Migrazioni mediterranee

GIUSEPPE CAMPIONE

Augè ci riporta a quella che Lyotard chiamava la fine delle grandi narrative, un momento che corrisponde alla perdita delle illusioni: dai miti d’origine che sono spariti da tempo ai miti escatologici del futuro. Nel postmoderno spariranno anch’essi.
Diamo per scontato, ad esempio, che le consuete rappresentazioni dell’integrazione mediterranea si fondino su presupposti decaduti: che le regole del gioco territoriale siano mutate e che serva ridefinire le specificità delle regioni rivierasche e dei loro possibili rapporti, nella traccia di denominatori comuni tra e nella varietà che si cela in ogni classificazione fatta dall’esterno, celandone la loro coessenzialità alla rappresentazione che partoriamo. Che il mondo mediterraneo sia vario all’infinito induce però a cercarne una definizione operativa ai nostri fini di geografi, intenti a ridefinire le opportunità di connessione ed integrazione tra le sue sponde.

Non è difficile rinvenire il Mediterraneo là dove si impone un modo di concepire il mondo, il modo di stare nella natura e nello spazio geografico, come in un arcipelago. Con una barca ormeggiata alla porta di casa, come i Veneziani descritti da Cassiodoro, o in quei luoghi anfibi che sono isole perché connessi per via di mare e isolati da un interno continentale più estraneo del mare aperto. Una concezione suggerita dalle forme, confermata da strutture territoriali comunque fondate su baie riparate, lembi costieri di pianura, promontori
difendibili anche se appoggiate a masse continentali. Fino all’estremo lembo di cultura greco-mediterranea verso nord, in fondo all’Adriatico, su una costa senza rocce, nel fango rimodellato in arcipelago della laguna, da dove Vincenzo Coronelli descriverà il mondo come un generale arcipelago, un Isolario che copriva i cinque continenti. Una concezione che affascina oggi per la sua efficacia nel dar conto di un mondo frammentato sì, ma connesso come non mai.

Il declino di una concezione dello spazio geografico come susseguirsi di distese contigue, dominate da un’enfasi sui confini come sedi di conflitto, con i mari come vuoti; l’estinguersi rapido di un assetto
geopolitico che trovava in due “superdistese” la sua semplificata versione globale, ha privato il Mediterraneo di una plurisecolare funzione di diaframma tra due mondi, ha abbattuto (o, meglio, reso inutile) una frontiera che è stata caricata di significati di separazione tra mondo moderno e spazi più o meno organizzati della povertà, spazi dei conflitti.

Nella simultaneità, che sostituisce la velocità del moderno, il piccolo globo azzurro simbolo della rete globale rappresenta un mondo in cui non hanno senso le avanguardie, in cui il confine tra cultura ed economia è dissolto, in cui è decaduto il mosaico di aree omogenee garantite dal costo di superamento della distanza.
Ma che territorio costruisce la simultaneità della rete, dato che in esso la competizione ha infiniti partner e tutti possono sottrarsi ai monopoli ed al conformismo locali? ci sembra finiscano col disegnare un paesaggio urbano diffuso che si squaderna in un territorio allargato. Territorio che non si ramifica necessariamente in conurbazioni lineari, né in sovrapposizioni sostanzialmente degradanti il tessuto urbano, ma denota rarefazioni insediative molteplici in un processo di cariocinesi.
L’opzione ultima è un policentrismo fortemente connesso. La chiave di lettura, in sostanza, è quella di una situazione-regione, rispetto a quella contrastante di regione-situazione (intendendo per la prima il ruolo di semplice spazio attraversato da linee di forza esterne, e per la seconda quello di campo in qualche modo gestito e governato).

Il mondo contemporaneo certo può essere considerato come un sistema territoriale articolato in complessi regionali: ognuno di questi complessi manifesta a sua volta un certo grado di differenziazione interna derivante da vincoli storico-ambientali, la cui azione si sviluppa nel lungo periodo. Una tipologia quella del sud mediterraneo, soprattutto dopo primavere cariche di decostruzione, ma ancora aperte, spesso confuse e con tentazioni termidoriane, e di primavere solo dolorosamente annunciate, tutte collocate nell’intersezione di uno spazio di relazioni verticali, orizzontali, complesse.

