La tre giorni di Mandanici, giunta alla 14a edizione, mette a fuoco “La vita come viaggio eroico”. In questo incantevole borgo, parte dell’Unione dei comuni delle Valli joniche dei Peloritani, ogni anno, una cinquantina di studiosi si riuniscono nel Museo Etnoantropologico per argomentare il tema proposto dagli Organizzatori sotto aspetti disciplinari differenti: antropologici, filosofici, psicoanalitici e psichiatrici, giuridici, storici e archeologici, linguistici, fotografici, compositivi…
Naturalmente, Sergio Bertolami, continua imperterrito a parlare d’arte, quest’anno con un intervento dal titolo particolarmente curioso, perché “Manet et manebit” è un gioco di parole latine.
LA VITA COME VIAGGIO EROICO
L’ignoto, la paura, il coraggio, la scelta
Mandanici 6-7-8 settembre 2024
Manet et manebit:
l’eroismo sottinteso della vita
di Sergio Bertolami
Abstract La conversazione è incentrata sull’esordio artistico di Édouard Manet, precursore della pittura moderna. Attraverso quattro dipinti, che scandiscono la sua vita, tra ventisei e trentuno anni, si è cercato di descrivere l’eroismo del quotidiano, che Manet è stato capace di sublimare nell’universalità dell’arte. (Tempo d’esposizione per ogni relatore 20 minuti). Il relatore Sergio Bertolami, nato a Roma, di professione architetto, ha sempre operato per incoraggiare la diffusione e la conoscenza dell’arte e della cultura. Attualmente è editore e direttore della rivista online Experiences.it, in collaborazione con musei e gallerie nazionali, per la promozione di eventi e attività espositive nei settori dell’architettura e dell’arte moderna e contemporanea. |
Manet et manebit, “rimane e rimarrà”, è un motto spiritoso e leggero che compare sugli Ex libris della biblioteca di Manet.
Édouard Manet è uno dei precursori della pittura moderna. Per questo motivo il gioco di parole latine sta a significare che Manet “rimane e rimarrà” sempre un maestro, come affermato da Antonin Proust, il Ministro della Cultura francese del governo Gambetta (1881-1882) da non confondere col più famoso Marcel autore della Recherche.
Proust, compagno di scuola al Collège Rollin e amico di sempre, evidenzia: «Manet si è rivelato subito, dal giorno in cui, spinto dall’appassionato amore per la vita e dall’ardente desiderio di tradurre le sue impressioni più vive e moderne, si è liberato dai vincoli di una tradizione forse troppo attenta al culto delle cose scomparse».
In tutto questo, imprimendo fra i suoi amici il coraggio di avviare la rivoluzione impressionista, pur rimanendo sempre da parte sua un realista. È del suo realismo che vorrei parlarvi. Per farlo occorre cominciare dall’ignoto.
L’ignoto… come è il futuro
Manet ha diciotto anni e poca voglia di studiare. Ammette: «Io non leggo, guardo le figure». Ma una volta uscito dall’istituto classico Rollin deve scegliere la sua strada.
«Strana logica delle cose! – scrive Edmond Bazire – Lui, che ha dovuto lottare contro il gusto immobilizzato dei suoi contemporanei, ha iniziato con una lotta contro le ambizioni piccolo borghesi dei suoi genitori».
Il giovane Édouard esprime il desiderio di entrare all’École nationale supérieure des beaux-arts. L’École trovava collocazione nella stessa strada in cui abitava la famiglia Manet. I genitori preferirebbero che seguisse l’esempio paterno studiando legge. Suo padre Auguste è magistrato e cavaliere dell’ordine della Legion d’Onore, e sua madre, Eugénie Fournier, figlia di un diplomatico, è figlioccia del re di Svezia Carlo XIV.
Del percorso di studi indicato in famiglia, Édouard non vuole sentire parlare. A diciotto anni, «appena uscì dal collegio, si innamorò della pittura – commenta Emile Zola – Amore terribile quello là! I genitori tollerano un’amante, e anche due; si chiudono gli occhi, se è necessario, sulla licenziosità del cuore e dei sensi. Ma l’arte, la pittura, è per loro la grande Impura, la Cortigiana… che a volte compare nel bel mezzo delle famiglie e turba la pace dei nuclei domestici».
