«Perché dopo averla affrancata, Émile non ha spedito la lettera»?
La domanda di Lilli, dopo tanti anni insieme, mi fa credere che sappia leggermi persino nel pensiero. Di certo non sto rimuginando sul volo che stamattina ci riporterà a Parigi. C’è stato un tempo in cui la mia unica vera preoccupazione era quella di arrivare in ritardo all’aeroporto: un’ansia che mi rubava la pace prima di ogni partenza. Oggi non più. Di aerei ne ho presi talmente tanti che il da farsi lo conosco a memoria. Tutto è conforme al solito tran-tran: calcolare i minuti necessari per raggiungere il terminal, guardare e riguardare l’iPhone per assicurarsi dell’ora giusta, ripassare mentalmente il percorso del bus o dell’autostrada se faccio il viaggio in macchina. Infine, capire se, dopo i controlli, c’è tempo per un caffè tranquillo o quantomeno per respirare un istante di calma prima dell’imbarco. Lilli, quindi, sa bene che quando sono rapito dai pensieri è perché sto veleggiando nel mare di una storia.

Posso solo supporlo il perché, le rispondo proseguendo con lei, a voce alta, la mia navigazione mentale. Non riesce difficile immaginare il clima pesante che si respirava quando, ogni giorno, cresceva l’attesa di un annuncio positivo che non è mai arrivato. Era quasi la fine di novembre del 1870. A pensarci, il tempo era stato clemente, permettendo agli operai di lavorare senza sosta: il sole autunnale sembrava favorire l’impresa e in più punti la nuova casa aveva ormai raggiunto l’altezza delle finestre del pianterreno. Nonostante ciò, ci voleva tutta la tenacia di Émile e di suo padre per impedire che i lavori venissero sospesi.

A poco a poco, infatti, il cantiere si svuotava. Gli uomini più giovani erano chiamati alle armi; i più anziani rimasti apparivano disattenti, incapaci di sfruttare appieno le giornate. I trasporti, sempre più incerti, si svolgevano a singhiozzo: carri e cavalli erano stati requisiti per l’esercito. Sulle strade, le tracce dei soldati in marcia segnavano il paesaggio più delle ruote dei carretti. Le ore scorrevano lente, tra conversazioni e attese. Si scrutavano le notizie della guerra, che assumeva tinte sempre più cupe. Eppure, qualche segnale di speranza resisteva: Orléans era tornata ai francesi e Parigi, assediata, resisteva ancora.

Perché, dunque, Émile non ha spedito al giornale quella lettera di collaborazione? La risposta mi pare nei fatti. «Pensava che anche lui dovesse partire!», conclude in modo diretto Lilli.

Stava cominciando a pensarlo, rispondo io. La situazione era grave e occorreva che ogni francese contribuisse allo sforzo bellico. La Prussia e i suoi alleati si erano dimostrati superiori. Dopo la sconfitta definitiva dell’esercito a Sedan, Napoleone III aveva consegnato una lettera indirizzata a re Guglielmo e firmato la capitolazione nella tarda mattinata del 2 settembre 1870. Ciò determinò la caduta del Secondo Impero e la nascita della Terza repubblica, che tentò una riorganizzazione politica e militare al fine soprattutto di liberare Parigi sotto l’assedio delle truppe prussiane. La guerra quindi continuava.

Che dovesse partire anche Émile era, quindi, una decisione inevitabile. Soprattutto ora che gli sfollati cercavano rifugio ovunque. Alla cerchia del castello si era unito temporaneamente un nuovo ospite: un amico di famiglia che, dopo aver visto la sua proprietà occupata e devastata dai tedeschi, era stato costretto a lasciarla. Di passaggio verso qualche località ad ovest di Parigi, dove aveva parenti pronti ad accoglierlo, si era fermato per pochi giorni “a fare visita” al padrone di casa.

Aveva sessant’anni, la figura alta e un portamento che tradiva rigore più che cordialità. Sul volto, apparentemente immobile, si disegnava un sorriso costante, tanto da sembrare inciso una volta per tutte. Con quell’aria composta e un po’ fredda, poteva facilmente essere scambiato per un diplomatico di vecchio stampo, educato all’arte di celare le emozioni dietro una maschera di cortesia. Questo lo racconta Éléonore nelle pagine in cui annota momenti familiari, che fanno da pendant a quelle sul cantiere curate da Émile.

Il nuovo arrivato si rivelò subito un conversatore instancabile. Aveva letto molto, viaggiato a lungo, accumulato esperienze e opinioni su ogni campo del sapere. In gioventù era stato candidato al Parlamento; più tardi si era lanciato in speculazioni industriali che lo avevano ripulito di una parte consistente del patrimonio. Poi aveva tentato con l’agricoltura, ma quando anche questa minacciò di inghiottire ciò che gli restava, preferì ritirarsi sul terreno della teoria, per lui più sicuro. Cominciò così a pubblicare opuscoli a proprie spese, diffusi con zelo, in ciascuno dei quali pretendeva di offrire una soluzione semplice e definitiva ai problemi più vari: dalla politica all’arte, passando per la scienza, il commercio, la manifattura.