Un territorio da pensarsi al plurale, perciò. Nella polifonica dissonanza e nella programmatica incompletezza dell’agire umano, eventi che accadono, che stanno accadendo e che si dislocano, perturbando, disordinando, secondo i canoni decostruttivi di Derrida: prima di eventi come storia, dice ancora Augé, perturbazioni di sistema, proprio per il carattere eretico e palingenetico di ogni utopia.
Così eventi emergono dalla ormai stentata omogeneità degli stati nazionali e lo stato sussiste solo in quanto efficiente sostegno in un libero trascorrere di capitali e tecnologie che li trova intenti a fluidificarne il mercato anziché segregarlo e proteggerlo.
È nelle keywords di Gottmann sulla teoria geografica che troviamo un definirsi dell’iconografia, l’insieme dei simboli cioè in cui crede la gente, anche, e perché no?, in un modo acritico che però si è sedimentato nel tempo, come un qualcosa (una forza?) che può determinare l’organizzazione degli spazi.

Un elemento perciò discriminante o cloisonant, proprio perché esprime, in cospicua misura, “la caratteristica dei gruppi sociali a trovare identità religiosa, nazionale, culturale attraverso la costruzione di un set definito di credenze, di idee e di icone, a scala locale”.

A guardare quel che succede oggi, ci avrebbe ricordato Gottmann, la realtà non è così semplice; “alla liberazione dai vecchi ceppi – dalle minacce ancestrali a tutte le promesse della globalizzazione – risponde il risveglio dei nazionalismi, dei regionalismi, degli interessi locali, dei vecchi istinti tribali. Comunque se è in ragione di questi fattori “à la fois matériels et spirituels”, diciamo culturali, che si determina le cloisonnement politique du monde, l’iconographie “permette di selezionare tra i fattori culturali quelli che condizionano i fenomeni di cloisonnement, i regionalismi”, creando altresì “la chiave del dialogo tra geografia culturale e geografia politica”. Da questo dialogo ne verranno ulteriormente evidenziate appartenenze, identità radicate, idee ereditate, miti, linguaggi, simboli, icone.
Tuttavia la dissoluzione dell’ordine territoriale tradizionale non produce necessariamente le informi distese tipiche delle urbanizzazioni del terzo mondo, non dissolve i luoghi, non sostituisce con solidarietà di rete gli organismi locali. Se gli standard comunicativi si fanno globali e implicanti una gamma vastissima di attività (fino alla omologazione in poltiglie culturali sincretiste scambiate per tollerante integrazione), resta pur vero che nessun attore economico è competitivo se con lui non compete il suo territorio: dai servizi pubblici alla solidarietà sociale all’identità etnica, alla semplicità, chiarezza e rispettabilità delle regole, dalla qualità e disponibilità di energia e acqua, dalla sicurezza personale al livello di tecnologia ed efficienza delle altre imprese tutto ciò fa spesso il differenziale di competitività.

Più direttamente soggetto al controllo diretto dei suoi membri, dotato della forza delle strutture spontanee (cioè rodate da infinite azioni di correzione ed aggiustamento e condivise dai suoi attori), il territorio consolidato (giustamente inteso come la forma tipica della regione geografica come frutto possibile e raro) compete e viene confermato se non addirittura consolidato dai processi di omologazione dei mercati. La coincidenza di economia, cultura e società nello stesso territorio è uno strumento formidabile di competitività.
La possibilità di rapide ed efficienti connessioni a tutto campo mina le strutture territoriali artificiose e coatte, premia quelle spontanee; la possibilità di connessione con qualunque luogo non lede l’utilità delle connessioni col vicino con l’obiettivo di costruire territori efficienti. Cadute le grandi cortine tra blocchi, le grandi aree limitrofe trovano ravvivati interessi di integrazione, di tessitura di trame territoriali fondate sulla reciproca specializzazione e scambio. La primavera araba, pur per molti aspetti tornando indietro senza maturare estati, non nasce anche da questo?

