Alla fine della Prima guerra mondiale, l’Europa si trova travolta da una crisi senza precedenti. Gli imperi crollano, le società si polarizzano, le economie vacillano. Dalle macerie del conflitto nascono nuove speranze e nuove paure, che si trasformano in ideologie contrapposte: il marxismo rivoluzionario, la socialdemocrazia riformista e, infine, il fascismo, destinato a segnare la storia del Novecento.
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Il primo dopoguerra in Italia
Con il 1918 l’Europa esce lacerata sul piano politico, economico e morale. Le distruzioni materiali della guerra, la disoccupazione, l’inflazione e la difficile reintegrazione di milioni di reduci alimentano un diffuso senso di precarietà. L’ordine liberale ottocentesco, basato su istituzioni parlamentari e su una fiducia illimitata nel progresso, mostra tutta la propria fragilità. Il liberalismo, che aveva rappresentato per decenni il cuore della cultura politica europea, si rivela incapace di interpretare le nuove istanze della società di massa: un mondo in cui le folle, i sindacati e i partiti di massa chiedono partecipazione e giustizia sociale.
Il vecchio Stato liberale — elitario, fondato su un’idea di libertà individuale che escludeva larga parte della popolazione — non riesce a rispondere ai problemi sorti dal nuovo secolo. Le classi dirigenti, abituate a governare in nome del laissez-faire e della proprietà privata, non sanno più garantire equilibrio e coesione. Il malcontento cresce, le tensioni esplodono: scioperi, rivolte, tentativi di rivoluzione, guerre civili. L’Europa del primo dopoguerra diventa un laboratorio politico estremo, dove si sperimentano modelli di potere destinati a segnare tutto il Novecento.
In questo clima di instabilità, si riaffaccia con forza la dottrina marxista. Dopo anni di crisi e divisioni interne, il socialismo trova nuova linfa nella Rivoluzione d’Ottobre del 1917. L’esperimento bolscevico di Lenin, con la sua promessa di uguaglianza e di riscatto per i lavoratori, si diffonde come un’onda d’urto in tutto il continente. Nascono partiti comunisti, spesso legati all’Internazionale di Mosca, che propongono non semplici riforme ma rivoluzioni. Per milioni di proletari, il marxismo appare l’unica risposta possibile alla disoccupazione, alla fame e all’ingiustizia.
Ma non tutto il mondo socialista condivide la via rivoluzionaria. Accanto al comunismo, la socialdemocrazia cerca una terza via: l’evoluzione pacifica verso una società più giusta attraverso le istituzioni democratiche. Tuttavia, in un clima di paura e di radicalizzazione, la voce riformista resta minoritaria e spesso isolata. Gli stessi governi democratici faticano a contenere la pressione dei movimenti estremisti, mentre le élite economiche e politiche guardano con crescente sospetto alle masse organizzate.
In questo spazio intermedio, tra la paura della rivoluzione e la crisi dello Stato liberale, prende forma un nuovo attore politico: il fascismo. Nato in Italia, ma destinato a trovare eco in gran parte d’Europa, il fascismo si presenta inizialmente come un movimento proteiforme, capace di attrarre ex socialisti e nazionalisti, reduci di guerra e piccoli borghesi spaventati dal caos. La sua forza sta nella retorica dell’ordine, nella promessa di restaurare la grandezza nazionale e nel disprezzo per le procedure democratiche considerate deboli e inefficienti.
Dietro una facciata modernista e rivoluzionaria, il fascismo si rivela presto per ciò che è: una reazione autoritaria e violenta contro i cambiamenti sociali in atto. Conquista il consenso dei ceti medi impoveriti e il favore di parte delle élite economiche, che lo vedono come un argine contro il “pericolo rosso”. È così che, in Italia, Benito Mussolini ottiene nel 1922 il potere, inaugurando il primo regime totalitario dell’epoca contemporanea.
Il modello fascista, fondato sul culto del capo, sull’abolizione dei partiti e sul controllo capillare della società, diventa un precedente per altri movimenti analoghi: in Germania con il nazionalsocialismo, in Spagna con il franchismo, in Portogallo con il salazarismo. In pochi anni, il continente che aveva inventato la democrazia parlamentare e i diritti civili si ritrova travolto da regimi che esaltano la forza, la disciplina e la nazione.
La crisi del liberalismo, la delusione del socialismo e l’ascesa dei totalitarismi raccontano dunque una stessa parabola: quella di un’Europa che, nel tentativo di rispondere alle sfide della modernità, sceglie spesso la via della paura invece che quella del dialogo. L’“età delle ideologie”, come l’avrebbero definita gli storici, non è solo un periodo di dottrine contrapposte, ma il laboratorio drammatico da cui sarebbe emersa la seconda metà del secolo: un mondo diviso tra libertà e autoritarismo, tra progresso e catastrofe.
Il liberalismo in crisi
Alla vigilia della Prima guerra mondiale, il liberalismo era ancora il paradigma politico dominante in Europa. Fondato sull’individualismo, sul libero mercato e sulla fiducia nel progresso scientifico, aveva accompagnato l’ascesa della borghesia e la formazione degli Stati nazionali. Tuttavia, la guerra ne svela i limiti: di fronte alle masse mobilitate, alla propaganda, al potere industriale e militare, l’individuo liberale appare impotente. Dopo il 1918, la democrazia non basta più a garantire stabilità: servono nuove forme di partecipazione e di mediazione sociale che il liberalismo classico non è in grado di offrire. Da questo vuoto nasceranno tanto la democrazia di massa quanto i totalitarismi del Novecento.
La Rivoluzione bolscevica e l’impatto sull’Europa
La Rivoluzione d’Ottobre del 1917 rappresentò uno spartiacque nella storia del Novecento. Per la prima volta un movimento ispirato al marxismo riusciva a conquistare il potere, instaurando un governo che proclamava la fine del capitalismo e la nascita di uno Stato dei lavoratori. Guidati da Lenin e dai bolscevichi, i sovietici abolirono la proprietà privata dei mezzi di produzione, nazionalizzarono l’economia e costruirono un sistema politico fondato su un partito unico, il Partito Comunista.
L’impatto fu enorme. In pochi anni, l’Unione Sovietica divenne un punto di riferimento per milioni di operai e contadini in Europa e nel mondo. Le sue parole d’ordine — “pace, terra, pane” — parlavano direttamente ai bisogni delle masse stremate dalla guerra. L’Internazionale Comunista (Comintern), fondata nel 1919, si pose l’obiettivo di diffondere la rivoluzione oltre i confini russi, sostenendo la nascita di partiti comunisti in ogni paese.
La rivoluzione bolscevica suscitò entusiasmo e paura allo stesso tempo. Per molti lavoratori rappresentava la promessa di un mondo nuovo, libero dallo sfruttamento e dalle disuguaglianze; per le classi dirigenti, invece, era un incubo che minacciava di travolgere l’ordine sociale e politico europeo. Questa duplice percezione — speranza per alcuni, terrore per altri — contribuì a radicalizzare lo scontro politico nel continente.
In Germania, Ungheria, Italia e altrove sorsero movimenti rivoluzionari che tentarono di imitare il modello sovietico, spesso repressi nel sangue. Proprio come reazione a questi tentativi, in molti paesi si rafforzarono le forze nazionaliste e autoritarie che avrebbero poi dato origine ai fascismi. La Rivoluzione russa, dunque, non solo segnò l’inizio del primo Stato comunista, ma innescò una catena di trasformazioni politiche che avrebbero ridefinito il volto dell’Europa per tutto il secolo.

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