Édouard è uno studente troppo disattento per concentrarsi sulle leggi, riflettono i suoi, per cui il padre, incline all’autoritarismo, preferisce che affronti l’esame alla Scuola Navale. Bocciato in prima battuta, in attesa di un secondo tentativo, lo imbarca sul Le Havre-et-Guadalupe, un mercantile-scuola in partenza per Rio de Janeiro. Così, mentre la migliore gioventù d’Europa, quella che si dedicherà all’arte, percorre le strade del Grand-Tour in Italia e in Grecia, fino a Costantinopoli, Manet si trova a seguire la rotta opposta, verso il Nuovo Mondo.
Al ritorno, ribelle quanto prima, è respinto una seconda volta. Di fronte all’evidenza, i genitori si rassegnano all’inevitabile e gli lasciano abbracciare la carriera d’artista. Il problema è che per accedere all’Accademia, anche qui, occorre sostenere un esame. L’École des Beaux-Arts è una scuola severa, orientata alla tradizione, sulla base di principi consolidati da oltre un secolo. I più celebri artisti hanno aperto i propri atelier privati e, seguendo un rigoroso programma di lezioni, preparano gli allievi ai concorsi. Manet sceglie Thomas Couture. Ma presto insorge di nuovo la paura.
La paura… di avere sbagliato tutto
Couture è pittore affermato e apprezzato, in particolare dopo il trionfo al Salon del 1847. È stato consacrato per un’opera monumentale, tipica delle composizioni accademiche e conforme ad un soggetto storico e di grande impatto: I Romani della decadenza. È continuatore dell’opera neoclassica del grande Jacques-Louis David. Vende i suoi dipinti a un prezzo considerevole, cosa che rassicura non poco i genitori di Manet.
«In quest’epoca, si parla del 1850, noi avevamo diciotto anni – ricorda Proust – L’atelier Couture contava da 25 a 30 allievi. Come in tutti gli atelier per allievi, ciascuno pagava un abbonamento mensile per studiare dal vero un modello, uomo o donna. Couture veniva a trovarci due volte a settimana, esaminava i nostri studi con occhio distratto, ordinava una pausa di riposo, rullava una sigaretta, raccontava degli aneddoti, poi se ne andava».
Manet è assalito dalla paura che la soluzione praticata non sia quella del tutto giusta per lui. Il sistema d’insegnamento applicato da Couture lo esaspera: «Io non so perché sono qui. Tutto ciò che noi abbiamo sotto gli occhi è ridicolo. La luce e falsa, le ombre sono false. Quando arrivo in atelier, mi sembra di entrare in una tomba. So bene che non si può fare spogliare un modello nella strada. Ma ci sono i campi e, almeno in estate, si potrebbero fare degli studi di nudo in campagna. Questo perché il nudo sembra che sia la prima e l’ultima parola dell’arte».
Certe scenate di Édouard valicano il ristretto ambito dello studio, tanto che gira voce che da Couture ci sia un tizio, chiamato Manet, che sembra faccia dei disegni incredibili, ma non è affatto accondiscendente con i modelli. Invariabilmente c’è sempre un motivo di discussione, con Dubosc o Gilbert, modelli professionisti. Secondo l’opinione di Manet, quando salgono sulla pedana per tradizione assumono portamenti retorici. «Non potreste essere più naturali? – commenta Édouard sofferente – Vi atteggiate in questo modo quando andate ad acquistare un ciuffo di radicchio dal fruttivendolo?».
«Signor Manet – ribatte un giorno Dubosc con la voce strozzata – grazie a me c’è più di un pittore che ha fatto delle composizioni che l’hanno condotto al gran Prix de Rome».
«Noi non siamo a Roma… E non ci vogliamo andare – risponde Édouard – Noi siamo a Parigi… E intendiamo restarci».
Dopo ben cinque anni di corso preparatorio Manet lascia definitivamente Couture intorno al 1855, per aprire un atelier autonomo in rue Lavoisier. Lo fa senza tentare l’ammissione in Accademia: quindi decide di non acquisire un titolo di studio riconosciuto pubblicamente.