È come se scoprissimo di avere il mondo intero come orizzonte, ma che abbiamo molti, proficui e ignorati vicini, assai interessanti per la costruzione di territori retti ancora dal principio della distanza, quei territori della produzione materiale, del consumo, del trasporto, “tappeto” sottostante alla rete e ad essa necessario.
L’integrazione mediterranea è dunque una partita da giocare esplorando le centralità metropolitane che si stanno ridisegnando. Perduta la christalleriana riserva di caccia del mercato vicino, le città competono a scala globale, responsabili della competitività del loro territorio. Nuove gerarchie si stanno intrecciando inesorabili, premiando ora le città medie ora le rinnovate strutture metropolitane tradizionali.
Metropoli mediterranee capaci di animare lo sviluppo del potenziale produttivo delle due sponde non sono ancora apparse, il Mediterraneo appare ancora come uno spazio frammentato e periferico senza i luoghi capaci di pensarne una rinnovata funzione. Su che basi?

A partire dall’integrazione culturale, un massiccio lavoro di costruzione della comunicabilità da attuare accanto alla telematica delle reti ed all’alfabetizzazione tecnologica. L’integrazione mediterranea può portare alla realizzazione di uno spazio nel quale – oltre al “muro” tra Nord e Sud del mondo – cade l’altro confine reso illusorio dalla globalizzazione: quello tra terra e mare, nel senso che il mare cessa di essere uno spazio esterno e la trama dei luoghi si snoda in uno stile che è la sintesi stessa della civiltà mediterranea.

All’integrazione non dovrà contrapporsi una prospettiva infausta: che il Mediterraneo, anche dopo la primavera nord africana e il riemergere prepotente di domande di liberazione e mediorientali ritorni, un confine tra l’ordine ed il disordine, tra regioni quasi compiute e spazi informi. Ma l’immaginazione, questa immaginazione, è idea che, direbbe Calvino, comunica “con l’anima del mondo”? Pur costretta a seguire “altre vie da quella della conoscenza scientifica, può coesistere con quest’ultima e anche coadiuvarla?” O, come nelle storie fantastiche, diviene proprio perché, come nei racconti, ha all’origine un’immagine visuale e, al di là della fantasia, quella di una storia che si continua a produrre come geografia. Anche utopia che, ci insegna Dematteis, non deve essere sempre il non luogo ma anche l’antigeografia del presente.

Dalla Sicilia, regione limitrofa, pur con un insieme di antiche connotazioni comparabili e di relazioni che, anche se discontinuamente, ne derivavano, non possono ottenersi risposte a questi interrogativi.
Ma partiamo da una considerazione generale, quella delle attuali migrazioni mediterranee, e tentiamo di riportarla ai livelli di percezione di una Sicilia, che, pur in fasi alterne, ne aveva sperimentato sul suo essere popolo i dolorosi significati di diaspora.

