Il Mezzogiorno tra Europa e Mediterraneo

G. MAURIZIO BALLISTRERI

Il grave deficit di cultura politica si avverte ancor di più nel nostro Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, dove è evidente il cortocircuito prodotto dalla fine improvvisa della Prima Repubblica e il vuoto non facilmente colmabile attraverso gli attuali meccanismi selettivi delle èlites politiche.
La conseguenza è che il Sud, ormai, è stato rimosso dall’agenda politica, tranne i riferimenti ai drammatici fenomeni delle mafie, della corruzione e della devastazione dell’ambiente, a tal punto che appare ormai abbandonato a sé stesso; la Svimez ha scritto di “desertificazione umana ed industriale” e, a ben vedere, sarebbe difficile individuare migliore definizione dell’attuale condizione meridionale.
Dall’inizio della crisi, nel Mezzogiorno le famiglie povere sono aumentate del 40%; una su cinque ha difficoltà financo al rifornimento idrico (!); la domanda per consumi è scesa del 13%; il tasso demografico diminuisce con le natalità inferiori alle morti; il tasso medio di disoccupazione è doppio rispetto al resto d’Italia con quattro giovani su cinque senza lavoro e oltre 500 mila andati via, molti dei quali all’estero; è crollata l’istruzione: quattro ragazzi su dieci non conseguono un diploma, mentre diminuiscono le iscrizioni nelle università; continua a decrescere il Pil meridionale rispetto al Nord.
C’è fondamentalmente nel Sud un problema di formazione delle classi dirigenti, intese nell’accezione più ampia come coloro i quali partecipano alla realizzazione delle scelte di interesse generale, in grado di trasmettere forti valori e cultura di governo, come i “cento uomini d’acciaio” immaginati dal grande meridionalista Guido Dorso nella sua “Rivoluzione meridionale”.
E d’altronde, nel celeberrimo libro “Cristo si è fermato ad Eboli” Carlo Levi scrisse che il “problema meridionale non è altro che il problema di uno stato moderno, efficiente, democratico”.
A ben vedere, ad oggi, il problema del nostro Sud continua ad essere la mancanza di un vero senso dell’etica pubblica e di un’adeguata presenza dello Stato, nel gap di modernizzazione della sua economia e di dotazione di infrastrutture materiali, porti, autostrade, aeroporti, reti energetiche e immateriali, come le reti informatiche e telematiche, nel mentre sono stati cancellati tutti gli strumenti della programmazione negoziata e di incentivazione all’impresa, in una democrazia spesso non esigibile sul terreno della partecipazione collettiva e pertanto ridotta a mero simulacro, fondata sulla logica perversa dello scambio individuale e collettivo che annulla ogni ipotesi di cittadinanza, dando luogo all’infiltrazione della grande criminalità organizzata.
Una linea strategica per una nuova politica meridionalista deve essere quella della Macroregione dell’Europa mediterranea, puntando sulla utilizzazione dei fondi europei con un’unitaria strategia di sviluppo, quale elemento di unificazione degli interessi delle regioni meridionali: i 96 miliardi tra fondi europei e nazionali che il Meridione deve spendere entro il 2023 per nuove infrastrutture, necessitano di progetti infrastrutturali interregionali, che solo una Macroregione può programmare e realizzare L’impostazione macroregionale permette la realizzazione di reti di cooperazione, il lancio di numerose iniziative congiunte e l’adozione di decisioni politiche a livello collettivo, con un uso più efficiente delle risorse disponibili.