Ti tanto in tanto fa brevi apparizioni da Couture, per salutare gli amici e mostrare al maestro schizzi dal vero e copie realizzate durante le visite nei principali musei. Couture non manca di sollevare mille osservazioni. Il fatto è che Manet cerca di dipingere la realtà che lo circonda, non l’artificio accademico. Si chiede dove sia la verità e risponde: «È nell’espressione sincera delle cose vedute».
In rue Lavoisier realizza il Bevitore di assenzio, con cui esordirà presentando il dipinto al Salon di quell’anno 1859. Immancabilmente lo fa vedere a Couture, il quale – mettendo in evidenza che nel quadro nessun oggetto è stato rappresentato per lasciare intendere che il personaggio sia un alcolizzato, giacché bicchiere e bottiglia Manet li aggiungerà solo in seguito – apostrofa il suo ex allievo con sarcasmo: «Amico mio, qui non c’è che un bevitore d’assenzio. Siete voi che vi siete bevuto il cervello». È l’atto risolutivo del loro rapporto.
Il dipinto non è ammesso all’esposizione. Questo è un problema, perché il Salon è la vetrina ufficiale dell’arte francese. Le vendite degli artisti sono, infatti, legate alla notorietà che il Salon, di anno in anno, conferisce o revoca. Per Manet è anche qualcosa di più. il Salon è il luogo dove continuerà fino all’ultimo a voler condurre la sua battaglia artistica. Per fare questo, ci vuole coraggio.
Il coraggio… di affrontare la realtà
Appena terminato il Bevitore d’assenzio, Manet, nell’impossibilità di mantenere le spese d’affitto, che condivide con un altro collega, si trasferisce in rue de la Victoire. Lo stabile, più economico, è fuori mano. Gli edifici sono ancora separati da ampi spazi erbosi dove i bambini di povera gente giocano vivacemente. Il pittore ne invita uno, dall’espressione ardente e spigliata, ad aiutarlo in lavoretti di poca fatica: pulire i pennelli, fare qualche commissione. Fargli da modello.
Manet non può permettersi di pagare modelli professionisti. Per il Bevitore d’assenzio aveva chiesto di posare a un venditore di stracci e roba vecchia, conosciuto casualmente al Louvre. Ora Alexandre è ritratto come Il ragazzo con le ciliegie. Ma il biondino, dall’aria sbarazzina e vivace, è facile a crisi depressive che compensa con un’attrazione smodata per dolciumi e liquori. Così un giorno, nonostante i numerosi avvertimenti, sorpreso in un altro dei suoi piccoli furti, Manet minaccia di rispedirlo dai genitori. Poi, lascia lo studio per farvi ritorno qualche ora più tardi.
«Quali non furono il mio orrore e la mia sorpresa quando, rientrando a casa, la prima immagine che attrasse il mio sguardo fu quel mio piccolo ometto, lo spigliato compagno della mia vita, impiccato allo sportello dell’armadio! I suoi piedi sfioravano quasi il pavimento; una sedia, che senza dubbio aveva allontanato col piede, era rovesciata accanto a lui; la sua testa era convulsamente ripiegata sulla spalla; il viso gonfio, e i suoi occhi sbarrati con una fissità spaventosa, mi diedero per un attimo l’illusione che fosse ancora vivo».
È Charles Baudelaire, che narra questa terribile storia nella raccolta Le Spleen de Paris, omettendo il nome dell’amico Manet. L’orrore che descrive non è terminato. Baudelaire intitola il suo racconto La corda, perché è incentrato su quel pezzo di corda rimasto appeso all’armadio. La madre, davanti al cadavere del figlio ancora disteso sul divano dello studio, chiede a Manet quella corda. Solo il mattino dopo il pittore scopre che vale Mille franchi. Cento franchi ogni dieci centimetri: tanto i condomini dello stabile sono disposti a pagare quell’agghiacciante portafortuna. È giunto il momento di operare una scelta.
La scelta… di imparare a nuotare
I due dipinti, con cui mi avvio a concludere, sono fra i massimi capolavori della storia dell’arte. Sono ambedue sul cavalletto nel 1863, un anno di svolta assoluta, per l’arte e per Manet, che fa la sua scelta. Qualche tempo dopo confesserà a Mallarmé: «Ogni volta che dipingo, mi butto in acqua per imparare a nuotare».