Il catalogo, dal punto di vista strutturale, è questo: le migrazioni, per i dati che molto sommariamente esporremo, sono destinate ineluttabilmente a crescere e le politiche restrittive da sole non bastano e non basteranno in futuro a fermare la storia. Il riferirsi ai differenziali di sviluppo, ai livelli di sovrappopolazione, in aggiunta all’espulsione, declinata in vari modi, dovuta al divampare di stagioni conflittuali, e ai persistenti, crescenti del racket che lucra sulla speranza di gratificante approdo alle rive mediterranee d’Europa dà contezza del fenomeno. Un demografo, Massimo Livi Bacci, di fronte a questo diceva con forza che l’idea di usare le forze armate come polizia di frontiera era disumana, inopportuna sul piano della immagine perché avrebbe messo in non cale quell’ embrione di politica della immigrazione che pure cercavamo tortuosamente di darci. Più che con i marinai a Capo Passero, aggiungeva il demografo, il problema dell’immigrazione si sarebbe dovuto affrontare in una più ampia e meditata prospettiva che non poteva prescindere dai dati citati, non solo, anche se prevalenti, demografici. Il basso numero di nascite degli ultimi venti anni e il forte aumento della sopravvivenza alle età anziane stavano riducendo la popolazione italiana (ed europea) e modificandone rapidamente la struttura per età. Un modo per contrastare queste dinamiche era sicuramente essere rappresentato dalle migrazioni internazionali. L’arrivo di persone da altri paesi contribuisce, infatti, a ridurre (o a ribaltare) un saldo naturale negativo, e, data la più giovane composizione dei flussi e la più elevata fecondità degli immigrati, gioca un ruolo anche nel rallentare il processo di invecchiamento della popolazione. Le Nazioni Unite hanno presentato i risultati di uno studio teso a valutare proprio la possibilità che le migrazioni rappresentino una soluzione ai processi di declino
numerico e di invecchiamento delle popolazioni. Per restare al caso italiano, uno di quelli analizzati dalle Nazioni Unite proprio per la sua rilevanza, è stato calcolato che per mantenere al 2050 le attuali dimensioni della popolazione sarebbe necessario un flusso annuale di 240 mila immigrati. Se, invece, si volesse puntare a mantenere sui livelli attuali la popolazione tra i 15 e i 64 anni di età, l’apporto delle migrazioni salirebbe a 350 mila immigrati l’anno; infine, il flusso arriverebbe a 2,2 milioni annui se l’obiettivo diventasse quello di mantenere inalterato il rapporto tra popolazione in età lavorativa e anziani.

Già oggi flussi ben più modesti, però, creano problemi di gestione e di inserimento che mettono a dura prova le strutture esistenti e la convivenza urbana. Come se fossimo investiti da una sindrome che sa di ossimoro: servirebbero più immigrati ma sono troppi. Ma sono solo criminalità e/o clandestinità all’origine della resistenza dell’opinione pubblica? Sembra che le disponibilità verso logiche di accoglienza, pur dichiarate, restino in molti casi teoriche. Forse uno sforzo che ritrovi nella memoria i 4 milioni di emigranti italiani
sparsi per il mondo, farà avanzare processi di nuova comprensione del fenomeno? Certo, il disagio si è diffuso non solo perché il numero degli ingressi è aumentato vistosamente, ma soprattutto per i clandestini e per le intermediazioni criminali e mafiose: i clandestini, anche a prescindere dalle modalità di ingresso, rappresentano il 25 per cento della popolazione carceraria. Il dato del ministero degli interni attesterebbe una certa tendenza criminogena che, anche se ovviamente indotta e/o accentuata dalla marginalità e dalla nonaccoglienza, si tira dietro atteggiamenti di rifiuto rozzamente pregiudiziali. Il tutto diventa, più o meno
consapevolmente, paura. La xenofobia non è più soltanto un sentimento latente appena afferrabile. Sta prendendo forma politica. Ancora minoritaria, come circoscritti rimangono gli attacchi razzisti. Ma sono attacchi efficaci nel creare un clima di intimidazione. Attivano latenti e silenziose complicità. Oggetto della paura collettiva è l’immigrazione extracomunitaria, rafforzata da quella dall’Europa orientale, annunciata con una campagna multimediale di allarme. La maggioranza della popolazione dice di rifiutare ogni forma di razzismo; continua a dichiarare i suoi buoni sentimenti di comprensione umana e sociale. Ma negli atteggiamenti pratici è estremamente incerta e reticente. Vede nell’immigrazione innanzitutto un fattore di degrado socio-economico del proprio ambiente sociale.

