mattina, pubblicavano notizie sempre più sconsolanti. La disfatta del fronte militare, l’avanzata del nemico. Ora ciò che si temeva era divenuto realtà. Da otto giorni il territorio era stato invaso dalle truppe prussiane. Indubbiamente non era affatto il momento propizio per avviare nuove imprese, tanto meno un progetto edilizio. Il flusso dei contadini che ogni giorno entrava nel castello del padre di Émile era ininterrotto. Uomini con il cappello in mano, donne angosciate, venivano a chiedere consiglio, a sfogare le loro paure, a cercare un argine alla confusione che li circondava. I giovani più forti erano già stati arruolati nella Guardia Nazionale e nelle sue unità mobili, che affiancavano l’esercito regolare. Chi restava o era troppo vecchio o era troppo giovane.
I campi, che fino a poche settimane prima palpitavano di vita, erano ormai deserti. Il lavoro agricolo, interrotto; gli animali, condotti nelle stalle con ore d’anticipo. Le strade poderali erano percorse da piccoli gruppi di uomini e donne che parlavano anziché affrettarsi al lavoro dei campi. Qualcuno piangeva apertamente. E di sera, le luci restavano accese nelle case sparse molto più a lungo del solito, come se il buio non distinguesse più il momento del riposo, ma un’inquietudine comune.
In questo contesto, Émile quel 20 agosto trovò suo padre profondamente turbato. La gotta lo affliggeva da giorni, ma quella mattina, entrando nel suo ufficio, Émile capì che il male che lo piegava non era solo fisico. Il ragionamento che colse, mentre parlava con un proprietario vicino, esprimeva tutto ciò che la guerra stava disgregando: la mancanza di manodopera, le famiglie spezzate, i giovani strappati alla loro terra per servire un Paese catapultato in un conflitto di cui nessuno sembrava comprendere davvero il senso.
Eppure, in mezzo a quel disordine, affiorava una risoluzione di poche parole. «Restiamo qui», diceva suo padre, con la voce di chi era uso scegliere sempre la strada più difficile. «Non fuggiamo, non lasciamoci travolgere dalle paure. Mettiamoci all’opera. Lavorare è l’unico rimedio al disordine dell’anima. Dopo giorni di attività, la sfortuna ci troverà più pronti rispetto a un tempo consumato nell’ozio dettato dall’ansia».
Anche se le scuole chiudevano, anche se gli studenti a fine estate non sarebbero tornati a Parigi per l’inizio delle lezioni, c’era ancora qualcosa da fare, e da fare insieme. Le attività pubbliche o private presto sarebbero state sospese del tutto. Tanto valeva restare a Creil, dove rendersi utili. Lavorare in silenzio per essere meglio preparati se, in un malaugurato sforzo supremo, tutti, vecchi e ragazzini, sarebbero stati chiamati a difendere il borgo.
Fu così che pensarono di comune accordo – quasi fosse una stravaganza – di avviare comunque la costruzione della casa, proprio mentre il mondo sembrava sul punto di crollare. Una scelta a prima vista irrazionale, ma che rispondeva a una logica profonda: offrire lavoro a chi era rimasto inoperoso, non lasciare che le braccia inerti diventassero peso per la comunità o, peggio, si trasformassero in disordine. Se il denaro – quel «nervo essenziale per costruire» – fosse venuto a mancare, si sarebbe trovato il modo di superare ogni intralcio: al limite, avrebbero fatto debiti. I materiali edilizi c’erano. Gli operai c’erano, e le finanze disponibili al momento garantivano che li avrebbero sfamati per un po’ di tempo.
Émile, partì per sistemare alcuni affari in sospeso a Parigi. Tornò tre giorni dopo con un’ampia scorta di rotoli di carta e piccoli strumenti di misurazione necessari al tracciamento dell’edificio. Costruire, in tempo di guerra, era da parte sua e di suo padre una dichiarazione di volontà profonda. In questa decisione di erigere una casa mentre tutto intorno vacillava, c’era l’eco di una Francia rurale che non si rassegnava. Non era solo un progetto edilizio: era una risposta morale alla disgregazione. Un argine, provvisorio, ma necessario. Perché la guerra può incendiare le campagne, può togliere i figli alle madri e svuotare i campi, ma non può cancellare la dignità silenziosa della gente.
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Maison de campagne – 9
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