La maggior parte delle opere di Manet sperimentano una nuova visione della realtà che, secondo lui, deve essere necessariamente rappresentata. Una realtà, talmente evidente, da sconvolgere la Parigi dei benpensanti. Allora come ora, i critici nel descrivere le opere di Manet continuano a spargere marmellate di gusti vari sulle sue “esagerazioni”, scaturite al contrario dalla ricerca e dagli sforzi fatti per respingere pregiudizi di cui oggi fortunatamente non sentiamo più il peso.
Il primo dei due dipinti è Le Bain (Il Bagno): questo era il titolo dell’opera proposta al Salon di maggio, ricordato come il Salon des Refusés (il Salone dei Rifiutati). È l’esposizione del 1863 parallela a quella ufficiale, celebrata in seguito come nascita dell’arte moderna.
Il soggetto è sfociato nella mente di Manet osservando dei bagnanti in riva alla Senna. Esposto al pubblico è stato invece letto, negli ambienti edulcorati e perbenisti, come un pranzo di campagna, un picnic, e il titolo che è finito per prevalere è Déjeuner sur l’herbe. Non dirò ciò che tutti i testi ripetono sulla modernità dell’opera basata sulle più sane tradizioni classiche che richiamano alla mente Tiziano e Raffaello. Dirò solo che la giuria ha risposto con un inesorabile rifiuto alle speranze nutrite dall’artista.
Mi soffermerò, invece, su qualche antefatto per chiarire un contesto sovente trascurato. Nel 1862 Auguste Manet, padre dell’artista, colpito della sifilide, si aggrava bruscamente e muore a settembre. Manet non ha più difficoltà economiche, perché usufruisce di un lascito testamentario di tutto rispetto. All’improvviso si trova ad essere il più ricco fra i suoi amici, persino del facoltoso Baudelaire che al contrario è stato interdetto dalla eredità paterna che sembra stia dilapidando. Il 15 maggio aprono il Salon ufficiale e quello des Refusés. Il 28 ottobre in Olanda Manet celebra le nozze con la donna che ama e con la quale vive, Suzanne Leenhoff.
Suzanne ha già fatto da modella nel suo dipinto La ninfa sorpresa del 1859, nelle vesti di una giovane fanciulla seminuda che ritrae pudica lo sguardo. Ora dovrebbe comparite nuda fra due uomini vestiti. Manet sa bene che, senza una giustificazione mitologica, storica o letteraria, quella nudità sarà giudicata scandalosa. Sostituisce perciò il volto di Suzanne con quello di Victorine Meurent. Finalmente può permettersi di retribuire una modella, che ha posato persino per Couture. La sta già ritraendo come Olympia, nell’altro quadro considerato “osceno” che presenterà al Salon del 1865.
Chi si aspettava di ritrovare nel migliore fra i saloni d’arte parigini dipinti idealizzanti o moralmente edificanti con Manet scopre la raffigurazione di una parte di società equivoca e scandalosa. Perché in realtà Manet con questi due quadri rappresenta l’amore comprato: au bord de l’eau (a bordo acqua), sulle chiatte ancorate lungo la Senna, o nelle case d’appuntamenti del demi-monde. E le polemiche infuriano.
Si racconta che una sera, uscendo dal Palais de l’Industrie, dove ha sentito idioti ridere e infuriarsi contro di lui, fermatosi sulla terrazza della gelateria Imoda in rue Royale, il cameriere gli porge meccanicamente la mazzetta dei quotidiani. «Chi ti ha chiesto i giornali?» reagisce con rabbia Manet, allontanando da sé le pagine del suo martirio.
Baudelaire, che segue con inquietudine le sue reazioni all’animosità pubblica, scrive ad un amico comune: «… Quando vedrai Manet, digli quello che ti dico: che sarebbe ingrato se non ringraziasse l’ingiustizia (nei suoi confronti). I pittori vogliono sempre un successo immediato, ma in realtà Manet ha facoltà così brillanti e leggere che sarebbe un peccato se si scoraggiasse. Non colmerà mai, assolutamente, le lacune del suo temperamento. Ha un carattere irascibile e non sembra sospettare che, quanto più aumenta l’ingiustizia (verso di lui), tanto più (la sua arte) migliora la situazione. Purché non perda la testa. Potrai dirgli tutto questo allegramente, e senza ferirlo».
A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
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