Circa il 60% dei cittadini intervistati alcuni anni fa, reputavano che il “paese non è più in grado di accogliere immigrati, anche se regolari”. Riassumendo potremmo dire che l’immigrazione oggi costituisce un problema che, coinvolgendo l’opinione pubblica con tutte le motivazioni possibili -così come discendono soprattutto dalle menzionate crescenti venature di sapore razzistico, intollerante e ingeneroso fino al disumano- finisce per diventare di rilevanza politica, aggravata dalla pesantezza della crisi economica e purtroppo in presenza di scelte comunitarie, deboli e inconsistenti, in merito ad un recupero della sostanziale estraneità del sud mediterraneo, nonostante i documenti e protocolli di qualche decennio fa ricchi delle consapevolezze, solo
progettuali però, del Libro Bianco (J.Delors) e della Commissione per la politica regionale e per l’assetto territoriale del Parlamento Europeo (P. De Pasquale).
Torniamo alla Sicilia, alla sua ormai inconsapevole mediterraneità. Cerchiamo di riproporre un legame tra reminiscenze storiche e memorie culturali, in qualche misura segno di destino comune e anche di identità. In quest’invenzione della tradizione si è finito a lungo per crogiuolarsi, quasi per acquisire status all’interno della doppia valenza mediterranea-europea. Quello dei possibili «scambiatori», proprio perché posti dalla geografia su un carrefour di relazioni al centro di grandi dicotomie: nord-sud, sviluppo-sottosviluppo, occidente-oriente, cristianesimo-islam. E si è coltivato il respiro lungo di un mediterraneo tra geopolitica e geoeconomia. I temi sembravano tutti di fronte: ridefinire, ad esempio il Mediterraneo come antica grande regione, oppure come frontiera, quella dell’hic sunt leones, e non solo per mera esercitazione accademica, ma perché, anche senza accorgersene, in qualche modo tutto ciò non avrebbe potuto non essere coinvolgente.

Le proiezioni delle nazioni unite sulla questione demografica, già richiamati dicevano che nei decenni il divario tra popolazione mediterranea della riva sud e popolazione mediterranea della riva nord sarebbe stata di 7 a 1.

Ma al di là della transizione demografica come non prendere atto dei milioni di sfollati che cercano rifugio ed esprimono bisogno di sopravvivenza dopo carestie, epidemie, guerre, permanenti conflitti locali, persecuzioni, mutilazioni, violenze e massacri, e rivoluzioni, magari all’inizio cariche di primavera ma i cui esiti che continuano ad aggrovigliarsi senza soluzioni nelle tenebre di disperati inverni?

E allora come non pensare che, per la logica dei vasi comunicanti, una marea umana si sarebbe piaggiata e attraversato l’isola? Anche se le proiezioni delle N.U. oggi sembrerebbero essersi modificate, ormai è da rilevare che non è solo il Maghreb, più Libia ed Egitto, a muoversi, ma tutta la fascia subsahariana, regioni dell’Africa centro orientale a partire dalla Somalia, ed aree, di estremo disperato disagio, anche religioso e comunque postconflittuale, medio orientali e orientali.

In sostanza, è parte della popolazione mondiale, un esodo epocale, che si muove verso la Sicilia, attraverso la Sicilia. I continenti, a turno, hanno testimoniato di queste transumanze di popoli, di culture: dopo tragedie e olocausti, oggi vivono, assieme, il meticciato. La Sicilia del resto, e riprendo Tomasi di Lampedusa e il suo Gattopardo, era stata America dell’antichità…. Oggi non lo direbbe più nessuno, presi tutti dal diavolo dei respingimenti… L’importanza è avere alibi, attenersi alle competenze (ma quali?), buttare la palla comunque fuori dal proprio giardino. Che talune aree antropologicamente siano lontane dal percepire questo pathos, può apparire scontato, ma quelle, diciamo, culturalmente più attrezzate è possibile che non ricavino la necessità di comportamenti diversi dalla loro capacità di lettura, sempre che questa non sia solo millantata?

