Costruttivismo. Storia e stile del movimento d’avanguardia russo

Nel breve arco di tempo che separa il 1917 dal 1919, l’arte europea vive una trasformazione radicale. La Rivoluzione russa scuote le coscienze, il dopoguerra tedesco cerca un riscatto morale, e in Olanda un gruppo di artisti s’interroga sul significato universale della forma. Nascono così tre esperienze destinate a segnare il secolo: il costruttivismo russo, il neoplasticismo olandese e il Bauhaus. Diversi per contesto e linguaggio, condividono però un intento comune: abolire la distanza tra arte e vita, e restituire alla creazione artistica una funzione sociale concreta.

In Russia, l’entusiasmo rivoluzionario investe il mondo dell’arte con una forza inedita. I costruttivisti – tra cui Vladimir Tatlin, Aleksandr Rodčenko, El Lissitzkij e i fratelli Vesnin – si fanno interpreti di un’idea nuova: l’arte non più come contemplazione, ma come costruzione. Tatlin, con il celebre Monumento alla Terza Internazionale del 1920, sogna una torre elicoidale di ferro e vetro, alta più di 400 metri, simbolo del trionfo della tecnologia e della cooperazione collettiva. Un’opera mai realizzata, ma che diventa emblema dell’epoca: la bellezza deve nascere dal progetto, dall’efficienza, dall’utilità.
In architettura, le forme geometriche e le strutture metalliche sostituiscono le decorazioni borghesi; nei progetti dei fratelli Vesnin – dal Palazzo del Lavoro del 1923 agli uffici del “Pravda” di Leningrado – si percepisce la tensione verso un’arte partecipata, industriale, al servizio del popolo. Konstantin Mel’nikov, autore del Padiglione sovietico all’Esposizione di Parigi del 1925, porta questo spirito sulle scene internazionali.
Ma il sogno costruttivista si scontra presto con il realismo politico dell’Unione Sovietica. Con l’avvento dello stalinismo e la condanna dell’“arte formalista”, l’esperimento si interrompe intorno al 1933. L’utopia di un’arte collettiva lascia il posto alla retorica del realismo socialista, ma le sue idee – il design funzionale, l’uso dei materiali industriali, la fusione tra arte e architettura – sopravvivono in Occidente, influenzando le avanguardie successive.

Nel frattempo, a Leida, in Olanda, un’altra avanguardia nasce intorno alla rivista “De Stijl”, fondata nel 1917 da Theo van Doesburg. Accanto a lui lavorano Piet Mondrian, Georges Vantongerloo, Bart van der Leck e altri artisti che sognano una sintesi fra pittura, architettura e design. Il loro manifesto del 1918 proclama la necessità di un’arte universale, fondata su linee orizzontali e verticali, su colori primari e forme elementari. Mondrian riduce la realtà a una grammatica di rettangoli rossi, blu e gialli, attraversati da linee nere che separano e armonizzano gli spazi: è il trionfo della purezza, dell’ordine, della razionalità.
Per Van Doesburg, questa geometria assoluta può trasformarsi in architettura, arredo, tipografia, perfino in stile di vita. “Fare chiarezza e ordine”, scrive, è la missione del neoplasticismo: ricomporre il caos del mondo moderno attraverso una visione armonica e impersonale. L’esperienza, tuttavia, dura poco. Le tensioni interne portano all’allontanamento di Mondrian nel 1925, e pochi anni dopo, nel 1929, la morte di Van Doesburg segna la fine del gruppo. Ma l’eco di “De Stijl” continua a vibrare nei decenni successivi, alimentando il linguaggio del design moderno e dell’architettura razionalista.

Quando nel 1919 Walter Gropius fonda a Weimar la scuola del Bauhaus, quell’ideale di unione fra arte e vita trova finalmente una forma concreta. L’istituto nasce come scuola d’arte e mestieri, ma diventa ben presto un laboratorio di utopia sociale: il motto “l’arte deve tornare all’artigianato” sintetizza la volontà di superare la distinzione fra artista e tecnico, fra progetto e produzione.
Nei laboratori del Bauhaus – diretti da maestri come Paul Klee, Vasilij Kandinskij, László Moholy-Nagy, Lyonel Feininger e Oskar Schlemmer – si sperimentano materiali, tipografie, arredi, edifici. Ogni oggetto è pensato in funzione dell’uomo e dei suoi bisogni psicologici e fisiologici. La scuola di Gropius elabora così un linguaggio che unisce estetica e funzionalità, aprendo la strada al design industriale contemporaneo.
Dopo Weimar, il Bauhaus si sposta a Dessau, dove Gropius costruisce nel 1926 il celebre complesso scolastico in vetro e cemento, manifesto di un’architettura trasparente, razionale e collettiva. Anche qui, come in Russia e in Olanda, la fede nel progresso è assoluta: l’arte deve servire la vita e contribuire alla costruzione di un mondo nuovo.

Tutti e tre i movimenti condividono un destino simile: nati dal fervore idealista del primo dopoguerra, vengono travolti, pochi anni dopo, dall’avanzare dei totalitarismi e dalle nuove tensioni politiche. Eppure la loro eredità resta viva.
Il costruttivismo insegna la responsabilità sociale dell’artista, il neoplasticismo mostra la potenza del linguaggio universale della forma, e il Bauhaus traduce queste visioni in metodo, in scuola, in progetto di vita. Dalle loro intuizioni nasceranno il design moderno, l’architettura razionalista, la grafica funzionale.
In un’Europa segnata dalla distruzione e dal sogno di ricominciare, l’arte trova in queste esperienze la sua vocazione più alta: non rappresentare il mondo, ma costruirlo.


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