1.Il Mediterraneo e la Sicilia
Il nostro Sud potrebbe costituire una grande opportunità di sviluppo per l’Italia e l’Europa se il processo di integrazione comunitaria non avesse trascurato il Mediterraneo.
Ma, purtroppo, la cultura monetarista dell’Europa unita ruota essenzialmente attorno alla dialettica imperniata sull’asse franco-renano, che ingloba Belgio e Olanda: il vero problema, prima che politico ed economico, è culturale.
Nel Mare nostrum la Sicilia dovrebbe avere, anche aggiornando in chiave europea il suo Statuto speciale d’Autonomia, centralità per storia e collocazione geografica, sostenendo la ripresa della prospettiva della zona di libero scambio euromediterraneo. Val la pena di ricordare le parole di un manager illuminato come Domenico La Cavera, presidente di Sicindustria negli anni ’50 e promotore della Sofis, la Società finanziaria siciliana della nostra Regione, “la speciale posizione geografica della Sicilia, baricentro del mondo mediterraneo, tutto proteso su di una linea di progresso; la posizione di confluenza nell’isola di tre continenti, conferisce a tutte le nuove industrie che in essa sorgeranno condizioni di particolare vantaggio in rapporto al mercato di consumo”, parole che oggi appaiono, purtroppo, come le “prediche inutili” di einaudiana memoria, a cui fanno da pendant le tristi parole utilizzate di Leonardo Sciascia per descrivere il fatalismo della nostra isola: “Anche lo scirocco è una dimensione della Sicilia”.
A tal proposito è opportuno rammentare che a Barcellona in Spagna, nel 1995, si tenne la prima importante Conferenza euromediterranea, con la partecipazione dei delegati dei 15 paesi membri all’epoca dell’Unione Europea e di 12 paesi delle sponde meridionale e orientale del Mediterraneo: Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Israele, Giordania, Autorità nazionale palestinese, Libano, Siria, Turchia, Cipro e Malta. Venne sottoscritta un’importante dichiarazione congiunta, che lanciava il “Processo di Barcellona”, con l’obiettivo di creare una “piattaforma multilaterale di relazioni durature fondate su uno spirito di partnership, con particolare attenzione ai valori peculiari di ciascuno dei partecipanti”. L’attuazione di questa vera e propria “cooperazione globale”, funzionale a promuovere pace, stabilità e sviluppo nel Mediterraneo, dovrebbe poggiare su tre linee d’intervento strategico: partenariato politico e di sicurezza; economico-finanziario; culturale. Si tratta del PEM, il Partenariato euromediterraneo, con un itinerario enucleato dalle diverse conferenze Euromed susseguitesi negli anni in molte città rivierasche. Purtroppo, pur con il grande impegno di molti paesi, tra i quali l’Italia, il “Processo di Barcellona” non si è sviluppato compiutamente, anche a causa delle tensioni geopolitiche nel Mediterraneo.

2. L’Area dello Stretto e il Ponte
La stessa colpevole sottovalutazione che i governi nazionali e regionali hanno riservato alla Sicilia ha colpito anche l’Area dello Stretto. Un luogo carico di miti e di storia, bello da apparire una sorta di “geografia dell’anima”, segnato purtroppo da sottosviluppo e disoccupazione e da un’arretratezza rispetto alle aree più dinamiche del Mezzogiorno.
L’Area dello Stretto, individuata dal geografo Lucio Gambi già nel 1960 come la seconda più grande conurbazione meridionale dopo quella napoletana, rappresenta la frontiera naturale dell’Europa unita e data la sua centralità nel Bacino mediterraneo potrebbe costituire la cerniera ideale con i Paesi rivieraschi. Ma per fare ciò è necessaria una ben diversa attenzione da parte del governo nazionale per favorire processi virtuosi di integrazione tra le due sponde, e utilizzando gli strumenti dello sviluppo autocentrato per valorizzare le risorse locali.
Ed è in questa prospettiva che si inserisce la realizzazione del manufatto sospeso tra le due sponde, quale opera di sistema di respiro europeo, per conseguire il risultato di una forte valorizzazione delle imprescindibili istanze del nostro territorio, mettendo in equilibrio globale e locale.
Il Ponte sullo Stretto porterebbe obbligatoriamente in Sicilia l’alta velocità ferroviaria e un grande hub portuale internazionale. Ciò che si deve evitare è la guerra ideologica tra fautori e contrari al manufatto stabile sullo Stretto, quasi che, come nel romanzo di Ivo Andric Il ponte sulla Drina, esso debba risultare “come condannato, ma integro e intatto, il ponte ergeva il suo profilo tra due mondi in guerra!”.
Ponte, Area dello Stretto, Mezzogiorno e cooperazione euromediterranea sono temi tra di loro legati e guardano ad una prospettiva di pace, di collaborazione e di sviluppo dei popoli di questa parte fondamentale del Mondo.

G. Maurizio Ballistreri è docente Diritto del lavoro, Università di Messina; presidente Istituto Nazionale di Studi sul Lavoro; già deputato al Parlamento siciliano.

 

L’ARTICOLO È PUBBLICATO NEL PRIMO NUMERO DI ESPERIENZE MEDITERRANEE