Le carrette del mare giungono sulle spiagge siciliane con impressionante regolarità e, dopo la primavera, con carichi decisamente in aumento. Un allucinante succedersi di carichi di dolore, un dolore antico e attonito, dove la sofferenza si coglie nei volti essiccati, nelle membra dissugate, nella gola incapace di emettere suoni o parole, nelle coperte che è come se volessero riscaldare un freddo dell’anima. E negli occhi terribilmente spalancati, alla ricerca di una via d’ uscita da una condizione post-umana. I riti delle istituzioni non riescono a sterilizzare l’inferno dei viventi. La vulgata razzista, per questa sterilizzazione appunto, si riferirà agli agenti patogeni esterni che si infiltrano e infettano il corpo della nazione. Ministri, con tragica aberrante paranoia, erano addirittura arrivati a chiedere nuove regole d’ ingaggio per la Marina per bloccare gli arrivi e dell’Esercito per la sicurezza interna. E il Mediterraneo, lungi dall’ essere il bianco mare dei romani, quello dei conquistatori, non sarà nemmeno il mare «in mezzo alle terre». Il mare del movimento, delle relazioni, degli scambi. E, invece del mare colore del vino di Omero e Sciascia, sarà il mare colore del sangue. Il parlamento siciliano la questione addirittura l’ha quasi sempre ignorata. Quasi che la Sicilia fosse un non-luogo, sostanzialmente estraneo agli impatti della geografia. Resta il vuoto riproporsi di temi mediterranei che enfatizza le liturgie politiche di alcuni. Il Mediterraneo, appunto, come un insieme di rituali retorici, di nessuna verità, di nessuna significativa produttività: intese su intese, per collaborazioni che non riusciranno a partire, solo risibili scambi. Negli anni 70, Urbani, Doglio –la prefazione era mia-, in La fionda sicula (Il mulino) prefiguravano, in una pianificazione di grande respiro, la Sicilia come essenziale «scambiatore» mediterraneo, capace di immagliare Sud e Sud-Est nei corridoi e nelle centralità europee.

Invece, non su queste rotte del desiderio, «scambiatori» lo si è stati in altro modo: la via del tabacco, quella delle droghe, quelle ancora delle armi, si sono intessute in una realtà ospitale, protetta, capace di intermediazione e di direzione nel mercato globale. Con un effetto domino nei territori della politica e della società. Ne sono stati impregnati modi di produzione e stili di vita. Poi anche «scambiatori» per trafficare uomini e speranze. Perché di questo si tratta. Dice un apologo indiano che il corpo di questi paria cadrebbe a pezzi se non fosse legato dal filo della speranza. La Sicilia questa speranza non riesce a immaginala né per sé, né per gli altri. Governo della Regione, parlamento regionale dichiareranno solo incompetenza (forse più culturale che istituzionale, e Dio sa quanto questo sia vero in entrambi i casi). La lettura delle vicende di regioni in positivo rivolgimento, e del dramma accentuato di migrazioni, per un combinato aggiungersi di espulsioni e attrazioni, un dramma millenaristico, sarà solo politica estera. E la Sicilia, che vive la sua autonomia esagerata, addirittura mitizzandola, non si è accorta di un dolore che si alimentava nella sua geografia, in quella stessa geografia dei presidenti che facevano i turni per trattare con il Rais libico, eletto ad improbabile bancomat, improbabili iniziative economiche. Adesso è come se si chiedessero documenti di identità al dolore. Autoconfinati in un non possumus di maniera, ipocrita e gelidamente omicida. Ma la Sicilia resta comunque crocevia, carrefour. La geografia costruisce storia. E invece ci si camuffa da danzatori sulle macerie, nel comune spazio mediterraneo, innalzando bandiere di paura e di insofferenza. Il sangue degli uomini che sbarcano dalle carrette, merce di mafia orripilante, non offrirà rendite ma scorrerà per isole e campi, «salati per sempre dalle lacrime -con tracce secche- tra figli morti senza memoria» poetava Neruda.

Ma era anche questo la Sicilia, dopo le tragedie degli anni Novanta, che aveva cercato di rifiutare un olocausto, tragico esito di antropologia antica e di persistenti blocchi storici, e gridato al mondo un impegno solenne, quello di lavorare per rendere più gentile il destino della sua terra?
Nei prossimi decenni quini nell’occidente ricco ed industrializzato immigrati, rifugiati, uomini che vogliono riaggrapparsi alla vita sfioreranno il miliardo. Circa un sesto della popolazione mondiale presseranno contro le aree sviluppate del pianeta. Da noi, come non fossimo porta dell’occidente, restano assordanti silenzi. Con M. Luther King avremmo dovuto pensare: beati coloro che saranno giudicati per la loro anima e non per il colore della loro pelle. Ma pensare questo da noi sarebbe stato eversivo. Tutt’al più si citano il sud e il sudest mediterraneo come, improbabili oggi, luoghi di investimenti, magari, in chiave aneddotica, come vecchi luoghi del baciamano di nostri presidenti a sanguinari dittatori per immaginare affari. Oppure, più di recente come luoghi di lucrose sperimentazioni universitarie: si pensi alla vecchia facoltà di Scienze politiche a Messina, concentrato di intellettualità di una «sinistra esibita», dove si era pensato di laureare «honoris
causa» il dittatore tunisino, proprio alla vigilia della rivoluzione che lo avrebbe invece universalmente laureato come “tiranno, assassino, malfattore”.
Certo qui da noi poteva essere difficile pensare a complessi meccanismi di inclusione sociale ampia e definitiva. Saremmo realisticamente rimasti soprattutto crocevia di transito. Ma perché non pensare almeno di umanizzare questi disperati approdi e dolorosi passaggi?