L’edilizia era tra le sue passioni. Diffidando degli architetti, che considerava stravaganti e pieni di pregiudizi, preferiva dare consigli su ogni costruzione. Amava ripetere che “la luce scaturisce dall’urto delle idee contrarie”, ma non dubitava mai di incarnare la parte della luce e mai quella del buio. Era il genere d’uomo che, se fosse stato sul predellino di un treno, lo avrebbe lasciato partire piuttosto che rinunciare a esprimere un parere articolato su di una questione qualsiasi. Eppure, discuteva senza ostentare impazienza e accettava di buon grado che gli altri dissentissero, purché la sua opinione fosse debitamente ascoltata.

Non passò molto tempo dal suo arrivo che l’argomento inevitabile venne a galla. La nuova casa di Émile suscitò la sua attenzione. L’ospite chiese di vedere i disegni, li esaminò attentamente e, con un sorriso scolpito, commentò: «Interessante, molto interessante. Ho visto case simili in Belgio. Ci sono ottime idee qui. Sarà un’abitazione piacevole… se i prussiani vi lasceranno finirla. Ma mi permettete di fare un paio di osservazioni?».

Il padre di Émile assentì con cortesia, ed egli si lanciò: «Non intendo certo suggerire cambiamenti a progetti che mi sembrano degni di lode. Tuttavia, la mia impressione è che questa sia più una casa di città, un hôtel, che non una dimora di campagna. Mi pare troppo chiusa. Una veranda, un portico, finestre più aperte: ecco, queste mi sembrerebbero soluzioni più adatte alla vita rurale. Inoltre, la facciata principale soffre la mancanza di simmetria: non vi sembra che l’edificio finisca per assomigliare a quelle case nate pezzo a pezzo, senza vera unità? Non credete che, essendo una casa destinata al piacere, le gioverebbe un po’ di eleganza esteriore?».

Il padre di Émile ribatté asciutto: «Non è affatto una casa per il piacere. È una casa pensata per chi deve viverci tutto l’anno, non per villeggianti estivi».

L’ospite sorrise, indulgente: «Vedo che vi mantenete fedeli al vostro gusto innato per il lato pratico. Ma è un peccato perdere l’occasione di dare alla campagna una dimora che unisca comodità e arte, quella rara eleganza che resta impressa nella memoria. Che ne pensa, signor Architetto?».

Émile, fino a quel momento in silenzio, rispose con diplomazia: «Mi rallegra sentir parlare della nostra arte di architetti con tanta passione».
«E dunque siete d’accordo? Non vi sembrerebbe opportuno conferire un tocco di fascino a facciate che altrimenti appaiono un po’ troppo severe? Non vi ispirano forse i modelli italiani, Pompei, i portici, la vita all’aperto?».

Émile scosse il capo: «Ho visitato l’Italia e la Francia, e se qualcosa mi ha colpito è proprio l’aderenza delle forme agli usi e ai costumi di chi le ha concepite. Le case di Pompei erano perfette per gli abitanti di allora, per il clima del Golfo, per abitudini lontane dalle nostre. Ma perché trapiantarle qui? A cosa servirebbe un triclinio aperto – cioè una stanza di pochi metri quadri – che dà su un gelido cortile circondato da portici? Le nostre case devono nascere dalle esigenze reali, non da imitazioni – E aggiunse – Del resto, a Pompei il lusso era tutto all’interno. L’esterno restava sobrio, quasi anonimo. Non sacrificavano nulla a quell’ostentazione moderna che vuole impressionare i passanti. Probabilmente non troveremo un accordo. Io credo che l’arte, per quanto concerne l’architettura, significhi verità e semplicità. Non la forma che abbaglia, ma quella che risponde a una necessità».

L’ospite rise: «Allora dovreste andare in America, caro Architetto».
«Forse – replicò Émile – se là davvero si costruisse in base ai bisogni degli uomini. Ma temo che anche laggiù prevalga l’imitazione cieca di stili considerati “belli” senza comprenderne origine e funzione».

La discussione rischiava di trascinarsi all’infinito. Fu il padre di Émile a chiuderla, con tono mezzo ironico: «Bene, bene. Per vostra soddisfazione, quando la casa sarà finita, monteremo un portico di cartone davanti alla facciata, e vi faremo danzare damigelle vestite da veneziane con cavalieri in abito scarlatto a suonare chitarra e mandolino. Ora, però, s’è fatto tardi: è tempo di andare a dormire».

È anche tempo per Lilli ed io d’imbarcarci, come avverte l’altoparlante.

>>> Segue >>>


Sergio Bertolami
MAISON DE CAMPAGNE
Experiences 2025 – Pubblicazione online in fieri