Edvard Munch – Autoritratto con l’influenza spagnola (1919)

All’indomani della Prima guerra mondiale, l’Europa si risvegliò da un incubo lungo quattro anni con una fame di vita tanto feroce quanto era stata la devastazione del conflitto. Nelle città, nei salotti borghesi e nei locali notturni, la voglia di lasciarsi alle spalle la morte e il dolore si tradusse in un’esplosione di vitalismo, che trasformò il volto della società, il ruolo delle donne, il costume, la moda. Ma in agguato, tra il 1918 e il 1920, un nemico silenzioso e più letale della guerra incombeva sull’umanità: l’influenza “spagnola”, la più tragica pandemia del ventesimo secolo.

Durante il conflitto, le donne avevano avuto un ruolo attivo, spesso accanto ai soldati, nei campi di battaglia e negli ospedali. Ma con la fine delle ostilità, la loro immagine pubblica cambiò radicalmente. Nelle metropoli occidentali la donna moderna si spogliava letteralmente del passato: gli abiti si accorciavano fino a scoprire le ginocchia, i tessuti si facevano leggeri, trasparenti, sensuali. Era l’inizio della flapper, la ragazza audace e irriverente che avrebbe segnato gli anni Venti. La figura femminile diventava aggressiva, sicura di sé, protagonista delle notti danzanti che animavano le sale da ballo di Parigi, Berlino, New York.

In questa nuova epoca dominata dal desiderio di evasione, il tango fu il primo a infiammare l’immaginario collettivo. Nato nei sobborghi di Buenos Aires, approdò in Europa attorno al 1910, imponendosi negli anni immediatamente precedenti la guerra per la sua carica sensuale. I suoi ritmi languidi e le movenze avvolgenti conquistarono le élite continentali, spodestando i balli americani come il boston e l’one step. Ma fu solo dopo il 1918 che il ballo divenne metafora esplicita di una nuova libertà: insieme al tango si affermò il charleston, frenetico e liberatorio, perfetto per gli abiti luccicanti e sfrontati delle donne emancipate. La Belle Époque, con i suoi fiori stilizzati e la sua eleganza decorativa, appariva ormai un ricordo sfocato. Il gusto si spostava verso forme più essenziali e funzionali: era l’epoca del Bauhaus, della modernità geometrica, della sintesi tra estetica e produzione.

Eppure, se la società occidentale sembrava lanciata verso un futuro sfavillante, il prezzo pagato per la pace fu altissimo. La pandemia influenzale nota come “spagnola” – che si abbatté sul mondo proprio mentre le armi tacevano – causò tra i 20 e i 50 milioni di morti, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Alcuni studi recenti portano il bilancio addirittura a 100 milioni, su una popolazione mondiale che allora contava circa 1,8 miliardi di persone. Un numero di vittime superiore persino a quello della Grande Guerra.

L’influenza colpì in tre ondate, tra il 1918 e il 1920, diffondendosi con una rapidità spaventosa. Contagiò circa 500 milioni di individui, quasi un terzo dell’umanità, con un tasso di mortalità che oscillava tra il 5 e il 10%. A rendere ancor più drammatica la situazione fu un’anomalia epidemiologica: a differenza delle influenze comuni, che colpiscono prevalentemente bambini e anziani, la spagnola aggredì soprattutto giovani adulti tra i 20 e i 40 anni, una generazione già decimata dalle trincee.

L’origine del virus va cercata nel pollame acquatico, con una probabile ricombinazione genetica che coinvolse anche ceppi dell’influenza suina. Il ceppo virale responsabile fu il sottotipo A/H1N1, definito dai virologi la “madre di tutte le pandemie”: una sua discendenza genetica si ritrova nelle influenze successive, dall’influenza asiatica del 1957 alla suina del 2009.

Nonostante l’immensa portata della tragedia, il nome “influenza spagnola” fu il frutto di un errore storico, o meglio, di una distorsione mediatica. La Spagna, paese neutrale durante il conflitto, non era sottoposta alla censura militare che oscurava le notizie negli altri Stati. Fu così che nel maggio 1918 l’agenzia Reuters riportò i primi casi della malattia a Madrid, incluso il contagio del re Alfonso XIII. Le cronache, inizialmente rassicuranti, parlavano di una “malattia di natura lieve” e senza vittime. Ma nel giro di poche settimane il nome “spagnola” si diffuse ovunque, anche grazie all’interesse dei governi belligeranti a nascondere la reale entità dell’epidemia nei propri paesi.

In Spagna, in realtà, la pandemia venne inizialmente chiamata “Soldado de Nápoles”, dal titolo di una zarzuela molto popolare all’epoca, “La canción del olvido”, eseguita per la prima volta a Madrid nel marzo del 1918, proprio alla vigilia dell’ondata influenzale. Nella stampa spagnola coeva, il termine “influenza spagnola” compare solo in riferimento alle lamentele sull’uso improprio di quel nome. Non senza ragione: è probabile che il virus fosse stato importato dalla Francia, dove nel 1917-18 lavoravano migliaia di cittadini spagnoli, molti dei quali tornarono a casa proprio prima che esplodesse la crisi sanitaria.

In Italia, la spagnola lasciò un’impronta devastante. I morti furono circa 600.000, in un contesto già segnato dalla fame, dalla crisi economica e dal collasso sociale postbellico. Questo scenario di lutto collettivo contribuì a spiegare, almeno in parte, l’ambivalenza culturale degli anni Venti: da un lato l’ebbrezza della vita, dall’altro un’estetica del languore, del pallore, dello sfinimento. Al cinema, trionfavano personaggi come Za la Mort, mentre sul palcoscenico Ettore Petrolini metteva in scena una comicità corrosiva, carica di malinconia e satira. I vampiri, i fantasmi, le dive eteree e tormentate, come Lyda Borelli, incarnavano il fascino ambiguo di un’epoca che mescolava morte e desiderio, eleganza e inquietudine.

In quel decennio sospeso fra catastrofe e rinascita, la società occidentale visse un’accelerazione inedita. La modernità – nei suoi aspetti tecnologici, culturali, emotivi – irrompeva nel quotidiano con forza. Gli abiti, i corpi, i balli, l’architettura, il modo di amare e di pensare: tutto veniva messo in discussione, reinventato, liberato da ogni retorica ottocentesca. Era finito un mondo, e uno nuovo prendeva forma – con tutte le sue promesse, le sue contraddizioni, le sue fragilità.


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