Meglio sperperare il bilancio della nostra «autonomia esageratamente speciale» in modo vergognoso e fraudolento, come quotidianamente ci viene ricordato?
“Non manca mai per il boia”, diceva Sciascia nel “Consiglio d’Egitto”. Ma non siamo la periferia dell’impero…la rete, le comunicazioni in tempo reale, la fine dell’attrito della distanza non può che annullare il nostro sentirci periferici, marginali. È vero questo essere così a sud per colpa(?) della geografia ogni tanto a molti sembra essere una sorte di condanna, ma non è una maledizione: è la scuola che non ha dato a tutti strumenti adeguati di consapevolezza. Questa geografia, tra cento altre cose, secoli fa ci ha consentito di essere gli interlocutori principali della grande civiltà greca che avrebbe colonizzato il mezzogiorno. Ricordate la Grecia? Partì, passò da qui, ci attraversò. Noi fummo la Magna Grecia …la speranza civile, la sopravvivenza possibile…i saperi, la vita. Non abbiamo vissuto conflitti culturali né con i “perfidi giudei” né con i musulmani “senza dio”, perché figli di un dio con nome diverso… Abbiamo vissuto assieme e le contaminazioni ci hanno reso più significativi. Siamo stati crocevia, carrefour… Non è un caso, tra i mille altri raccontati oggi nella lettura mediterranea da Caterina Resta, né negli “occhi dei viandanti” che con i loro sguardi, premesse di costante relazionalità come nel libro di M. Teresa Rodriquez, dicevamo non è un caso ancora che un profetico Ignatio de Loyola ci abbia scelto come primo luogo di una missione che avrebbe scritto la pedagogia del mondo: La ratio studiorum appunto, che per tutto l’occidente, anche per noi, fu progetto e metodo della crescita della modernità. Il papa polacco, quello delle esibizioni oceaniche e del perdono, a Messina purtroppo non lo ha ricordato: si affacciò da Montalto e guardando la falce del porto disse: “che bello!” Oggi questo, a futura memoria, è in una lapide.

