Il teatro angloamericano è alle origini della modernità. Due figure emergono con particolare forza, George Bernard Shaw e Eugene O’Neill, lontani per contesto, ma accomunati da una radicale volontà di rinnovamento.
Nel panorama teatrale del primo Novecento si consuma una delle svolte più profonde della cultura occidentale. In Inghilterra e negli Stati Uniti, la scena teatrale si trasforma in un laboratorio d’idee, capace di interrogare la società, sfidare la morale comune e sperimentare nuove forme espressive. Due figure emergono con particolare forza: George Bernard Shaw e Eugene O’Neill, autori lontani per contesto e sensibilità, ma accomunati da una radicale volontà di rinnovamento.
La scena inglese e la ribellione di Shaw
All’alba del XX secolo, il teatro britannico vive un momento di stallo. L’interesse dello Stato è pressoché nullo e il palcoscenico è in mano a impresari più attenti ai profitti che alla qualità artistica. Tuttavia, la scena inizia lentamente a cambiare grazie all’iniziativa di autori e registi visionari. Tra questi, Granville Barker fonda nel 1904 una compagnia stabile al Court Theatre di Londra. Il suo nome resterà legato alla riscoperta e alla valorizzazione di George Bernard Shaw, un autore destinato a ridefinire l’identità del teatro inglese.
Nato a Dublino nel 1856, Shaw si trasferisce a Londra nel 1876. Autodidatta, si forma tra le sale del British Museum, scrivendo recensioni, articoli e saggi. Ma è il teatro il suo vero campo d’azione. Le sue prime opere trovano scarsa accoglienza: la critica conservatrice lo osteggia e il pubblico fatica ad accettare il tono provocatorio dei suoi testi. La svolta arriva con Candida, che inaugura la fase “gradevole” della sua produzione, seguita da opere più controverse come La professione della signora Warren.
Autore dalla forte impronta ideologica, Shaw incarna una figura rara: quella dell’intellettuale militante capace di tradurre idee politiche in drammaturgia. Vegetariano, femminista ante litteram, sostenitore del socialismo fabiano, si scaglia contro ogni ipocrisia sociale e religiosa. Nelle sue opere successive — da Major Barbara (1905), critica feroce del moralismo istituzionale, a Androclo e il leone (1912), attacco esplicito alla religione organizzata — emerge un pensiero anarchico e libertario, che si riflette anche nella struttura stessa delle sue pièce, sempre più lontane dal classicismo teatrale.
Shaw rompe con la tradizione non solo nei contenuti, ma anche nella forma. A differenza del più mondano Oscar Wilde, con cui spesso è stato paragonato, Shaw mira a riformare il teatro, rendendolo uno strumento attivo di riflessione sociale. Il suo capolavoro Pigmalione (1913), reso immortale anche dall’adattamento cinematografico che gli valse un Oscar nel 1939, è l’esempio perfetto del suo pensiero: una denuncia pungente della superficialità dell’apparenza, un’esplorazione sottile dei meccanismi del potere culturale e linguistico.
Il riconoscimento internazionale arriva nel 1925 con il premio Nobel per la Letteratura, che accetta con spirito ironico, rifiutandone tuttavia la ricompensa in denaro. La sua influenza si estende ben oltre la scena britannica, contribuendo in modo decisivo a rendere il teatro moderno un’arte viva, pensante e politicamente consapevole.
Eugene O’Neill: il dramma americano prende forma
Oltre Atlantico, il teatro nordamericano percorre una traiettoria parallela. Fino ai primi del Novecento, le scene statunitensi rispecchiano modelli europei, sotto la guida di figure come David Belasco. Ma è nei teatri d’avanguardia del Greenwich Village e nei circuiti indipendenti che si accende la scintilla del nuovo. Eugene O’Neill, figlio di un celebre attore irlandese, emerge come il primo grande autore autenticamente americano.
Nato nel 1888, O’Neill trascorre l’infanzia viaggiando tra i teatri e le stazioni ferroviarie al seguito del padre. Dopo un’adolescenza turbolenta e un’espulsione da Princeton, inizia una vita errante: marinaio, avventuriero in Honduras, giornalista, attore, e infine paziente in un sanatorio per tubercolotici. È proprio durante questo isolamento forzato che prende forma la sua vocazione teatrale.
Stabilitosi a Provincetown, nella vivace comunità intellettuale del New England, O’Neill comincia a scrivere testi brevi in un atto. I primi successi arrivano nel 1918 con i suoi “drammi marini”, intrisi di atmosfere cupe e malinconiche, influenzati da autori come Jack London e Joseph Conrad. Ma è con L’Imperatore Jones (1922) che O’Neill conquista fama nazionale: la storia visionaria di un ex galeotto afroamericano che si autoproclama imperatore è un affresco tragico e simbolico di potere, alienazione e colpa.
Nel corso della sua carriera, O’Neill compone 35 opere, tra brevi e lunghe, che rinnovano profondamente la drammaturgia americana. Le sue storie scavano nelle profondità della psiche, affrontano i fantasmi del passato familiare, e riflettono una visione esistenziale e tragica della vita. Il premio Nobel per la Letteratura gli viene assegnato nel 1936, a coronamento di un percorso che ha portato il teatro statunitense al centro della scena internazionale.
La sua biografia non è meno intensa delle sue opere. Sposato tre volte, O’Neill ebbe tre figli, tra cui Oona, che destò scalpore per il suo matrimonio con Charlie Chaplin, all’età di 18 anni. L’eredità artistica di O’Neill si è trasmessa anche attraverso i suoi discendenti, tra cui Geraldine Chaplin, attrice di rilievo.
Un’eredità viva
L’opera di Shaw e O’Neill ha contribuito a ridefinire i contorni del teatro occidentale. Entrambi, ciascuno a modo suo, hanno spinto la scena teatrale oltre la rappresentazione convenzionale, verso un territorio in cui le parole sono strumenti di lotta e le storie diventano specchi della condizione umana. In tempi di crisi culturale e sociale, il loro esempio continua a essere un riferimento prezioso: non solo per ciò che hanno scritto, ma per il modo in cui hanno saputo trasformare il teatro in un mezzo di pensiero critico e di coscienza civile.

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