Nel panorama culturale e artistico dell’inizio del Novecento, il dibattito sull’arredamento destinato alla casa popolare si carica di implicazioni sociali ed estetiche. Nel 1902, Vittorio Pica, critico d’arte dell’epoca, manifestava tutto il suo disprezzo nei confronti di una proposta espositiva presentata dalla Famiglia Artistica a Torino. Questa iniziativa offriva un arredo completo – sala da pranzo, camera da letto, studio e salotto – a un prezzo accessibile di 2.180 lire. Per Pica, era inaccettabile che il linguaggio sofisticato dell’arte potesse piegarsi alle necessità del mobilio destinato agli strati meno abbienti della società. A suo dire, una valutazione estetica rigorosa avrebbe rivelato la “miseria” di quegli ambienti.

Eppure, i mobili proposti dalla Famiglia Artistica non erano altro che una risposta pragmatica alle esigenze delle case in affitto: robusti, essenziali e sobri, richiamavano per spirito e design il gusto austero degli Shaker americani e il lavoro di Gustav Stickley negli Stati Uniti. Il vero motivo di irritazione per Pica non era tanto la presunta scarsa qualità, quanto l’approccio austero e funzionale, che limitava la decorazione alla purezza dei materiali e all’uso equilibrato del colore. L’arredo rifletteva questa filosofia: la sala da pranzo era in ciliegio, lo studio in castagno verniciato di verde, la camera da letto in castagno naturale.

Questa tendenza alla semplificazione si rivelò ben presto l’unica strategia efficace per contenere i costi nella lavorazione del legno. Dopo le rivoluzioni tecnologiche introdotte nel settore attorno al 1860 – come la sega a nastro, le nuove lame per impiallacciature più sottili e le pialle a vapore capaci di modellare qualunque superficie – il mobile aveva raggiunto un livello di economicità difficilmente riducibile ulteriormente. L’unica possibilità di risparmio consisteva nel minimizzare il lavoro degli intagliatori e rinunciare a tecniche complesse come l’intaglio a rilievo o applicato, pena la perdita di dettagli decorativi come foglie e tralci ornamentali.

Questi vincoli produttivi emersero con chiarezza nel concorso bandito nel 1907 dalla Società Umanitaria di Milano per la progettazione di arredi economici. Per l’alloggio tipo – composto da una cucina, pensata come cuore della vita domestica, e una camera da letto – i partecipanti non introdussero innovazioni nei materiali. Il legno rimase l’elemento centrale, declinato con qualche nota di raffinatezza: maniglie in acero bianco per i mobili in ciliegio, accenti cromatici discreti, lavorazioni rustiche come unico vezzo decorativo. La totale assenza di soluzioni in ferro indicava la mancanza di un dialogo tra artigianato e industria, segnale di un comparto ancora chiuso all’ibridazione tra le tecniche tradizionali e la produzione meccanizzata.

Emblematico di questa rigidità fu l’intervento di Marco Aurelio Boldi nel 1910, il quale, con una visione quasi utopistica, propose di eliminare il mobilio tradizionale in favore di una serie di vani incassati nelle pareti. Nella sua idea, armadi, comodini, librerie e persino lavabi avrebbero dovuto essere sostituiti da nicchie a giorno, con scaffalature in legno o ghisa al posto degli sportelli. Questa proposta radicale rifletteva l’assenza di un vero modello di riferimento per il mobilio popolare, lasciando il settore in una fase di sperimentazione incerta tra estetica, funzionalità e accessibilità economica.


L’Arte decorativa all’esposizione di Torino del 1902
Stralcio del testo originale di pagina 371

Peccato che non si possa dire lo stesso delle tre stanze di tipo economico esposte sotto l’egida autorevole della Famiglia Artistica di Milano! Vi è in ispecie la camera da Ietto che mi sembra proprio degna della punitrice tristezza di un penitenziario ed il cui autore non so come non abbia compreso che il congiungere l’attaccapanni al letto non è soltanto esteticamente ridicolo, ma è contrario ad ogni norma d’igiene ed al più elementare senso di praticità. So bene che vi è stato qualche giudice indulgente, che, non sapendo lodarvi altro, ne ha lodato le buone intenzioni, ma, per conto mio, sono convinto che, in fatto d’arte, le intenzioni per tanto valgono per quanto assu mono forme di bellezza.


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