Sembra strano: mai avrei immaginato che, la prima sera di ritorno a Parigi, io e Marcel avremmo cenato da soli. Sua moglie Anaïs ha avuto, infatti, un’idea brillante, che Lilli ha accolto con entusiasmo: organizzare una serata fra donne. Un’idea che rompe ogni schema di accoglienza. Lo racconto, giusto per fare capire il clima che ormai si è istaurato con questi nuovi amici, con i quali fino all’anno scorso ci si scambiavano, sì e no, gli auguri per le feste. Qui, a Parigi, con loro, ogni cosa sembra essere possibile. Naturalmente si uniranno alla compagnia delle donne anche Eulalie, Alizée e chissà quante altre. Sarei curioso di saperlo.

È fine aprile. L’aria conserva ancora l’umidità del pomeriggio, e i marciapiedi brillano sotto i lampioni, come se fossero stati appena lavati. L’aria porta quell’odore di ferro bagnato che avverto solo a Parigi. Camminiamo a piccoli passi, io e il mio amico, lungo una via dove persino le persone che ci passano accanto non sembrano avere fretta. Non è uno dei quartieri eleganti del centro: alcune vetrine modeste, un droghiere, una tabaccheria, qualche serranda abbassata. Un tempo, mi dice Marcel, Petit-Montrouge era zona di piccoli artigiani, di famiglie strette negli appartamenti sopra i negozi. Quella che percorriamo è una di quelle strade dove si sente ancora l’eco del quartiere popolare, anche se adesso ovunque, anche qui, le insegne nuove e i negozi alla moda tentano di cambiarne la faccia.

Siamo arrivati. Spingo la porta del bistrot, che si apre con un cigolio, e subito m’investe il tepore del locale. La luce giallastra, i vetri appannati, il chiacchiericcio basso che dà l’impressione di un ritrovo spartito in comune. Mi colpisce l’odore che sa di cucina casalinga, quella che una volta si respirava salendo le scale del condominio: sugo, brodo, pane tostato. Il proprietario del bistrot, un uomo robusto con i baffi grigi che quasi gli coprono le labbra, conosce Marcel e, senza smettere di asciugare bicchieri, gli fa un cenno in direzione di un tavolo in fondo, sull’angolo. Un tavolo di legno scuro, con qualche graffio che la dice lunga sulla storia del vecchio locale.

Marcel sorride soddisfatto, come chi torna in un luogo familiare. Io invece mi guardo attorno con la curiosità del forestiero. Non ci sono turisti, e questo mi piace da subito. Una coppia anziana si divide una caraffa di rosso, parlottando a voce bassa, quasi senza guardarsi. Più in là, due uomini stranieri con le rispettive mogli velate si fanno grandi risate, alternando un francese stentato con parole nella loro lingua. Al tavolo accanto al nostro un signore solitario legge il “Figaro” senza mai staccare gli occhi dalla pagina, di tanto in tanto, sorseggia un bicchiere con calma e non guarda nessuno.

Il cameriere arriva con due boccali di birra. Ne posa uno davanti a me, l’altro davanti al mio amico. La schiuma trabocca appena, lasciando un anello umido sul legno. Ci propone con un tono di orgoglio discreto il piatto della casa, «una fricassée di pollo con cipolle novelle e funghi… come non se ne fanno più». Marcel accetta senza esitazione, aggiungendo una zuppa leggera per cominciare. Mentre io, con un mezzo sorriso, spiego quasi scusandomi che non posso soffrire la cipolla. Il cameriere senza batter ciglio risponde all’istante: «Nessun problema, monsieur, per lei la facciamo semplice, solo con le erbe e un po’ di vino bianco».

Aspettando la cena, cominciamo a parlare dei giorni in cui Marcel e Anaïs, sono venuti ad abitare nel quartiere, appena sposati. Piccoli fatti, persone che io non conosco, ma che prendono vita dai suoi dettagli: il fornaio che ha cambiato mestiere, il vecchio portinaio che non si vede più, il postino che non ha mai suonato due volte. Lo ascolto trasognato, come se stessi seguendo qualche pagina di Georges Simenon: asciutta, sobria, con minuzie che sembrano quasi gettate lì, ma che costruiscono un’atmosfera concreta, palpabile.

Quando arriva la fricassée, restiamo entrambi sorpresi. Il piatto fuma, con pezzi di pollo dorati immersi in una salsa densa. Quello del mio amico odora di cipolla dolce, cotta a lungo, mentre il mio, più semplice, ha un aroma leggero di timo e vino bianco. Accanto, patate novelle ancora con la buccia, morbide all’interno, che sembravano appena uscite da un forno di campagna. Mangiamo lentamente. E qui mi lascio andare, perché mi ritrovo a ripulire il piatto con un pezzo di pane croccante. Marcel fa lo stesso, ma il suo è un gesto più sicuro, quasi rituale.

La conversazione non ha nulla di particolare e scorre naturale: le nostre vite, i ricordi, persino piccoli episodi di un tempo rimosso. Ricordi dolci, come il dessert. Una Tarte Tatin, tiepida, con la mela caramellata che brilla sotto la luce di una lampada che pende sul nostro tavolo. Qui la servono con un bicchierino d’Armagnac, che assaporo piano-piano, lasciando che il calore scenda in gola.

Quando il proprietario passa vicino al nostro tavolo, Marcel confidenzialmente gli mette una mano sul braccio, per dirgli quanto abbiamo apprezzato la sua cena. «Torneremo», gli promette, e io confermo con un cenno deciso. Lui si limita a sorridere, come chi non ha bisogno di molte parole.

Ci alziamo per passare alla cassa. Prima di uscire ancora una volta indugio un attimo per guardare la sala: l’uomo con il giornale, la coppia anziana che ha finito il vino, le risate soffocate degli immigrati un poco più il là. Tutto rimarrà qui, come una scena che si ripeterà anche domani sera e poi l’altra a seguire. La porta si richiude dietro di noi, e torniamo sulla strada umida della città trafficata. Ora occorre recuperare l’auto e andare a riconquistare l’attenzione delle nostre mogli.

>>> Segue >>>


Sergio Bertolami
MAISON DE CAMPAGNE
Experiences 2025 – Pubblicazione online in fieri