Ma che fosse una visione d’incanto, mitica, lo sapevamo: le letture del paesaggio di Gambi, dei suoi allievi, dalla Ioli Gigante a tanti altri studiosi, e non solo della nostra scuola geografica, sono ormai dei classici.
Messina e il suo porto, il suo stretto, ab antiquo e nella storia dei luoghi leggendari, sono tra le cose più iconografate del mondo. Ci saremmo aspettati di più: ad esempio un qualche pentimento per il porto funzionale a Lepanto, sanguinosissima, come tutte le guerre, certamente non cristiana, dove te deum, benedizioni e preghiere erano vistosamente ossimori. La più tragica tra le Crociate. Chiusura ulteriormente catastrofica, sostanzialmente mai suturata, sottolinea Barbero, con l’oriente. Diciamo che ci saremmo aspettati da un papa un qualche rammarico visto che più volte aveva indossato il saio di penitente. Non per
sminuire le provinciali risorgenti auto-gratificazioni tardo-vandeane e di sanfedismo crescente, quanto, chiedendo perdono, per obbligarci a riflettere sul fatto che allora come oggi l’Oriente, il Sud, degli ultimi, non erano l’Inferno dei vivi. E che noi non avevamo l’esclusiva del bene. E Dio, pur con nomi diversi era Dio per tutti…non era Dio solo perché cattolico. La stampa isolana, in attesa di papa Francesco, un papa immune dalle, mai del tutto venute meno, logiche degli apparati di curia, a Lampedusa ha anticipato queste letture severe. Poi ha ripreso i consueti itinerari “della globalizzazione dell’indifferenza”. Quindi del nostro vivere questa tragedia epocale da estranei. In una regione esageratamente autonoma e di frontiera, ex ombelico mediterraneo, oggi visibilmente un non-luogo. Eppure eravamo stati terra di migrazioni bibliche strazianti. Ma negli ultimi anni soprattutto la regione era diventata intollerante: tutta coperta dall’alibi delle responsabilità europee, appunto un non-luogo, mascherato di oblio. Nessuno si aspettava dalla Sicilia interventi risolutivi: ma almeno una ospitalità caritatevole, amorosa, civile, si. Perché solo lager in risposta al grido di dolore? Perché tolleranti gestioni di fatto o criminose, complici di orripilante razzismo e di palesi schiavismi? Certo il tema è di portata Europa, ma noi siamo la porta di Europa e quindi all’inizio di una qualsiasi possibile speranza. Possiamo dimenticarlo? Sarà questo il nostro modo civile di elaborare il lutto?

Eppure anche noi, come ci dice Benjamin di fronte all’Angelus Novus di Klee, anche quando siamo con gli occhi spalancati e il viso rivolto al passato, cioè verso una catena di eventi, che vediamo come fossero una sola catastrofe, abbiamo alle spalle una tempesta che ci spinge irresistibilmente al futuro…e ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta.

La storia che saremo capaci di vivere dovrà disegnare la geografia del mediterraneo che verrà, delle terre che lo confinano, con cittadini diversi ma in quadro egualitario e condiviso pleno iure…a cominciare dallo ius civitatis, ci ricorda il grecista presidente del Gramsci Nicosia. E in realtà questo dovrebbe essere il portato di una elaborazione filosofica millenaria, frutto di una tensione intellettuale di forte contrasto che avrebbe dovuto segnare una modernità in irreversibile, continuo, diffuso accadere, ma che spesso diffusamente ed ugualmente vincente. Io per questo ritengo che per motivazioni di banale intendenza defilarci da Mare nostrum potrebbe essere funesto.
E chissà – suggerirei a Capodicasa del quale condivido in ampia misura la relazione – non sarebbe meglio invece dei burocratici colloqui ministeriali, magari amichevoli, cogliere l’anima del problema parlandone col vecchio viceparroco di S.Clemente (Messina) ora Cardinale ad Agrigento e alla Caritas, Montenegro?

Diceva La Pira: “la nostra geografia religiosa, spirituale, culturale, civile e politica non ha proprio nel bacino del Mediterraneo il suo spazio culturale?… la storia non si è fermata oggi proprio qui, per così dire, in attesa di una scelta e di una decisione?… queste domande non sono né fantastiche né astratte: esse pongono in piena evidenza il più concreto e il più improrogabile dei problemi storici del nostro tempo…. il tempio, la cattedrale, la moschea costituiscono l’asse attorno a cui si edificano i popoli e le nazioni e le civiltà che coprono l’intero spazio di Abramo”. E i riferimenti possono tornare a Savonarola, quando diceva che una città (Firenze) non poteva governarsi senza la legge evangelica e senza l’unità degli amori…Certo ci sarà sempre una distanza tra gli ideali e le cose, ma cosa importa se c’è la volontà degli amori uniti? Per questo un progetto mediterraneo, e dell’intero spazio di Abramo, dovrà ripartire da noi se ci rendiamo conto che anche da qui riappare, ancora una volta, il dramma della storia degli uomini.

Giuseppe Campione è stato Presidente Regione Siciliana. Già Ordinario di Geografia Politica dell’Università di Messina. Socio Onorario dell’Accademia Peloritana.

 

L’ARTICOLO È PUBBLICATO NEL PRIMO NUMERO DI ESPERIENZE MEDITERRANEE